I Castelli Federiciani, l’Assise di Capua e il reticolo delle masserie di Federico II, il gran Re

All’insieme dei Castelli, il re di Sicilia assegna un disegno politico-militare, ma anche economico-sociale e funzioni strategiche: in rapporto alla natura del territorio, agli assi viari, alla possibilità di collegamento visivo tra un castello e l’altro e di avvistamento del nemico. Per capirne tipologie e funzioni, il nostro specialissimo inviato si rivolge a Al Edrisi, il geografo marocchino alla Corte di Palermo, che era anche uno storico ed economista di grande valore. Al nostro cronista spiega la nascita di un nuovo tipo di ceto sociale: la burocrazia periferica. E qui il racconto si ferma perché, per Al Edrisi, è l’ora della preghiera ad Allah
Il racconto di ARTURO GUASTELLA, nostro inviato nella Magna Grecia
«SPERO CHE NEL TUO peregrinare fra le antiche strade della Magna Grecia, quando, come ho letto, ti sei imbattuto nel gran Re, Federico II, ti sia reso conto del suo “decor”, di quella sua maestà imperiale. Quantunque non soggiaccia ad alcuna legge, se non a quella della ragione — madre del diritto — e che, proprio in forza di essa, è dato a lui, quale erede del fulgore dei Cesari, rifiutarsi di raccontare a te, o a qualunque altro — che non sia il popolo intero — la sua politica dell’incastellamento strategico della massima parte del Mezzogiorno, Sicilia compresa, o di quel reticolo masseriale, che sembra interessarti tanto». Mi ammonisce, con un sorriso però, il più grande medievista vivente, il prof. Cosimo Damiano Fonseca, cui mi lega un’antichissima amicizia, non scevra, però, come avete visto, di qualche energica tiratina di orecchie.
Forse però, mi coglie il sospetto malandrino, che all’ex Rettore (e inventore dell’Università della Basilicata), nonché Accademico dei Lincei, gli sarebbe parso più appropriato che a raccontarmi di masserie e di massari, fosse stato, non già l’oscuro professore di latino e greco di Federico, quanto, mettiamo, il principe Corrado di Metz: per essere anche vescovo, egli aveva un’affinità, per così dire, di tonaca, con il mio carissimo Don Fonseca. Che è un Domenicano. Accenniamone, dunque, a questi Castelli Federiciani, ma solo perché il Re di Sicilia, già nel 1220, ci si sofferma in una delle Costituzioni (la XIX) delle Assise di Capua, dopo aver espresso senza tentennamenti (Costituzione X) la volontà di ricostituire il demanio regio «plenum et integre, videlicet civitates, munitiones, castra, villa, casalia…».
In quel quadro costituzionale, il gran Re assegna all’insieme dei Castelli un disegno politico-militare, ma anche economico e sociale, sia nelle sue funzioni strategiche (in rapporto alla natura del territorio, agli assi viari, alla possibilità di collegamento visivo tra un castello e l’altro e di avvistamento del nemico) che in quelle politiche, in relazione e all’uso del territorio, delle sue risorse, della sua economia, dei suoi insediamenti. Un accenno soltanto, ai cosiddetti provisores castrorum, istituiti nel 1239, cui è affidata la gestione complessiva dei castelli di una data circoscrizione, compresa la sorveglianza dei servientes, dei soldati di guarnigione e dei singoli castellani. Insomma, una sorta di Supercastellani regionali.
Ma quanti erano, alla fin fine, questi castelli? In tutto il regio demanio, appartengono al regno quasi 250 castelli. Esisteva, nei fatti, anche uno Statutum, che riportava ben 82 strutture castellarie regie nei Giustizierati della Puglia, suddivise in 49 castra e 33 domus (23 castra e 28 domus in Capitanata, 13 castra e 3 domus in Terra di Bari, 13 castra e 2 domus in Terra d’Otranto). E, ancora, 43 strutture castellarie in Principato e Terra Beneventana (40 castra e 3 domus), 42 in Terra di Lavoro e Molise (35 castra e 7 rocche), 31 in Abruzzo (25 castra, 3 domus e 3 rocche), 29 in Basilicata (19 castra e 10 domus), in Valle di Crati e Terra Giordana (11 castra), 6 castra in Sicilia, oltre il fiume Salso, e 8 castra in Calabria.
Lo sforzo per questa puntigliosa enumerazione è stato notevole, ma vi assicuro che la gran parte di questi castelli si stagliano nel paesaggio quasi per una sorta di sortilegio architettonico. Se avessi più confidenza, sfidando anche le rampogne del prof. Fonseca, griderei un bravo a re Federico, che aveva voluto dimostrare come il Sud conservi straordinari tesori di cultura e di storia. Basta volerli valorizzare. Ma non soltanto in quella chiave turistica, che sembra stare tanto a cuore al nostro ministro dei Beni Culturali, quanto in termini di ristrutturazione e di conservazione.
Nel tornare, comunque, alle mie “Masserie”, sembrandomi davvero troppo chiedere ausilio ad un Principe-Vescovo come Corrado Metz, ho preferito rivolgermi a quel Al Edrisi, il geografo marocchino alla Corte di Palermo, che, nella sua opera, Il Libro di Re Ruggero, aveva così magnificamente descritto luoghi, campagne, masserie e, perfino, casolari dell’intero regno. Una prima suddivisione, mi spiega il geografo, nonché storico ed economista, va fatta con il criterio dell’utilizzazione delle masserie. Così, abbiamo Masserie di campo, nuclei colturali preposti allo sfruttamento intenso del territorio (colture soprattutto cerealicole) esterno agli insediamenti agro-urbani (ad esempio il tenimentum della masserie Candile, concesso in enfiteusi con il casale di Laterza, nel Tarantino, dall’arcivescovo di Bari, nel 1274 (o nel 1292). Nel territorio di Altamura, il tenimentum Fornelli, presso l’attuale masseria Fornello, o, ancora, le masserie Bery e quella di Stefano di Niversa, nel territorio di Canne, o, nel Trecento, le aziende rurali del duca di Durazzo, Lucera, Palmula, Visciglieto, Candela e Gravina; o ancora la massaria campi, a Noci, di Ludovico d’Enghien, conte di Conversano, gestita dal massaro Leone de Criptaleis.
Ci sono poi le Masserie di allevamento, principalmente legate all’allevamento di ovini, suini e bovini, che sono presenti, oltre che in Capitanata, anche nei territori collinari del Barese, soprattutto, nella fascia murgiana di Gravina e Altamura, come la masseria della Corte a Gravina, o le masserie ovine del dominus Roberto Sanseverino a Monteserico, gestite, a suo tempo, dal massaro Pasquale de Rosata. La Massaria gregis porcorum a Noci, quella di giumenti a Turi nel 1372, o la Cavallerizza nella Valle d’Itria, un allevamento equino fondato, a quanto risulta, da Ferdinando I d’Aragona. Quindi le Masserie miste, ad economia agricolo-pastorale, di dimensioni medio-piccole, principalmente mono familiari, come, ad esempio, la masseria di San Samuele del barlettano Ameruzio de Amerutiis.
Infine le Masserie facere. Qui, più che indicare funzionalità o tipo di coltura, si tratta di insediamenti rurali rinvenienti da particolari tipi di contratti agrari, per “in societatis terras seu terrarum commoditatem”. Comunemente, dunque, nella Puglia basso medievale il “termine massaria è usato in relazione allo sfruttamento agricolo o pastorale di beni ricevuti in feudo o in affidamento dalla corte regia o da privati, e in censo dagli enti ecclesiastici. Sono le massarie agro-pastorali, animalium et camporum, «i cui prodotti — stabilivano le Universitas — possono essere immessi in città solo dopo pagamento dei dazi». In questo periodo, inoltre, sono moltissime le masserie di proprietà degli ordini religiosi. Le aziende agro-pastorali della Casa di Barletta dell’Ordine di S. Giovanni Gerosolimitano erano ubicate, per esempio, in Capitanata (Casalnuovo, S. Chirico, Foggia, Salpi, Belmonte, Santa Maria delle Saline, ecc.).
In questo territorio, ancora nel Quattrocento, le masserie costituiscono il patrimonio rurale degli Ordini ecclesiastici, principalmente concesse in fitto, ma non raramente gestite anche direttamente, sia che i loro prodotti vengano immesse sul mercato o siano destinati esclusivamente al consumo del personale ecclesiastico. È il caso, per esempio, dell’Abbazia di S. Leonardo a Siponto, con la sua enorme masseria cerealicola-pastorale di Torre Alemanna, la cui estensione sfiorava i 3000 ettari coltivati a grano e orzo, con un patrimonio zootecnico di circa 4.500 ovini, 2.000 suini, 400 vitelli, e con unità produttive, nel 1477, di 50 contadini, 42 pastori, 11 stallieri e 24 servi. Un’azienda esemplare, che dava elevati ricavi annuali.
L’articolazione territoriale, poi, di queste masserie del basso Medioevo, come hanno rilevato le indagini aerofotografiche, cartografiche, toponomastiche, archeologiche e, perfino, artistiche, coincide straordinariamente con quella attuale. Il concetto di sfruttamento del territorio rurale in maniera centralizzata — in assonanza, quasi, con la loro struttura sociale dirigistica e, perfino, con la loro visione escatologica del mondo (in architettura prevalgono le linee verticali) — porta, in età sveva e primo-angioina, alla cosiddetta massaria regia. Essa è tesa alla valorizzazione produttiva del regio demanio e costituisce un vero e proprio snodo dei rapporti tra monarchia e sfruttamento delle risorse rurali, con la nascita di un nuovo tipo di ceto sociale: la burocrazia periferica. E qui mi fermo, perché per Edrisi, è l’ora della preghiera ad Allah. © RIPRODUZIONE RISERVATA