Crisi del giornalismo: «Serve un nuovo patto sociale per salvare l’informazione (e la democrazia)»

Non c’è solo il ruolo invasivo della pubblicità a condizionare le linee editoriali delle testate giornalistiche grandi e piccole. Di leggi capaci di separare le proprietà dei media dagli interessi economici degli editori non si è vista neppure l’ombra; è grave il ritardo dell’Italia nel recepire la direttiva comunitaria sul copyright che impone ai grandi operatori digitali il pagamento di un equo compenso ai produttori dei contenuti. Che fare? Il “New York Times” e “Le Monde” dimostrano che esistono grandi spazi di mercato per l’informazione di qualità. Oggi consumare le celeberrime suole delle scarpe alla ricerca delle notizie significa sapersi confrontare con i big-data, consultare le fonti aperte, immergersi nel dark-web, conoscere e utilizzare i social media nella loro architettura
L’analisi di STEFANO TALLIA, presidente Ordine dei Giornalisti del Piemonte
CHI MI HA preceduto nel dibattito sui destini del giornalismo che si è sviluppato su “Italia Libera” ha posto l’attenzione sul ruolo sempre più invasivo della pubblicità nel condizionare le linee editoriali delle testate. Un fenomeno, non c’è dubbio, cresciuto molto negli ultimi anni con l’esplodere della crisi che ha travolto il sistema editoriale. L’allarme è fondato e tuttavia — a mio giudizio — non è che una parte del problema. Sono molti i fattori che contribuiscono oggi a imbrigliare la libertà dell’informazione e non si limitano purtroppo al rapporto spesso equivoco tra informazione e pubblicità aggravato dalla disperata ricerca di risorse economiche da parte delle proprietà editoriali.
Se una trentina di anni fa si riempivano teatri e palazzetti con partecipate iniziative contro il conflitto d’interessi che riguardava l’allora Presidente del Consiglio, tre decenni più tardi dobbiamo constatare con amarezza come non solo quel conflitto non sia stato superato, ma altri, grandi e piccoli, siano nati e abbiano prosperato nel nostro paese. Di leggi capaci di separare le proprietà dei media dagli interessi economici degli editori non si è infatti vista neppure l’ombra e nella stampa nazionale come in quella locale, abbiamo assistito, impotenti, al proliferare del fenomeno senza disporre di alcuno strumento per contrastarlo. A questo va aggiunto che la crisi del settore ha spinto gli editori verso aggregazioni sempre più vaste, finendo con il comprimere nei fatti il pluralismo. Se è fin troppo evidente la concentrazione realizzata ad esempio dal gruppo Gedi nel Nord Ovest — dove permane se non altro la presenza di altri operatori forti — mi pare significativo un caso come quello del Trentino-Alto Adige dove, se si eccettua la presenza del servizio pubblico, le principali testate di lingua italiana e tedesca sono controllate dal medesimo gruppo editoriale. Fenomeni sui quali riflettere, soprattutto per gli effetti che potranno produrre in un periodo medio-lungo. Anni più “distratti” dal punto di vista della partecipazione sociale e politica e i timori generati dalla crisi, hanno poi contribuito ad abbassare anche la capacità di resistenza delle redazioni. Addossare la responsabilità di questi fenomeni esclusivamente agli operatori del mondo dell’informazione, siano essi editori o giornalisti, sarebbe tuttavia sbagliato e ingeneroso.
Se i problemi dell’informazione sono lentamente usciti dal dibattito pubblico del paese, credo che la responsabilità vada cercata anzitutto nelle forze politiche e nelle istituzioni che, incapaci di dare risposte concrete ai problemi del settore, hanno preferito spostare altrove l’attenzione. Così, si è parlato e molto di questioni oggettivamente marginali mentre sono rimasti nel cassetto i molti disegni di legge scritti per istituire i blind-trust, per riscrivere lo statuto dell’impresa editoriale, per allontanare il Governo dal controllo diretto della Rai e per operare una più equa distribuzione delle risorse pubblicitarie. In quest’ultimo campo è stato particolarmente grave il ritardo cumulato dall’Italia nel recepire la direttiva comunitaria sul copyright che impone ai grandi operatori del mondo digitale il pagamento di un equo compenso ai produttori dei contenuti. Tra le molte responsabilità che possono essere addebitate agli editori dei media tradizionali, prima fra tutte una scarsa capacità di innovazione, va infatti riconosciuto loro di aver subìto, in particolare nell’ultimo decennio, una feroce e iniqua cannibalizzazione.
Tutto questo ha contribuito a svuotare le redazioni, ridurre gli investimenti, abbassare la qualità dei prodotti editoriali, devastare il mercato del lavoro facendo crescere un esercito di collaboratori sfruttati e privi di tutele. Se questo è il contesto, diceva qualcuno, “Che fare?”. Risposte facili non ne esistono ma credo che se si vuole dare un futuro a un settore strategico per la democrazia del paese serva un patto che coinvolga editori, giornalisti e istituzioni. Se proprio i due anni di pandemia hanno messo in evidenza l’importanza dell’informazione professionale allontanando al tempo stesso l’idea dell’uno vale uno applicato al giornalismo, è necessario che tutti i soggetti coinvolti facciano la loro parte.
Le istituzioni devono mettere mano a quelle leggi di sistema capaci di riequilibrare le risorse e assicurare un corretto funzionamento del mercato editoriale. A fronte di questo, rassicurati da un contesto legislativo più equilibrato, gli editori dovrebbero abbandonare la strategia dei tagli lineari puntando sugli investimenti.Esempi come quello del New York Times e di Le Monde dimostrano che esistono grandi spazi di mercato per l’informazione di qualità.
Quanto a noi giornalisti è necessario abbandonare ogni ritrosia verso le trasformazioni della professione. Coniugare i valori etici e deontologici che contraddistinguono il mestiere nel rapporto con le nuove tecnologie è un obiettivo indifferibile. Nel giornalismo attuale, consumare le celeberrime suole delle scarpe alla ricerca delle notizie significa sapersi confrontare con i big-data, consultare le fonti aperte, immergersi nel dark-web, conoscere e utilizzare i social media nella loro architettura, seguire l’evoluzione dei linguaggi. Su questo terreno un aiuto penso possa giungere anche dall’Ordine, non solo come custode della deontologia, ma anche e soprattutto nella proposta di eventi formativi che tengano conto dell’esigenza di offrire reali opportunità di riqualificazione professionale.
Tutto ciò, accadrà? A questa, domanda, ovviamente non so rispondere. Conosco però ciò che accadrebbe senza interventi che vadano in questa direzione. L’informazione è un bene comune, come l’acqua che beviamo e l’aria che respiriamo: se qualcuno ne avvelena le fonti finiamo tutti con l’ammalarci. L’imbarbarimento del dibattito pubblico al quale assistiamo altro non è che il primo sintomo di un fenomeno del quale rischiamo di misurare tutta la gravità nel giro di poco tempo. Contrastarlo dev’essere un impegno collettivo. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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