Crisi Ucraina e venti di guerra in Europa. Le richieste accettabili e quelle inaccettabili di Putin

È interessante notare la prevedibilità della reazione russa non solo all’espansionismo della Nato (passata da 12 a 30 membri dopo il crollo dell’Urss), ma anche alla diffusione dei valori europei tra i suoi ex Stati vassalli. L’inquietudine di Mosca non stupisce ed era più che prevedibile. Che fosse in periodo zarista, sovietico o contemporaneo, Mosca ha sempre sofferto della sindrome da fortezza accerchiata. Sebbene in maniera ufficiosa, negli anni Ottanta Gorbačëv ricevette l’assicurazione che mai l’Alleanza Atlantica si sarebbe spinta fino alle porte di Mosca. Dagli eventi degli ultimi mesi è chiaro che l’Europa deve iniziare a parlare con una sola voce e affermarsi sulla scena internazionale: la questione dell’autonomia strategica europea e della creazione di un esercito europeo non può più essere rimandata
L’analisi di EMILIA MENICUCCI
NOVEMBRE 2020: IL COMITATO di esperti scelti dal segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, pubblica le raccomandazioni finali per elaborare il “nuovo concetto strategico” dell’Alleanza, la cui adozione è prevista per il prossimo giugno 2022. La parola “Russia” vi compare circa 100 volte: nonostante la caduta dell’Urss oltre 30 anni fa, il testo ha chiari toni da guerra fredda. Toni che potrebbero stupire i neofiti delle relazioni internazionali, ma che sono coerenti con alcuni dati riguardo a Mosca: oltre al progressivo rafforzamento delle risorse militari convenzionali (negli ultimi due decenni il Cremlino ha investito molto per modernizzare il suo esercito), la Russia detiene uno dei maggiori arsenali nucleari, quasi alla pari con gli Usa; senza contare la guerra ibrida in cui Mosca è maestra e che non si fa scrupolo di usare, come dimostrano i numerosi attacchi cibernetici, la disinformazione, la propaganda, gli avvelenamenti di oppositori e giornalisti, il sostegno a gruppi ribelli. Il tutto, completato dal capillare avanzamento di Putin nel Nord Africa, nel Sahel, in Medio Oriente.
Non sorprende, dunque, che ancora oggi la Russia rimanga, per la Nato, una delle principali minacce alla pace e alla sicurezza internazionale, un rivale da “dissuadere e contenere” (secondo l’approccio cosiddetto dual-track); dal canto suo, Mosca fa ben poco per placare gli allarmismi europei e americani, e tenta di riesumare la dottrina Breznev della sovranità limitata per riproporre il proprio imperialismo sugli ex Stati satelliti: le attuali tensioni in Ucraina ne sono un esempio, cosi come la guerra con la Georgia nel 2008, l’annessione della Crimea nel 2014, il sostegno al dittatore bielorusso Lukashenko.
Ora, la questione non sta nell’individuare chi ha iniziato per primo a sconfinare nel dominio riservato dell’altro: è interessante notare la prevedibilità della reazione russa non solo all’espansionismo della Nato (passata da 12 a 30 membri dopo il crollo dell’Urss), ma anche alla diffusione dei valori europei tra i suoi ex Stati vassalli, sullo sfondo dell’inevitabile declino economico russo legato all’attuale transizione energetica — di cui l’Eu è capofila — e che toglierà progressivamente a Mosca buona parte dei suoi fondamentali introiti legati alla vendita di gas. Insomma, tutti elementi che contribuiscono ad indebolire la potenza e il peso internazionale di Mosca, che però non si lascia travolgere dagli eventi ma reagisce — com’è ovvio che sia — per garantire la propria sopravvivenza.
Dunque, cosa vuole Putin? Su quali richieste del Cremlino sarà possibile tentare una mediazione e quali, invece, le richieste inaccettabili? Per rispondere a queste domande, è necessario comprendere che le pretese di Mosca si articolano intorno a due punti fondamentali, che, sebbene strettamente connessi, sono tuttavia distinti, e come tali vanno affrontati e risolti: uno riguarda la politica della porta aperta dell’Alleanza Atlantica; l’altro, la volontà degli ex stati sovietici o satelliti dell’Urss di avvicinarsi ai valori democratici occidentali.
La prima questione sulla quale la nostra analisi si concentrerà è quella del progressivo allargamento ad est della Nato, tema sul quale vi sono, e si spera ci saranno, spiragli diplomatici per un compromesso. L’ambizione russa di mantenere il controllo sullo spazio post-sovietico, infatti, mal si concilia con la politica di allargamento dell’Alleanza Atlantica, che ha portato l’organizzazione ad avvicinarsi sempre di più alla frontiera russa: e nonostante si tratti di un’alleanza difensiva, la Nato è pur sempre un’alleanza militare, e come tale diretta contro qualcosa o qualcuno. La nuova cortina di ferro (se così si può chiamare) si è effettivamente spostata di molto verso est: non solo ex alleati del Patto di Varsavia, ma addirittura alcune ex Repubbliche sovietiche (Estonia, Lettonia, Lituania) sono passate allo schieramento occidentale. L’inquietudine di Mosca, dunque, non stupisce ed era più che prevedibile.
Certo, la politica della “porta aperta” non implica che ogni stato che voglia aderire alla Nato vedrà le proprie richieste assecondate: l’apertura è un orientamento di massima, ma richiede che siano soddisfatti certi requisiti. La porta aperta significa che, a priori, è impossibile escludere l’ingresso di qualsiasi Paese nell’Alleanza. Tuttavia, quest’orientamento si scontra con la realtà, in particolare (per usare le parole di Macron) mal si concilia con il fatto che «non vi è sicurezza per l’Europa se non vi è sicurezza per Mosca». E l’adesione di Stati così vicini alla propria frontiera non permette a Mosca di sentirsi sicura. Ecco perché l’adesione dell’Ucraina, o anche solo la sua “finlandizzazione”, è così problematica e, probabilmente, utopica.
Si può poi discutere dell’effettività o meno di queste minacce alla sicurezza russa, ma in realtà più che sulla minaccia effettiva, è importante concentrarsi su quella percepita: Mosca, che fosse in periodo zarista, sovietico o contemporaneo, ha sempre sofferto della sindrome da fortezza accerchiata. È il punto fermo della sua politica estera, che non cambia da secoli e non dà segno di cambiare nel breve termine. D’altronde, la Federazione russa, il primo Stato al mondo per estensione, è effettivamente accerchiata su ogni fronte: che si tratti delle pressioni cinese e giapponese da sud-est, di quella jihadista da sud-ovest o di quella “occidentale” (Nato, Usa, Europa) da est e sudovest, il senso di soffocamento russo è, se non condivisibile, almeno comprensibile. Ecco perché su questa prima questione si può trovare un compromesso con le richieste del Cremlino. Anche perché, sebbene in maniera ufficiosa, negli anni Ottanta Gorbačëv ricevette l’assicurazione che mai l’Alleanza Atlantica si sarebbe spinta fino alle porte di Mosca.
La seconda questione che getta ombre sulle relazioni occidentali con la Russia è più spinosa. Si tratta della volontà dei Paesi ex Urss di avvicinarsi all’Europa (questione ben distinta da quella dell’allargamento della Nato) e riguardo alla quale Putin ha ben poca voce in capitolo: le sue pretese di intromettersi negli affari interni degli ex Stati vassalli cozzano con la sovranità degli Stati in questione, e per quanto Mosca si affanni per bloccare o rallentare questo processo, non riuscirà ad arrestarlo perché non è un movimento politico, ma sociale e collettivo. Qualsiasi richiesta di Putin a tal riguardo, dunque, non solo è inaccettabile, ma è votata al fallimento certo: non si può arrestare l’avanzata verso il progresso e la democrazia. Se avesse una chiara e autonoma strategia di politica estera in mente, l’Unione Europea dovrebbe fare dei propri valori democratici l’arma per eccellenza contro l’autoritarismo russo e contro ogni altro tipo di dittatura: è questo l’unico modo per assicurare agli ex Stati sovietici piena autonomia da Mosca senza rischiare lo scoppio di un conflitto nel cuore del continente.
I numerosi tentativi del Cremlino di minare dall’interno le giovani e ancora fragili democrazie degli Stati ex sovietici è un chiaro segno del fatto che Mosca è consapevole del pericolo che rappresentano i valori europei per la propria strategia di controllo su questi territori. Il sostegno, ufficiale e non, alle repubbliche separatiste filorusse in Georgia e Ucraina rientra perfettamente in questa logica, e mira a rallentarne il processo di avvicinamento all’Ue: il Cremlino, infatti, sa bene che mai un Paese dilaniato da una guerra civile, con conflitti interni irrisolti o guidato da un governo fantoccio, sarà ammesso nella Comunità europea. Dunque, Putin teme i valori democratici europei, ragion per cui ha tutto l’interesse a trattare la questione dell’allargamento della Nato (riguardo alla quale le proteste russe sono comprensibili) e dell’adesione ai valori europei (riguardo alla quale l’ingerenza russa è inaccettabile) come se fossero un’unica questione.
Quello che è chiaro dagli eventi degli ultimi mesi è che l’Europa deve iniziare a parlare con una sola voce e affermarsi sulla scena internazionale: la questione dell’autonomia strategica europea e della creazione di un esercito europeo non può più essere rimandata, e ne è la prova non solo la situazione nei Balcani, ma soprattutto l’avanzata sempre più chiara, della Russia come di altre potenze regionali, in scenari di fondamentale importanza strategica per l’Unione: dal Mali, al Sudan alla Libia, l’inerzia e il progressivo ritiro europeo (volontario o meno) non fa che lasciare spazio ad altre potenze revisioniste che da tempo cercano le luci della ribalta. Tra queste vi è anche, ma non solo, la Russia, l’irrazionalità del cui “zar” (emersa chiaramente nella conferenza stampa del 21 febbraio 2022) non permettere di escludere lo scoppio di una guerra. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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