[il caso] La rabbia delle regioni rosse. Rischio “disobbedienza”. Eppure le regole per convivere con il virus risalgono al 30 aprile
Guerra totale con i governatori. Fontana: “Usate dati vecchi di una settimana, le cose oggi sono diverse”. Così all’ora di cena Conte torna in tv per l’ennesima conferenza stampa con tanto di slide per comunicare chi va in lockdown e chi lo scansa. Il 30 aprile Speranza firmò il decreto per fissare le regole del monitoraggio del virus. Le regioni lo hanno adottato il 16 ottobre. E comunque da allora potevamo risparmiarci tre Dpcm
L’unica “buona” notizia è che possiamo dire addio al tormentone settimanale del Dpcm con la relativa cerimonia di richieste, indiscrezioni, attese, annunci e conferenze stampa. Quello andato in Gazzetta ieri e operativo da domani dovrebbe essere l’ultimo di una serie lunga 23 decreti in otto mesi, una via crucis di privazioni, divieti, sofferenze che nessuno di noi vorrebbe più ricordare. La differenza è che adesso ne è entrato in vigore uno di tipo “modulare”: lo stesso provvedimento è adattabile infatti a più situazioni di emergenza sanitaria. Le “buone notizie” finiscono qua. In qualche modo possiamo dire che inizia qui e adesso la nostra convivenza con il virus. Abbiamo perso cinque mesi. Non siamo gli unici. Ma non può essere consolatorio.
Il braccio di ferro
La firma del Dpcm nelle notte tra martedì e mercoledì, nel mezzo dello spoglio americano, è stata solo l'inizio del lungo braccio di ferro tra governo e Regioni. Tanto che al termine di una giornata a dir poco caotica in cui i cittadini da sud a nord sono rimasti tutto il giorno in attesa di sapere che sarà delle loro vite e attività lavorative, il premier Conte è stato costretto ad una doppia mossa: rinviare di 24 ore l’entrata in vigore del Dpcm e tornare a parlare agli italiani. Il calo nei consensi -7 punti in due settimane - e la guerra con i governatori sono solo le ultime due difficoltà che si aggiungono ad una situazione molto complicata politicamente ed economicamente anche per un abile navigatore concavo e convesso quale è Conte. “Bisogna predisporsi a un momento un po’ difficile per poi rifiatare un po’” ha esordito. Nei mesi del primo lockdown questa premessa ha tranquillizzato gli italiani. Adesso ogni sera c’è una marcia di protesta in qualche città.
La conferenza stampa è stata convocata per le 20 e 30 giusto in tempo per parlare a tutti gli italiani seduti a cena (a casa, ovviamente). E arriva dopo l’ennesima giornata giornata caotica. Questa volta la divisione non è a livello di maggioranza ma si consuma fino allo strappo con i Presidenti di regione. Nei fatti Conte gli ha mollato in mano il cerino - acceso - della crisi. Finora se ne è fatto carico lui solo e per un bel po’ ne ha tratto beneficio: è stata la fase del lockdown per tutti, delle pagine Fb con “le bimbe di Conte” e del 60% di gradimento personale. Adesso che il vento è cambiato e che arriva la parte difficile - chiudere a pezzi il paese e motivarlo - , è giusta e necessaria una più larga condivisione dell’onere del comando. L’esercizio legittimo di quella autonomia che i governatori pretendono e in questi mesi hanno rivendicato in ogni occasione.
Così, dopo un pomeriggio di vaffa in presenza e a distanza, al limite della disobbedienza civile - che in parte ci sarà - al tavolo della “cabina di regia” (un’altra, ebbene sì) ministero della Salute, Cts e ministri Speranza e Boccia, il premier decide il rinvio e, soprattutto di parlare agli italiani per dare la lista delle regioni e delle chiusure. Non è stata chiusa, non c’è l’accordo ma gli italiani devono sapere, Salvini è già lì che zuppa il biscotto su ritardi e pasticci, ed è necessario comunicarla. Con buona pace per le gocce di sangue freddo sulla fronte di Speranza.
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Gialla, arancione e rossa, ecco la mappa dell'Italia
I colori delle regioni
L’Italia diventa un tricolore giallo-arancione-rosso. Il verde non c’è perchè “il virus è ovunque e in tutto il paese è in vigore un light lockdown di colore giallo”. In quindici regioni - tutto il centro, la Sardegna, Veneto e Friuli - valgono le regole delle ultime due settimane. A cui si aggiunge il coprifuoco dalle 22 alle 5 del mattino, il trasporto pubblico al 50% della capienza, a scuola fino alla terza media compresa, la chiusura di musei e dal bingo e dei centri commerciali nel fine settimana. In zona gialla finiscono Puglia e Sicilia, dove si aggiunge la misura della chiusura totale di bar e ristoranti sette giorni su sette, il divieto di lasciare la regione ma anche il comune di residenza salvo i già noti “comprovati motivi di lavoro, salute e necessità”. In poche parole torna l’autocertificazione. Non sarà però più vietato uscire di casa come nella prima fase. Neppure nella zona rossa dove vengono rinchiuse Calabria, Piemonte, Lombardia e valle d’Aosta. Qui è tutto chiuso tranne alimentari, carrozzerie, farmacie, edicole, ferramenta e i beni necessari. I bambini possono andare a scuola fino alla prima media.
Il caso Trentino
Sparisce improvvisamente dall’elenco la regione del Trentino-Alto Adige dove il contagio è stimato “molto critico”e dove in nome dello statuto speciale in queste settimane bar e ristoranti hanno fatto un po’ come hanno voluto. Conte non ne parla. Lo fa al suo posto il presidente della provincia autonoma di Bolzano Arno Kompatscher e non sono parole distensive: “Quello che crea tanta confusione in Alto Adige è che si continua a guardare al Dpcm e alle misure statali. Questo va evitato, noi abbiamo la nostra autonomia, ci muoviamo con le nostre ordinanze e posso garantire che usiamo la stessa base scientifica che sta usando lo Stato e anche la stessa logica”. Nelle oe precedenti sono 23 i comuni-cluster dove è scattato il lockdown.
La rabbia delle regioni rosse e arancioni
Decisione “ingiusta”. Una scelta “assurda”, uno “schiaffo ai lombardi”. L'attacco dei governatori delle Regioni inserite nella zona rossa e arancione parte molto prima della conferenza stampa del premier. Anzi, ne sono state la causa. E trova immediata eco nelle dichiarazioni del leader del centrodestra Matteo Salvini: “Chiudono in casa milioni di italiani, in diretta tivù, sulla base di dati vecchi di 10 giorni, senza garantire rimborsi adeguati. E intanto lasciano sbarcare più di 2.000 clandestini in poche ore”. E meno male che il Presidente della Repubblica in questa settimana si è mosso tanto in nome dell’”unità” e della “coesione”.
Il più duro è il governatore della Lombardia Attilio Fontana che già a metà pomeriggio denuncia senza appello Conte e Speranza. “Le richieste formulate dalla Regione Lombardia, ieri e oggi, non sono state neppure prese in considerazione. Uno schiaffo in faccia alla Lombardia e a tutti i lombardi. Un modo di comportarsi che la mia gente non merita, una decisione grave e inaccettabile”. Tra le richieste di Fontana c’è quella di capire “in base a quali dati vengono assunte le decisioni perchè se sono quelli di una settimana fa, oggi la situazione è già molto diversa visto che nel frattempo sono stati già fatti molti sacrifici”.
Anche il presidente facente funzione della Calabria Nino Spirlì parla di “scelta ingiusta”: “L'ho appreso alle 20 dalla telefonata del ministro Speranza. C’è costernazione, rabbia e sgomento. Penso alle migliaia di imprese che saranno costrette a chiudere i battenti forzatamente e, a mio parere, senza un motivo valido”. Silente il presidente del Piemonte Cirio mentre il collega siciliano Nello Musumeci (arancione) parla di “scelta assurda e irragionevole, al di fuori di una legittima spiegazione scientifica”. In zona arancione c'è anche la Puglia. Michele Emiliano non parla ma fa scelte che vanno in direzione opposta al Dpcm: tutte lei scuole di ordine e grado infatti in Puglia restano chiuse mentre il Dpcm le vuole in presenza fino alla terza media. Vincenzo De Luca chiede da settimane il lockdown nazionale, più che la Campania è Napoli fuori controllo. E lui non sa come fare ad evitare gli assembramenti sul lungo mare il pomeriggio, la sera e i festivi. La regione resta invece gialla. E l’attacco al governo è pesante. “Si assumerà la responsabilità sanitaria e sociale conseguente alle sue scelte, sempre ritardate, e sempre parcellizzate”. Anche in Campania le scuole resteranno chiuse. Primi segnali di disobbedienza civile. E vedremo da domani cosa succederà in Lombardia.
“Nessuna contrattazione”
Il premier in conferenza stampa risponde un po’ a tutte le critiche. Sui dati, è necessario che “siano stabilizzati per almeno due settimane prima di promuovere o bocciare una regione”. Ecco perchè la verifica sarà fatta ogni quindici giorni sui numeri dei quindici giorni precedenti. E’ un criterio, pare, scientifico. Come tutti quelli adottati per gestire questa fase “non facile” dove c’è chi parla già di “contrattazione sui dati” e addirittura di “dati truccati” (cit Crisanti). “Nessuna contrattazione - taglia corto Conte, per oggi e per il futuro - i criteri sono definiti e oggettivi e sfuggono ad ogni contrattazione”. Così come, aggiunge, “non è corretto parlare di contrasto con le regioni visto che il flusso di dati viene elaborato e fornito dalle stesse regioni che quindi partecipano fin dall’inizio alla decisione”.
Tutto noto dal 30 aprile
Piaccia o no, è questo il criterio e la modalità di gestione e di convivenza con la pandemia nei prossimi mesi. Finalmente, si potrebbe dire. Il punto è che quello che succede oggi poteva, doveva accadere a maggio scorso. I criteri scientifici per la chiusura in caso di ripresa del contagio della più che prevista seconda ondata sono noti dal 30 aprile scorso. Però non sono stati comunicati nè condivisi. Nè con le regioni. Nè con i cittadini. Il 30 aprile scorso il ministro Speranza ha firmato un decreto con cui - si legge - “sono adottati i criteri relativi alle attività di monitoraggio del rischio sanitario”. Con quel documento il governo ha inteso preparare un percorso con regole chiare “nei casi in cui dal monitoraggio emerga un aggravamento del rischio sanitario” misurato secondo determinati parametri. In quel caso, si legge ancora, “il Presidente della Regione propone tempestivamente al ministro della Salute le misure restrittive necessarie e urgenti per le aree interessate all’aggravamento”. In sostanza il 30 aprile viene deciso chi-deve-fare-cosa se i contagi riprendono a crescere e quali conseguenze se non si fermano. Ed è chiaro, già dal 30 aprile, che il premier Conte ha deciso di lasciare ai governatori - dopo mesi di accentramento totale - l’autonomia nella gestione della pandemia.
Il decreto del 30 aprile, più allegati, in sostanza è il libretto di istruzioni per l’uso per i cittadini e per chi li governa per fronteggiare “una rapida ripresa” del virus più che probabile considerato il basso livello di immunità. In quattordici pagine il decreto stabilisce 21 parametri che incrociati con l’indice Rt (indice di trasmissibilità) “ogni settimana devono produrre una classificazione aggiornata del rischio per ciascuna regione”. In base al monitoraggio sono previsti i quattro scenari di cui ora si parla - da 1, normale, a 4, il più grave - e le conseguenze in termini di lockdown più o meno estesi.
Questo illuminante documento è rimasto lettera morta fino al 16 ottobre quando è stato approvato dalla conferenza Stato-Regioni. Solo allora - e i buoi, cioè il virus, erano già scappati - i governatori hanno avuto contezza di quello che avrebbero dovuto fare nei mesi estivi quando il contagio era basso.
Due osservazioni. La prima: dal 30 aprile al 16 ottobre, il decreto è rimasto lettera morta. Colpa della campagna elettorale? La seconda: dal 16 ottobre Conte ha firmato tre diversi Dpcm. Perchè non è stato subito elaborato questo con le regole già previste il 30 aprile? Come minimo ci saremmo risparmiati due settimane di caos.