Mentre la claque applaude, i veri amici frenano il Cav: "Attento, vai a sbattere"
Per la prima volta da quando Silvio Berlusconi è sceso in campo, i numeri sarebbero dalla sua parte

Meno venti. Tecnicamente è la seduta numero cinque del Parlamento in seduta comune della diciottesima legislatura e, per la cronaca, le prime quattro si sono tenute tutte a inizio legislatura, nell’arco di tre mesi, fino a luglio 2018, per eleggere membri laici del Consiglio superiore della magistratura e giudici costituzionali.
Camera dei deputati e Senato della Repubblica sono convocati per lunedì 24 gennaio alle 15 “con la partecipazione dei delegati regionali”, ovviamente con un unico punto all’ordine del giorno: “Elezione del presidente della Repubblica”. E, chiaramente, il punto centrale di ogni discussione è la possibilità per Silvio Berlusconi di essere “davvero” il prossimo Capo dello Stato.
Per la prima volta da quando il Cavaliere è sceso in campo, i numeri sarebbero dalla sua parte. Dal 1994 ad oggi, prima si è trovato come Capo dello Stato, eletto dal Parlamento di Tangentopoli sull’onda delle bombe, Oscar Luigi Scalfaro, che poi fu il suo peggior nemico, antropologicamente prima ancora che politicamente.
Le altre volte, quando era in Parlamento, l’elezione del presidente è caduta sempre nei momenti in cui Berlusconi non toccava palla: e così sono usciti Carlo Azeglio Ciampi, ottimo presidente della Repubblica anche per il Cav, ma non eletto con i suoi voti decisivi; due volte Giorgio Napolitano, a cui, per ironia della sorte, anche Berlusconi dovette chiederlo la seconda volta, come una nemesi doppia e Sergio Mattarella, contro il quale Berlusconi ruppe addirittura il patto del Nazareno con Matteo Renzi (Berlusconi e il Pd non renziano puntavano tutto su Giuliano Amato), e che si è rivelato il miglior presidente della Repubblica forse di sempre o comunque nel Pantheon dei grandissimi.
I numeri parlano a favore di Berlusconi
Insomma, stavolta, per la prima volta nel suo quasi trentennio in politica, Berlusconi potrebbe dare le carte, partendo da oltre 450 grandi elettori, a poco più di cinquanta dalla maggioranza assoluta del collegio elettorale necessaria dal quarto scrutinio in poi.
Lui, ai suoi, continua a ripetere di averne pronti ulteriori 150, fra Misti, sinistra e Cinque Stelle in grado di ammortizzare qualsiasi franco tiratore, e ha già spiegato come pensa di conquistare la certezza dei rispettivi voti: formule diverse – Berlusconi on. Silvio, S. Berlusconi, Berlusconi secco, Silvio Berlusconi, on. Berlusconi e via di questo passo a identificare i gruppi di grandi elettori – o anche le foto della scheda durante il voto, vietatissimo e addirittura reato quando si vota per le politiche o le amministrative, ma non espressamente proibito da nessuna norma quando i grandi elettori sono riuniti come seggio elettorale.
C’è anche un precedente pesantissimo: quando, ai tempi dei 101 (ma in realtà furono almeno trenta di più) franchi tiratori che impallinarono Romano Prodi, di cui pure lui era stato ministro della Pubblica Istruzione nel secondo governo del professore bolognese, Giuseppe Fioroni mostrò la sua scheda con cui aveva votato Prodi per il Colle per allontanare il sospetto che lui e i suoi fossero i mandanti dell’agguato.
In verità, eventualmente, la scheda avrebbe testimoniato solo per Fioroni e non per tutti i fioronian-franceschiniani, ma dopo un goffo tentativo di scaricare tutte le responsabilità su Matteo Renzi (che a quel tempo aveva solo due grandi elettori, seppur autorevolissimi, come Paolo Gentiloni e Roberto Giachetti) molti sospetti si sono addensati sui dalemiani.
Comunque, il “precedente Fioroni” impedirebbe al Pd di urlare allo scandalo se Berlusconi facesse fotografare le schede con il suo nome. Eppure, nonostante tutto questo, sono davvero in pochi nel centrodestra a credere che Berlusconi possa farcela davvero.
Letta non siede al tavolo, Conte e il M5S allo sbando
Enrico Letta che non si siede nemmeno al tavolo con Matteo Salvini finchè il nome del Cav è sul tavolo, addirittura la tentazione di far mancare il numero legale ipotizzata dallo stesso Letta e da Giuseppe Conte, che vede il MoVimento Cinque Stelle allo sbando e in questo modo avrebbe l’unica speranza di tenere i suoi controllati, sono segnali inequivocabili.
E, ancora, le quarantene, i Green Pass e le positività che richiederanno ancora più voti – c’è chi ipotizza l’assenza di cento grandi elettori – perché comunque i quorum, sia quello dei due terzi delle prime tre votazioni, sia quello dalla quarta in poi, sono considerati sul plenum degli aventi diritti al voto e non sui presenti e votanti. Insomma, la montagna per Berlusconi diventa sempre più difficile da scalare.
In ambienti pentastellati, piddini, di Liberi e Uguali, dei Misti e forse anche renziani si ipotizza di fargli uno scherzo, facendogli arrivare qualche voto nelle prime tre votazioni – ma meno ovviamente di quelli necessari per fargli raggiungere il quorum dei due terzi – per fargli “fare la bocca” al Colle e poi mandarlo a sbattere. E’ una vecchia strategia della prima Repubblica, quando furono in moltissimi – ultimo della serie Arnaldo Forlani – ad arrivare a un passo dall’elezione e poi vedere scemare i propri consensi. Né Amintore Fanfani, né Giulio Andreotti, per esempio, riuscirono mai ad arrivare al Quirinale, nonostante i rispettivi sei e sette governi guidati da presidente del Consiglio.
Proprio per questo, mentre la claque berlusconiana lo asseconda nel suo sogno, magari sperando in una ricandidatura e Salvini e Meloni fanno buon viso a cattivo gioco, ma senza crederci troppo, i veri amici di Berlusconi gli dicono cose diverse. Un conto, infatti, è essere il king maker di una scelta, che renderebbe il Cav ancora centrale, un conto è subire quella scelta, magari solo dopo aver visto che il proprio nome è divisivo e non porta da nessuna parte.
Nel primo caso, infatti, potrebbe scattare il piano B ipotizzato da Gigi Grillo, uno dei tre senatori popolari che permise la nascita del primo governo del Cav a Palazzo Madama e raccontato da Tiscalinews un paio di mesi fa: un presidente della Repubblica per la prima volta non ostile, ma addirittura benedetto da Berlusconi, che poi potrebbe nominarlo senatore a vita, chiudendo il cerchio rispetto alla “persecuzione giudiziaria” che l’ha espulso dal Senato.
E non è un caso che i “veri amici” del Cav spingano verso questa soluzione: non solo Grillo, ma anche Gianni Letta, l’uomo che gli è da sempre più vicino, e che in un retroscena di “Repubblica” spiega ai suoi confidenti: “Sto facendo di tutto per far comprendere a Silvio che il rischio di bruciarsi è altissimo nella corsa al Quirinale che ormai si è intestato, ma sono l’unico che si è preso l’ingrato compito di farglielo notare”.
Anche il presidente della Liguria Giovanni Toti - che con il cerchietto magico berlusconiano di oggi ha pesantemente litigato, ma ha ancora affetto per il Cav, come si è visto anche nell’ultimo incontro romano dove c’erano anche Lorenzo Cesa, Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Maurizio Lupi e in cui Berlusconi e Toti hanno ritrovato il feeling umano da padre a figlio che ha sempre contraddistinto le loro storie personali e umane - ha spiegato le stesse cose al Cavaliere. Rendendole poi pubbliche in un’intervista al Secolo XIX: "Ci aspetta un voto balcanizzato e tribale. Se non verifica bene i numeri, Berlusconi rischia di fare la fine di Prodi. Per affetto e storia Berlusconi può contare sul mio appoggio. Ma deve verificare bene prima di andare in Parlamento con il rischio di scivolare come successe a Prodi".
E, sempre Toti, stavolta al Corriere della sera ha spiegato: “Sarebbe bella una cosa che il nuovo Capo dello Stato nominasse senatori a vita Berlusconi e Prodi, simboli di una stagione travolgente e drammatica come quella della Seconda Repubblica: sarebbe un modo nobile per pacificare e svelenire una politica che negli ultimi anni non ha dato il meglio di se stessa”.
E così un cerchio si chiuderebbe, senza nemmeno controindicazioni giuridiche visto che Sandro Pertini e Francesco Cossiga hanno rotto il tabù secondo il quale i senatori a vita avrebbero dovuto essere solo cinque in totale, facendo prevalere la dottrina secondo cui ogni presidente della Repubblica ne può nominare cinque. E’ l’uovo di Colombo (che fu anche un senatore a vita, Emilio, ma questa è un’altra storia).