Vincenzo Pastore, fotografo-migrante poeta del paesaggio umano, da Casamassima a São Paulo

Rimasto pressoché dimenticato fino a questa mostra, il fotografo migrante Vincenzo Pastore (Casamassima di Puglia 1865 – San Paolo 1918), “visse fra due secoli, due patrie e due lingue”, come fa notare Samuel Titan Junior. Per narrare il legame profondo tra la metropoli di San Paolo, il suo paesaggio e la sua umanità, quest’ultimo un aspetto raramente presente nella fotografia del tempo ancora in prevalenza legata al ritratto eseguito in studio, abbiamo scelto 44 fotografie, tutte realizzate attorno al 1910
L’articolo di GIACOMO PIRAZZOLI
Le immagini, che appunto rivelano anche la pionieristica attività da streetphotographer di Pastore, sono state preventivamente trattate da Ims-Instituto Moreira Salles per essere stampate su supporto da esterni (alucobond) e divenire in questo modo close-up in grande formato (lato massimo 100cm, l’altro in proporzione). Per lo sguardo inclusivo del migrante, le foto di Pastore ritraggono afrodiscendenti, bianchi ed indigeni — questi ultimi in studio, documentazione preziosa per molte ragioni — in una San Paolo in espansione che allora contava circa 350.000 abitanti, contro gli oltre 30 milioni di oggi. Perciò abbiamo foto che documentano sia luoghi rurali ormai urbanizzati sia fiumi e torrenti oggi perduti, cancellati dalla infrastrutturazione di stampo modernista — basti ricordade l’attività di Robert Moses, portato in Brasile da Nelson Rockefeller — la stessa oggi complice di allagamenti etc.
L’allestimento en-plein-air programmato prima della pandemia fa seguito ad un primo progetto, basato sul display vivente di GreenUP-Vertical Edible Green (verde Verticale Alimentare) ispirato al perduto giardino del palacete Oscar Rodrigues Alves — attuale sede dell’Istituto Italiano di Cultura nella Avenida Hygienopolis a San Paolo — così come venne a suo tempo realizzato dai giardinieri di Dierberger & Companhia. Quel progetto, riconcettualizzato, è stato quindi sviluppato per amplificare site-specific anche la tensione tra il palazzetto anni ‘20 e le foto di Pastore che vengono quindi appese a pareti deliberatamente precarie, fatte di sostenibilissime canne di bambù. Per mezzo di tre volumi aperti appunto realizzati in bambù — frammenti di un cubo, di un parallelepipedo e di una struttura spiraliforme — viene dato corpo alla narrazione tematica della mostra, a loro volta legando le foto attraverso movimenti dello sguardo dei visitatori. Muovendosi dentro e fuori questo sistema espositivo di altezza massima costante 160cm, pensata per rendere accessibili le foto stesse anche ai bambini, si stabilisce un gioco per cui i corpi dei fruitori si mescolano alle opere — stavolta senza quella trasparenza che un’altra migrante italiana oggi studiatissima, l’architetta Lina Bo Bardi, tra il 1957 ed il 1968 disegna e realizza con i cavalletti di cristallo nel vicino Masp-Museo di Arte di San Paolo.
Con questo allestimento — che pure forza verso la pratica artistica dell’installazione — si finisce col proiettare costantemente la sostanza temporanea della parete di bambù contro la solidità muraria del palazzetto provvisto di ornamenti, disperatamente evocando i diversi orizzonti di due mondi, diventati terreno di vero e proprio culture-clash: basta pensare all’insediamento nomade degli indigeni, che occupavano pro-tempore i luoghi con le loro capanne sapientemente costruite di bambù, di legno e di paglia, ed il modello coloniale mutuato dalla città europea che invece occupa i luoghi in modo irreversibile quanto — diremmo oggi col senno di poi — insostenibile. Perciò l’allestimento usa le foto di Pastore come nesso radicale tra il paesaggio pre-coloniale, antropizzato in modo temporaneo quanto reversibile, in perfetto equilibrio di natura, e quello post-coloniale, che ha generato l’attuale condizione metropolitana con tutti gli enormi problemi che derivano dalla cancellazione degli elementi di natura, alla base del Climate Change e dei relativi disastri ambientali. A suo modo dunque questa mostra apre ad un esercizio di immaginazione, per chiedersi appunto come sarebbe stato tutto questo paesaggio senza la colonizzazione, senza cioè che a qualcuno in Occidente venisse in mente di “scoprire” questa parte di mondo per renderla simile a quell’altra, ritenuta d’ufficio più civilizzata. Nel centro ideale dell’esposizione si trova una pianta di barba-de-velho (a volte detta Muschio spagnolo, propriamente Tillandsia usneoides) una epifita dalle radici aeree che qui ai tropici sempre più spesso viene usata per misurare la qualità dell’aria. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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