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[Il punto] Via il pareggio di bilancio dalla Costituzione: cancella Keynes per legge e impedisce sviluppo e lavoro

L’introduzione della drastica misura nella Carta fondamentale è stata adottata solo in Italia dal governo Monti dopo aver ventilato il pericolo default ma, secondo il M5S e altri partiti, ha prodotto solo tagli e sacrifici per i cittadini. E c’è anche il Coordinamento per la democrazia costituzionale che propone una iniziativa per cancellare la previsione

Ignazio Dessìdi Ignazio Dessì   
[Il punto] Via il pareggio di bilancio dalla Costituzione:  cancella Keynes per legge e impedisce...

Basta con austerity, fiscal compact e lacrime e sangue: servono politiche espansive. La nuova ricetta sventolata dal M5S, trionfatore delle elezioni, è anche l’auspicio di molti altri schieramenti. Dalla Lega a larghe fette della sinistra e non solo. Più spazio in altri termini a una visione keynesiana del mondo e stop alle politiche neoliberiste. Strada maestra, percorsa un tempo dalla sinistra storica, e abbandonata invece dagli ultimi governi italiani.

Un tema destinato a emergere

Ma cosa significa percorrere il sentiero keynesiano? Il tema promette di ridiventare fondamentale nel futuro politico del nostro Paese, con conseguenze decisive sugli assetti normativi. E il punto di partenza potrebbe essere la messa in discussione del cosiddetto vincolo del pareggio di bilancio inserito in Costituzione dal governo Monti nel 2012, caposaldo secondo molti delle politiche neoliberiste a oltranza, il cui fatale abbraccio – a ben vedere – ha condotto all’abbandono del Pd da parte di fasce rilevanti di elettori (operai, disoccupati, studenti, pensionati, classe media) che non si sono più sentiti rappresentati e tutelati. Troppi sacrifici richiesti, pochissimo ricevuto in cambio. E così i Dem si sono ridotti ai minimi storici.

Quanti hanno dichiarato invece l’avversione per tali politiche, come M5S e Lega, hanno catturato il consenso degli elettori. Ci sarà una ragione in questo, e la sinistra farebbe bene a meditarci sopra. Non è stata certo la scarsa efficacia comunicativa ad aver fatto la differenza: i cittadini hanno condannato le scelte concrete del partito di governo cadute sulle loro spalle.

La proposta di legge per l'abolizione

Il vincolo del pareggio di bilancio, architrave di quelle politiche punite dall’elettorato, allora potrebbe essere messo presto in discussione, qualunque sia il tipo di governo che si riuscirà a costruire. Se non altro per dare il senso del mutamento di direzione. Del resto, il Coordinamento per la democrazia costituzionale – che vanta lo stesso DNA  del comitato per il NO al referendum sulla modifica alla Costituzione – ha già depositato in Cassazione una proposta di legge di iniziativa popolare per eliminarlo dalla nostra Carta Fondamentale.

Una misura definita indispensabile

L'introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione da parte del governo tecnico del 2012, immediatamente dopo l’insediamento quasi fosse la cosa più urgente, è stata presentata come una risposta indispensabile al ventilato rischio default che incombeva allora sull’Italia. Si è sostenuto che  il nostro Paese subiva gli attacchi della speculazione finanziaria internazionale, mentre  lo spread tra i Btp e i Bund tedeschi saliva a livelli record, e per questo era indispensabile introdurre la misura. Ma era proprio necessario mettere questa  limitazione capestro in Costituzione? Come mai  altri Stati altrettanto in crisi non l’hanno fatto e gli unici ad accettare un simile peso siamo  stati noi italiani? Non esiste un altro Paese che abbia affrontato una crisi tanto grave in presenza di vincoli del genere. 

E inoltre, quali risultati abbiamo portato a casa con quella  mossa? Come stiamo adesso, in definitiva, a Pil, a debito pubblico, a occupazione, a stato sociale, a livello di tassazione, a benessere delle famiglie e dei giovani? Inutile sottolineare che brilliamo poco in mezzo ai Paesi Ue, nonostante qualche segnale di miglioramento. Ed anzi, il dopo elezioni si è presentato subito col rischio di una stangata di 31 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva e delle accise sui carburanti. A voler tirare le somme, qualche ragione potrebbe averla davvero chi parla dell’imposizione del vincolo per mera decisione ideologica: quella di chi, per affrontare la crisi, concepiva solo e soltanto ricette neoliberiste.

Il divieto di Keynes per legge

Quel vincolo, impresso a forza in Costituzione, rende obbligatorio ogni anno l’equilibrio tra entrate e uscite. Il divieto di spese in deficit impedisce in pratica le politiche keynesiane, recando con sé la cinica determinazione del non curarsi delle ricadute sulle persone pur di salvaguardare l’integrità dei conti. In definitiva lascia i cittadini  in balia del mercato anche se arrivano crisi cicliche. Il mercato bisogna invece correggerlo, altrimenti crea ingiustizie enormi, semina povertà e disperazione, convoglia ricchezza nelle mani di pochi potenti. E – per dirne una a caso - può perfino spedire tutti i maggiori aeroporti della Grecia tra le ganasce tedesche (ma questo è un altro discorso). Per questo servono interventi attraverso la spesa pubblica in risposta alle fluttuazioni del sistema economico, manovrando anche a dispetto dei conti immediati.

John Maynard Keynes

Con il vincolo del pareggio di bilancio ciò viene impedito, in un quadro dove, quali membri dell’Eurozona, non possiamo utilizzare più nemmeno strumenti di politica monetaria per affrontare i periodi peggiori. Il tutto all’insegna di un Fiscal compact che vieta di far deficit oltre lo 0,5 per cento e impone il processo di rientro (per ora nettamente fallito con le politiche di austerity) dal debito fino al raggiungimento del 60 per cento sul Pil.

L'aspetto più grave

Ma l’aspetto più grave di tale modifica costituzionale è l’annullamento della centralità della ricerca della piena occupazione, pilastro essenziale della Carta partorita dai padri costituenti. Un presupposto cui andrebbero sottoposti gli sforzi dell’apparato economico-finanziario. Ma le esperienze realizzate negli ultimi anni non vanno in questa direzione. E allora non ci si può definire progressisti e dalla parte dei cittadini - com’è avvenuto negli ultimi tempi - e poi, con gli occhi fissi soltanto ai numeri, difendere a spada tratta le politiche neoliberiste e gli interessi della grande finanza.

La crisi del resto non è stata debellata e il vincolo del pareggio ha portato soltanto carenza di sviluppo e lavoro, addossando i sacrifici peggiori in capo alle fasce più deboli. Sarebbero servite politiche espansive, investimenti statali e misure straordinarie, ma così non è stato.

E il debito nonostante tutto è cresciuto

E il debito pubblico, in nome del quale si sono chiesti quei sacrifici è continuato a salire. Anzi, per pagare gli enormi interessi di un indebitamento di cui non hanno responsabilità, lavoratori, famiglie,  pensionati, disoccupati e giovani si son visti sottrarre risorse preziose. Hanno assistito al taglio di stato sociale, sanità, istruzione e ricerca, senza benefici tangibili per il mercato del lavoro e senza cancellazione alcuna di privilegi e sperperi, cosa che pure era giusto e morale fare. E le proposte di Revisione della spesa (e degli sprechi), come quella di Carlo Cottarelli, sono state accantonate subito dopo aver visto la luce. Mentre hanno imperversato austerità e tagli. Ecco perché la sinistra sta sparendo, ed ecco perché serve un cambiamento di modello economico, cosa che gli elettori hanno chiaramente chiesto col voto.

Il ricatto ai lavoratori

Se l’unica attività dei governi diviene drenare entrate pari alle spese senza investire per lo sviluppo, le conseguenze sono inevitabili: si soffocano le attività economiche e si aprono le porte a privatizzazioni selvagge. Con la disoccupazione e la disperazione sociale si crea inoltre un potere di ricatto verso i lavoratori e un abbassamento degli stipendi, mentre  le grandi multinazionali fanno affari e si sfregano le mani, anche perché alla fine, tra piani di efficienza e finanziamenti pubblici, possono sempre spostare le loro attività dove possono guadagnare di più, come l’ultimo caso Embraco dimostra ampiamente. Le ricette neoliberiste dell'ultimo decennio e oltre - come si sottolinea ormai da più parti - hanno impoverito l’Europa, accresciuto le differenze tra i territori, smantellato i sistemi di welfare, favorito con strumenti quali il Jobs Act la precarizzazione del mondo del lavoro.

Manifestazione per il lavoro

Il vincolo del pareggio di bilancio, e le politiche neoliberiste di cui è massima espressione, eliminano la possibilità di concorrenza alle grandi corporation, creano monopolio del mercato  e portano alla sparizione delle piccole e medie imprese. E lo Stato - come il passato spesso insegna - viene fatalmente indotto a svendere servizi pubblici e industrie strategiche, mentre a guadagnarci sono sempre voraci holding e grandi speculatori che se ne impossessano a prezzi stracciati e poi, alla prima occasione, magari chiudono e licenziano.

Quante volte è accaduto anche in Italia, mentre la classe politica era magari intenta a innalzare  peana di vittoria su fievoli  avanzamenti di parametri economici come il Pil? Un Pil che andrebbe, per altro, letto con i parametri cari a Robert Kennedy (misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta), come da sempre ribadisce l’economista socialista Giorgio Ruffolo.

L'esempio di Obama

Il meccanismo del vincolo del pareggio di bilancio in Costituzione basato sulla dittatura dell’austerity, ha caratterizzato purtroppo l’agire di tutti gli ultimi governi, da Monti e Letta fino a Gentiloni e Renzi.  Si dice che era indispensabile. Eppure una decina di anni fa anche i repubblicani Usa, quando Barack Obama attivava misure economiche per lo sviluppo e l’occupazione nonostante ciò significasse l’aumento del debito pubblico, cercarono di far passare una misura simile. Dopo un duro dibattito i progressisti dissero no. Non solo, ben 4 premi Nobel (Kenneth Arrow, Peter Diamond, Eric Maskin e Robert Solow) sostennero il presidente Usa lanciando un appello contro il pareggio di bilancio obbligatorio.

La scelta italiana

In Italia si è accettato di imboccare di fatto una strada inversa, ed è grave, come fanno notare gli esponenti del Coordinamento per la democrazia costituzionale, aver sconvolto nel 2012 l’impronta storica della nostra Carta Costituzionale basata sul pluralismo e la democrazia. Per (tentare di) ridurre la spesa pubblica, costi quel che costi, si è rinnegato uno degli assunti principali della nostra Repubblica: garantire sopra ogni cosa i diritti fondamentali dei cittadini. Cosa ribadita dalla Consulta quando ha sancito in maniera chiarissima che “tali diritti sono un limite invalicabile”. Tanto che “deve essere la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non questo a condizionarne l’erogazione” (Corte Costituzionale, sentenza 275/2016). Insomma: prima di tutto vengono i diritti inviolabili delle persone, poi le ragioni legate agli equilibri delle finanze pubbliche, anche se nessuno nega che queste vanno tutelate al massimo.

Quale la priorità?

Si tratta tuttavia, come sempre, di darsi delle priorità: cosa viene prima tra la vita dei cittadini e i conti? Si tratta di decidere da che parte stare: c’è chi sceglie di mettere al centro i risultati finanziari, anche se ciò significa determinare la morte sociale delle persone, e chi l’essere umano. E non si può giustificare la scelta asserendo che per salvare le persone occorre prima far quadrare i conti. I conti possono quadrare anche in un periodo di tempo più ampio.

Per questo le forze che si reputano progressiste devono per forza rilanciare la lotta per la difesa dei principi Costituzionali. Ristabilire dei confini  al mercato e all’Unione Europea, attraverso un serrato confronto democratico. Eliminare la "proibizione di Keynes per legge” attuata col vincolo del pareggio, perché, come è stato osservato, ciò condanna all’austerità feroce e impedisce politiche espansive legittimando qualsiasi tipo di taglio allo stato sociale. E, come ormai constatato, non porta nemmeno a grandi risultati sui bilanci pubblici.

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