Il Nuovo Dizionario della crisi di governo 2019/1. Il rito delle consultazioni si apre al Quirinale
Nascerà un nuovo governo, in Italia, o si andrà, rapidamente, alle urne? Per ora, quien sabe?, non si sa, ma è possibile ipotizzare alcuni scenari

Torna il ‘Dizionario’ della Crisi di governo, anno 2019, che si affianca a quello dell’anno scorso: 2018. Si parte con le consultazioni. Cosa sono, come si svolgono, aneddoti.
Una premessa politica. Cosa può succedere
Governissimo? Governo tecnico? Governo elettorale? Riedizione di un governo gialloverde sotto forma di ‘governo di scopo’ per il taglio del numero dei parlamentari e per varare la manovra sempre sotto l’egida gialloverde? E guidato da chi? Ma soprattutto nascerà un nuovo governo, in Italia, o si andrà, rapidamente, alle urne? Per ora, quien sabe?, non si sa, ma è possibile ipotizzare alcuni ‘scenari’.
Innanzitutto, va detto che siamo agli atti finali del governo Conte che, ieri pomeriggio, ha scelto di recarsi, in qualità di presidente del Consiglio, a palazzo Madama (dove prese, più di un anno fa, la prima fiducia) per tenere le sue ‘comunicazioni’ su una crisi politica che è nei fatti, ma che non era stata ancora realmente formalizzata. Si chiama ‘parlamentarizzazione’ della crisi ed è una scelta. Conte, infatti, avrebbe potuto rassegnare le sue dimissioni, una volta venuta meno la fiducia della Lega, espressa in più sedi politiche dall’8 agosto (voto sulla Tav in poi), ma che non ha mai, ancora, formalmente, ritirato i ministri dal governo.
Il premier, dunque, ieri ha chiesto di andare in Aula: voleva sentirsi ritirare l’appoggio della Lega al suo governo lì. Conte, però, non attende il voto su eventuali mozioni (di sfiducia della Lega o di fiducia dell’M5S) e sale al Colle, subito dopo aver ascoltato il dibattito in Aula, per dimettersi. Così, fino all’incarico a un suo successore, cioè di un nuovo governo che, giurando nelle mani del Capo dello Stato, a prescindere che tale nuovo governi prenda o meno la fiducia da parte della Camere, Conte resta premier dimissionario, ma non sfiduciato, per gli ‘affari correnti’.
A partire da oggi, una volta rassegnate le dimissioni, e sfiduciato o meno che sia Conte, Mattarella darà luogo alle consultazioni di rito. Ascoltati tutti i gruppi parlamentari, che possono farsi accompagnare dal segretario o leader del partito di loro riferimento, il Capo dello Stato deciderà se conferire un nuovo incarico – e a chi – per formare un nuovo governo. Oppure, verificata l’impossibilità di dare vita a una nuova maggioranza, deciderà di sciogliere le Camere con un suo decreto controfirmato dal premier.
E già in questo, caso scatta una prima variabile. Ove Mattarella decidesse di sciogliere le Camere e convocare, al più presto possibile, elezioni anticipate (tra 45 e 70 giorni è il tempo che deve intercorrere per indire i comizi elettorali), è vulgata comune che il Colle non lascerebbe in carica il governo attuale, ma nominerebbe un governo ‘elettorale’. Precedenti, nella storia repubblicana, ce ne sono pochi (il governo Fanfani Vi dell’estate 1987 è tra questi), ma in ogni caso si tratterebbe di un governo ‘a tempo’, che non otterrebbe la fiducia delle Camere ma che, pur sfiduciato, porti il Paese al voto. Per un governo di tale natura girano i nomi di costituzionalisti di vaglia, come Giovanni Maria Flick o Valerio Onida come quelli dell’attuale ministro del Tesoro Giovanni Tria e dell’economista Carlo Cottarelli.
Ove, però, Mattarella riscontrasse, sentite le forze politiche, la possibilità di dar vita a una nuova maggioranza, si aprono scenari molteplici e di difficile valutazione, al momento. La scelta primigenia potrebbe essere quella di un governo ‘di scopo’ che conduca in porto la manovra economica nei tempi stabiliti e che completi alcune riforme istituzionali rimaste ‘in coda’ all’attività delle Camere (soprattutto il taglio del numero dei parlamentari cui mirano i 5Stelle). Definibile anche come governo ‘di tregua’ o, nelle dizioni che ne fanno alcuni (Renzi), governo ‘no tax’ (l’obiettivo sarebbe di disinnescare l’aumento dell’Iva e delle accise), tale governo avrebbe un orizzonte temporale limitato (giugno 2020?). Il premier potrebbe essere una personalità di spessore economico (Cottarelli) o non politico (Cantone, ma anche la vicepresidente della Consulta, Marta Cartabia), oppure un nome più esplicitamente politico (Roberto Fico). Terza, e ultima, ipotesi, il cosiddetto ‘governissimo’, che avrebbe ambizioni ben più lunghe, per tempi e programma (traguardare la fine della legislatura, il 2023, addirittura), ma che dovrebbe avere una base parlamentare molto solida per convincere il Capo dello Stato: M5S, Pd, LeU, centristi dovrebbero garantire al Colle la tenuta di un tale impegno. In questo caso, gira un nome solo, quello di Mario Draghi verso cui Forza Italia potrebbe avere atteggiamenti neutrali.
Salire al Quirinale (o al Colle). Non è una passeggiata di salute, ma la decisione del presidente del Consiglio, che lavora nella sede del governo a palazzo Chigi, di andare a confrontarsi con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che lavora nella sede della presidenza della Repubblica, che è il palazzo del Quirinale. Il tratto di strada tra i due palazzi è, appunto, in salita poiché il Quirinale sorge sull'omonimo colle di Roma.
Studio alla Vetrata. E’ lo studio al piano nobile del Quirinale dove il Capo dello Stato riceve i politici per le consultazioni. Nella Loggia alla Vetrata le delegazioni, lasciato lo studio del Presidente e attraversate tre sale, rilasciano le loro dichiarazioni alla stampa. La porta da cui escono, a fianco della quale sono di guardia due Corazzieri, è ormai diventata un elemento noto a tutti coloro che seguono le dirette televisive delle crisi di governo, alcune anche lunghissime e faticose, ma per lungo tempo si è aperta con difficoltà e fatica. Lo stesso Mattarella, rispondendo alla trasmissione tv ‘Propaganda live’ aveva annunciato “farò riparare la porta della sala stampa”. E così è stato: l’inverno scorso i restauratori che curano il Quirinale hanno lavorato per giorni e ora la porta non è più ‘imbarcata’ e si apre al meglio, senza scossoni.
Consultazioni, il calendario. Il Quirinale diffonde, in modo formale, ogni volta che si apre una crisi di governo, il calendario delle consultazioni. Si chiama ‘primo giro’ e inizierà, con grande probabilità, domani pomeriggio, con l’apertura dello studio della Vetrata al Quirinale. Nel caso che se ne debbano fare altre, cioè un nuovo ‘giro’, cambiano i giorni sul calendario, ma di solito non cambia l’ordine di apparizione dei vari gruppi parlamentari e partiti consultati: si parte dai presidenti emeriti della Repubblica in vita (in questo caso si tratta solo di Giorgio Napolitano), si passa ai presidenti delle Camere, poi si arriva ai gruppi parlamentari che vengono consultati dal più piccolo al più grande. Gruppi che possono essere accompagnati dai leader dei relativi partiti cui tali gruppi politici fanno riferimento.
Consultazioni, le regole. Una premessa è d’obbligo: riguardo al procedimento di formazione del Governo, la Costituzione dice davvero poco ed è, dunque, necessario fare riferimento a prassi, a regole non scritte e a precedenti, che ovviamente acquistano un peso di volta in volta diverso in base ai contesti. Vediamo, innanzitutto, le previsioni costituzionali: l’articolo 92 (II comma) stabilisce che è il Presidente della Repubblica a nominare il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri. L’articolo 93 prevede che il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, prima di assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica. L’articolo 94 prevede che il Governo deve avere la fiducia delle due Camere e che ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale. Entro dieci giorni dalla sua formazione (che si fa coincidere con il giuramento dei suoi componenti) il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. La Costituzione non dice altro sulla formazione del Governo e, in particolare, su cosa debba fare il Capo dello Stato quando le elezioni non abbiano dato a nessuna delle forze politiche in campo la maggioranza parlamentare necessaria alla nascita di un nuovo Governo o quando un governo cade e vada sostituito da un altro.
Consultazioni, perché si fanno. Si procede al rito delle consultazioni ogni volta che un governo, formatosi in precedenza, cade e si dimette, nel corso di una legislatura. Si tengono, invece, le consultazioni sempre a ogni apertura di legislatura perché ogni volta che il popolo italiano vota alle elezioni politiche vuol dire che una legislatura repubblicana (quella appena eletta è la XVIII a partire dal 18 aprile 1948, la I) è terminata e un’altra si è insediata. Il rapporto tra governo e Parlamento (Camera dei Deputati e Senato della Repubblica) è fiduciario: il primo non può stare in piedi, e lavorare, senza la ‘fiducia’ del secondo che avviene tramite un voto in Parlamento. Quindi, ogni qual volta che si vota e si apre una nuova legislatura, il governo precedente - sia che sia dimissionario sia che sia nel pieno delle sue funzioni - si deve dimettere. Resta in carica, in realtà, il governo precedente per “il disbrigo degli affari correnti”. A quel punto, appunto, si aprono le consultazioni. Le coordina il Capo dello Stato secondo un rituale antico e consolidato (prassi costituzionale) in vigore dal 1948 ma senza alcuna regola scritta, come si diceva prima. Infatti, le consultazioni non sono previste in nessuno dei 139 articoli della Costituzione. Nella Costituzione, dunque, si contempla una sola forma di governo della Repubblica, quello parlamentare, e delle consultazioni e di come regolarle non si dice nulla. Dalla nascita della Costituzione repubblicana (1948) in poi, tutti i Presidenti della Repubblica si sono avvalsi, perciò, di quella che, in gergo, si chiama prassi costituzionale.
Consultazioni, la prassi. La prassi che è diventata abitudine, nella storia repubblicana, cioè dal 1948 ad oggi, prevede di aprire le consultazioni ascoltando i due presidenti delle Camere e, se è in vita, il presidente ‘emerito’ della Repubblica. Si tratta dell’ex Capo della Stato, se vivente. Da notare che, a partire dall’elezione bis di Giorgio Napolitano, avvenuta nel 2015 dopo il suo primo mandato (2008-2015) e nonostante le sue dimissioni anticipate nel 2017, si tratta dell’unico ex Capo di Stato eletto due volte. Dopo aver ascoltato le cosiddette “alte cariche istituzionali” citate, il Presidente della Repubblica passa all’ascolto di tutti i gruppi parlamentari e dei loro rappresentanti (i capigruppo) che si sono formati nel nuovo Parlamento all’atto dell’apertura delle nuove Camere e dell’elezione dei loro presidenti e dei relativi uffici di Presidenza (vedi alla voce “Legislatura”).
Consultazioni, perché i gruppi parlamentari e non i partiti. La salita al Colle dei diversi gruppi parlamentari prevede, alla fine del colloquio con il Capo dello Stato nel suo ufficio, delle brevi considerazioni, davanti alla Stampa, nello studio alla Vetrata del Quirinale, di ognuno dei gruppi parlamentari tramite un loro portavoce o più d'uno. Le consultazioni da parte del Presidente avvengono con moto ascendente, cioè dal più piccolo al più grande, secondo la consistenza numerica dei gruppi. Da notare che la consistenza dei gruppi parlamentari, regola aurea per decidere chi sale prima e chi dopo al Quirinale, è data dalla loro somma algebrica nelle due Camere e non dal fatto che un gruppo sia più forte in una Camera o nell’altra. Ma le delegazioni delle forze politiche che hanno diritto a essere consultate attraverso i loro gruppi parlamentari non seguono, a loro volta, alcuna regola scritta, solo consuetudini. Il presidente Einaudi voleva che fossero solo i capigruppo dei diversi gruppi parlamentari a guidarle, senza i segretari di partito, ma la regola poi è saltata e, sempre più spesso, sono stati ammessi alle consultazioni anche i capi partito, sia che ne fossero i segretari sia che ne fossero i presidenti o entrambe le figure o, anche, con la presenza di altre figure (vicesegretari di partito, coordinatori nazionali, etc.).
I soggetti consultati sono, dunque, i gruppi parlamentari, non direttamente i partiti, semplici associazioni private, ma la loro “emersione istituzionale”: sono i gruppi parlamentari gli unici soggetti che possono essere consultati dall’Istituzione-Presidente della Repubblica per decidere chi debba creare l’Istituzione-Governo e sono loro a portare la voce della terza Istituzione-Parlamento nella quale si auspica si formi una maggioranza politica che guiderà la scelta del capo dello Stato. Le forme sono, dunque, sostanza. I segretari o presidenti ei partiti non sono gli invitati, ma semplicemente completano (e “guidano” come riferisce la stampa) la “delegazione” dei partiti.
Consultazioni, tre curiosità. Silvio Berlusconi, nelle consultazioni seguenti alle dimissioni del governo Renzi e alla nascita di quello Gentiloni (2015), è salito al Colle pur essendo un senatore decaduto dalla sua carica, nonché un condannato per frode fiscale (presidente Mattarella). Beppe Grillo, nel 2013, era un capo politico leader solo di un blog, non del Movimento 5Stelle, e, a sua volta, era un condannato per omicidio colposo (presidente della Repubblica era Napolitano). Il presidente Scalfaro, nel 1993, rifiutò che salissero al Quirinale, per le consultazioni, tutti i leader di partito colpiti da avvisi di garanzia.
Le consultazioni. Cosa erano e cosa sono diventate
Le consultazioni presso il Quirinale per formare un nuovo governo sono tenute dal Capo dello Stato e sono forse il solo passaggio politico regolato dalla prassi, anziché da specifiche disposizioni: la Costituzione neppure le cita.
Durante l’intera Prima Repubblica (1946-1992) le consultazioni hanno sempre costituito una pratica rapida, discreta e priva di grande e vero rilievo pubblico. Tra la fine degli anni Cinquanta e la fine degli anni Settanta i governi magari duravano poco, ma le crisi di governo si risolvevano in poche settimane. Così è avvenuto sia durante la fase del centrismo (1948-1960) sia durante il primo (1960-1968) che il secondo centrosinistra (1968-1976). Anche quando la Dc, dopo la stagione del centrismo, apre e stabilizza la stagione del centrosinistra:, le due formule politiche si rincorrono tra loro, di governo in governo, alternandosi o confondendosi quasi senza soluzione di continuità e le crisi di governo (e, dunque, le relative consultazioni) servivano più che altro a ratificare i nuovi equilibri tra le correnti e i capi-corrente della Dc o pure variazioni di status tra i membri delle coalizioni di allora.
Il Manuale Cencelli, anche priva che venisse 'costituzionalizzato' in modo rigido, offriva una solida base per aggiustare pesi e contrappesi tra i partiti di governo, sempre gli stessi (Dc, Psi, Psli-Psdi, Pri, Pli). Dunque, per l’intera Prima Repubblica le consultazioni al Quirinale sono state un rito che non riservava grandi sorprese e che veniva affrontato anche con una certa apatia dai partiti.
Lo schema vedeva il presidente della Repubblica prendere scelte scontate e operare ratifiche notarili delle volontà dei partiti, decise per lo più dalla segreteria politica della Dc. Vigendo la conventio ad excludendum nei confronti della destra (Msi) e della sinistra (Pci), il sistema politico era bloccato: con Pci e Msi, pur presenti a ogni tornata elettorale, nessun governo poteva essere formato, da parte dei partiti ‘legittimati’ a governare (Dc e partiti laici).
Le cose cominciano a cambiare quando l’Italia inizia a sperimentare una certa mobilità elettorale: il rito delle consultazioni si fa più complicato e ansiogeno. Così, i giorni di crisi salgano a 50 circa per formare i governi di centrosinistra del post-68 e schizzano a oltre 70 giorni nella fase dell'avanzata elettorale del Pci negli anni '70, dominata dalla paura di un imminente 'sorpasso' sulla Dc e dalla necessità di superare la conventio ad excludendum proprio al fine di inglobare il Pci nella responsabilità di governo. Ecco che, perciò, le consultazioni iniziano a seguire itinerari tortuosi, talvolta ai limiti del bizzarro.
E’ in questa fase che si consolida la prassi delle consultazioni a largo raggio: il rito diventa barocco, elefantiaco. E, oltre alle consultazioni del presidente della Repubblica, subentrano anche le consultazioni del presidente del Consiglio incaricato: vengono messi in fila, da questi, nelle sue, di consultazioni, anche sindacati, associazioni d'impresa, esponenti delle altre istituzioni. La rete di dialogo intessuta intorno ai possibili equilibri del governo che deve nascere diventa sempre più larga e, insieme, indecifrabile. Infine, ecco il passaggio dal sistema elettorale proporzionale al sistema maggioritario, la grande rivoluzione degli anni Novanta: avrebbe dovuto, in teoria, semplificare le cose. Un vincitore, un possibile premier, pochi giorni di colloqui, una maggioranza sicura.
L’aspettativa generale diventa qualcosa di simile al modello inglese (detto anche "modello di Westminster") dove tutto è così automatico che non è neppure previsto un voto parlamentare e la fiducia si ritiene "presuntivamente concessa" fino a prova contraria. Ma le cose, in Italia, non sono mai andate così, neppure nella Seconda Repubblica.
Tra i record delle consultazioni più lunghe nella nostra storia ci sono, infatti, proprio due governi della Seconda Repubblica: il governo Dini, che nasce dopo ben 127 giorni di trattative e il II governo Prodi che ha bisogno di 104 giorni per vedere la luce. Anche il II governo Berlusconi ha bisogno di 50 giorni di consultazioni per nascere. Nel primo caso (il governo Dini) si trattava di convincere i partiti a sostenere un governo tecnico, nel secondo caso (il II governo Prodi) di varare una coalizione di governo, l'Unione, che si presenta al Quirinale con ben 11 delegazioni (un altro record), sostenuta dall'intera sinistra parlamentare (fino a Rifondazione comunista) fino a pezzi del centro moderato (fino all'Udeur).
La storia delle consultazioni, dunque, aiuta a capire la politica italiana perché racconta del suo Dna, infinitamente cauto e circospetto. Né vincitori né vinti hanno mai fretta quando si determina una svolta politica e anche le forze più dirompenti e nuove, come Lega e M5S, durante la crisi del 2018, messe davanti allo specchio della responsabilità di governo, diventano circospetti come giocatori di scacchi e, prudenti come vecchi democristiani di rito forlaniano.
Le consultazioni. Una piccola aneddotica storico-politica
Inaugurate dal primo presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, le consultazioni non sono un obbligo, dunque, ma una consuetudine o, se si preferisce, una prassi. Il Presidente della Repubblica le organizza come meglio crede. Abbastanza nutrita è l'aneddotica in merito. Riportiamo qui solo alcuni degli episodi più gustosi.
Il primo Capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola (1946-'48), noto per la sua proverbiale scaramanzia, quando s'insedia al Quirinale inizia a mostrare ai suoi ospiti, durante le consultazioni, una misteriosa agenda in pelle nera, dicendo a ognuno di loro "Sto scrivendo la prassi repubblicana, quello che deve e non deve fare un Presidente". Quel taccuino era, in realtà, di fogli bianchi. Infatti, nel 1948 De Nicola toglie il disturbo e il Parlamento elegge al suo posto il liberale Luigi Einaudi, Giulio Andreotti, sottosegretario di De Gasperi, si ricorda dell'agenda e la cerca. Viene rinvenuta, ma con sorpresa, racconta lo stesso Andreotti in un suo libro, "rimanemmo allibiti scoprendo che De Nicola non vi aveva scritto neanche una riga...".
Einaudi tiene le sue 'personalissime' consultazioni, per ben due volte, non al Quirinale, ma nella sua residenza privata della Caprarola: sia per nominare, come presidente del Consiglio incaricato, Attilio Piccioni, che però deve subito rinunciare all’incarico, nel 1954, sia quando nomina - d'imperio - presidente del Consiglio l'ex ministro del Bilancio dell'ultimo governo De Gasperi, Giuseppe Pella, per un governo 'del Presidente' (allora si usava la definizione di "governo d'affari”), governo che però scontava l'ostilità del suo stesso partito, la Dc, tanto che questa lo impallina e, in pochi mesi, il governo Pella cade. In ogni caso, Einaudi aveva incaricato Pella senza neppure dare luogo a vere e proprie consultazioni.
Ma è durante la prima fase del centrosinistra 'organico', negli anni Sessanta, che iniziano a registrarsi consultazioni e, dunque, crisi di governo più prolungate e complesse.
Un pluri-protagonista del rito delle consultazioni è senza dubbio Giulio Andreotti nei tre governi che forma nella drammatica legislatura compresa tra il 1976 e il 1979.
Ed è in quel frangente, in particolare dopo la crisi del IV governo Andreotti, quello della "solidarietà nazionale", che il nuovo presidente della Repubblica, Sandro Pertini, il 22 febbraio del 1979, convoca in simultanea, ma a breve distanza di un quarto d'ora l'uno dall'altro, tre leader, Giulio Andreotti (Dc), Giuseppe Saragat (Psdi) e Ugo la Malfa (Pri): Pertini fa credere a ognuno di loro di volergli affidare l’incarico per formare un nuovo governo, ma facendo anche in modo non si incontrino, sistemandoli in tre stanze diverse e lontane, come se avesse convocato tre premier designati o che presumevano di esserlo. Pertini credeva ancora possibile far nascere un governo di "solidarietà nazionale" con il Pci: voleva nominare un premier (Andreotti o La Malfa) e due vicepremier (forse La Malfa e Saragat, che però poi si sfila), ma il tentativo non gli riesce. La Malfa, poco dopo, ne morirà per il dolore….
Complicate e laboriose anche le fasi che portano alla nascita dei governi detti 'pentapartito' a inizi degli anni Ottanta, quando per la prima volta dal 1946 arriva a palazzo Chigi un esponente di un partito laico, il leader del Pri Giovanni Spadolini. Il I governo Spadolini (1981-1982) nasce il 28 giugno 1981. Presidente della Repubblica era Sandro Pertini, che darà anche il primo incarico di governo a un socialista (Craxi). A Pertini succede, nel 1987, Francesco Cossiga che darà il primo e unico incarico, per quanto solo esplorativo, a un esponente del Pci, Nilde Jotti. Francesco Cossiga apriva i suoi colloqui offrendo a ognuno dei suoi ospiti i cioccolatini, ma Marco Pannella, sempre polemico ma quella volta più del solito, viene fatto accompagnare alla porta…. Al contrario Achille Occhetto, segretario del Pds, da Cossiga definito "uno zombie con i baffi", rifiuta cocciutamente di salire al Colle.
Una scelta che, poi, Cossiga applicò a sé stesso in polemica aperta con il suo successore, Oscar Luigi Scalfaro, rifiutandosi di salire al Colle nelle consultazioni del suo successore. Un altro cruento scontro di quella stagione politica riguarda quando Craxi e De Mita chiedono al presidente della Repubblica, sempre Francesco Cossiga, di 'costituzionalizzare' il "patto della staffetta" – patto che avevano ideato per alternarsi, all'interno della coalizione di pentapartito, nella guida del governo. Cossiga reagisce con dispetto e, in malo modo, risponde di no ad entrambi.
Una crisi davvero 'pazza' riguarda il momento precedente alle elezioni politiche anticipate del 1987, quando - dopo le dimissioni del II governo Craxi (1986-1987) - il presidente della Repubblica, Cossiga, nomina presidente del Consiglio Amintore Fanfani. Il quale Fanfani non solo non rinuncia alla sua carica di presidente del Senato nel formare il suo VI governo ma. quando si presenta davanti alle Camere, viene bocciato dal suo partito, la Dc, con un voto di astensione che gli preclude la possibilità di restare in carica. Il VI governo Fanfani resterà in carica fino al 9 luglio 1987 accompagnando il Paese a elezioni politiche anticipate.
Di Scalfaro si è da più parti scritto che registrava gli incontri con un vecchio magnetofono a vista e che si riguardava le successive dichiarazioni dei capi delegazione di partito nella sua tv a bassa frequenza. Sempre durante il suo settennato, all'inizio, venne raggiunto quello che il giornalista e notista politico Filippo Ceccarelli definisce "il punto più basso delle consultazioni", durante la crisi del I governo Amato (1993) quando Scalfaro decide di espungere, dalle consultazioni, tutti i (numerosi) segretari di partito e capigruppo inquisiti dalla magistratura (si era ai tempi di Mani Pulite) a tal punto che, a poche ore dall'inizio delle consultazioni di rito, non si sapeva bene chi e quali gruppi il presidente avrebbe ricevuto al Colle...
Infine, ai tempi delle consultazioni dei presidenti Ciampi e Napolitano si arriva a dar vita a calendari di consultazioni monstre: fino a 29 delegazioni salgono al Colle, a causa dell'eccessiva, endemica, frammentazione del quadro politico della Seconda Repubblica. Anche in questo caso, ovviamente, lo show detto del "minestrone", dello "spezzatino", del "fritto misto" o della "macedonia" viene assicurato dalla grottesca casualità delle colorite delegazioni dei gruppi parlamentari che salgono al Colle. Dal 2018 in poi, invece, ma in realtà già dal 2013 in poi (Napolitano) e a maggior ragione con Sergio Mattarella, le consultazioni tornano nel loro alveo naturale: rapide, secche e lineari, anche perché i gruppi diventano assai meno, anche grazie alle nuove leggi elettorali introdotte. Certo, le consultazioni del 2018 che portarono al governo Conte, comportarono 89 giorni di crisi di governo, tre giri di consultazioni e due incarichi esplorativi (più un incarico ‘mai nato’, quello a Carlo Cottarelli), un timing che, ormai, è già entrato nel Guiness dei primati della Repubblica, ma difficilmente Mattarella, stavolta, le tirerà così in lungo.