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[La polemica] La lettera inutile contro i mostri della marchetta sul web: da Belen alla Marcuzzi fino alla Tatangelo e gli altri

La sinergia tra gli uffici marketing e le agenzie pubblicitarie spesso genera mostri e se non li genera, se li va a cercare. Il segnale dell’Antitrust, per quanto tardivo e nella pratica della giungla probabilmente inutile, ha il merito di ricordarci che le regole ci sono e finché qualcuno non le cambia, dovrebbero essere rispettate da tutti

Luigi Carlettidi Luigi Carletti   
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Belen Rodriguez

Nell’economia rapace del mordi e fuggi, gli influencer della Rete pagati un tanto a post sono tra le più amabili e preziose creature che potessero schizzare fuori dal ventre infinito del web-senza-regole. Il mondo orgasmico della pubblicità che non conosce limiti e deve fatturare costi quel che costi, se li coccola e se li cresce questi autentici fenomeni della comunicazione social che negli ultimi anni hanno costituito quel pittoresco marchettificio sul quale regnano i fashionblogger, i foodblogger e tutti gli altri emuli del messaggio virale a sfondo “vagamente commerciale”.

Il fenomeno è talmente diffuso ed è così fatalmente accettato tra moltissimi utenti della Rete, che oggi fa sorridere e suscita perfino una tenera simpatia l’iniziativa presa dall’Antitrust, con la lettera ai principali influencer italiani per dire loro – in sostanza – di darsi una regolata e di far sì che la pubblicità sia sempre trasparente. Immagino che faccia possano aver fatto le varie Chiara Ferragni, Belen Rodriguez, Alessia Marcuzzi, Anna Tatangelo e le altre (e gli altri) che vantano milioni di follower, un esercito sconfinato di utenti (e quindi di consumatori) ai quali viene propinata la quotidiana razione di utili suggerimenti per un vestito, un profumo o una vacanza. Il tutto, naturalmente, sempre presentato come una scelta personale dell’amato/a influencer che, tra sorrisi e strizzatine d’occhio, svela i suoi gusti e le sue preferenze.

Intendiamoci, l’Antitrust ha assolto a un suo dovere e ha piantato la sua bella bandierina tra le molte altre che dovrebbe piantare ogni giorno. Quella lettera – da molti considerata “inutile” – resta un fatto. Della serie: noi ve l’abbiamo detto. Gli influencer (e le influencer) avranno preso atto del messaggio con qualcuna di quelle simpatiche espressioni che impreziosiscono i loro amatissimi blog, e un minuto dopo saranno tornati alle loro redditizie occupazioni. Dunque tutto a posto e avanti così?

Tutto a posto non proprio, perché quello della pubblicità mascherata da informazione è un fenomeno tutt’altro che recente e non è certo imputabile (soltanto) agli influencer della Rete. E’ un tema che parte da lontano e ha coinvolto soggetti di ogni categoria, inclusi numerosi colleghi giornalisti che per decenni hanno solcato il mare della comunicazione su quel sottile e insidioso confine tra la notizia e la marchetta. Ed è chiaro che oggi, con l’esplosione della Rete in tutte le sue declinazioni, il fenomeno è destinato ad assumere proporzioni mai viste prima. Fino al punto di saturazione.

Ed è esattamente qui il nodo della questione: il livello di saturazione. Che vale per la pubblicità, ma vale anche per l’informazione e per ogni altro tipo di comunicazione buttata nella forsennata centrifuga del web e sparata addosso a ciascuno di noi utenti in mille modi diversi attraverso un’infinita gamma di possibilità tecnologiche e mediatiche.

Gli influencer della marchetta pubblicitaria, così come il fenomeno delle fake-news e di altri contenuti-spazzatura, costituiscono quella nauseabonda mucillagine del web che continua a salire e che in molti utenti genera già stanchezza e scetticismo se non diffidenza, fastidio e ostilità fino alla vera e propria repulsione. Il fatto è che questi sentimenti di rifiuto, una volta innescati, non fanno troppe distinzioni: se quel web “fa schifo”, allora il web fa schifo tutto. E dentro rischiano di finirci anche quei soggetti – e sono in molti – che pur non avendo un brand affermato e consolidato, cercano comunque di operare seriamente e con un approccio eticamente corretto all’informazione in rete.

E’ per questo che il segnale dell’Antitrust, per quanto tardivo e nella pratica della giungla probabilmente inutile, ha il merito di ricordarci che le regole ci sono e finché qualcuno non le cambia, dovrebbero essere rispettate da tutti. Incluse quelle aziende che sempre di più fanno ricorso a quel tipo di pubblicità (o viral communication) e ricoprono d’oro i blogger marchettari. La sinergia tra gli uffici marketing e le agenzie pubblicitarie spesso genera mostri e se non li genera, se li va a cercare. Gli influencer della marchetta sono lì, pronti all’uso. Etica, obiettività e verifica delle informazioni non sono questioni che li riguardino. A loro interessa solo il conto in banca che l’immagine costruita più o meno misteriosamente, può far lievitare oltre ogni umana comprensione. E i pubblicitari – che spesso andrebbero difesi anche da se stessi – continueranno a sfruttare il fenomeno fino all’inevitabile punto di svolta, per poi passare rapidamente ad altro. Nell’economia esasperata del mordi e fuggi, questa è la regola.

Nella società civile, invece, le regole sarebbero altre. Tutelare i consumatori, per esempio, non è un’espressione retorica o di stampo sovietico, perché mai come in questo caso significa tutelare i più giovani (i nostri figli, i nostri nipoti) che con lo strumento Internet hanno grande confidenza e infinite possibilità di accesso, ma spesso non hanno alcun codice culturale ed esperenziale per decifrare i messaggi che quello strumento può veicolare. Ecco perché parliamo di regole. A questo servono, le regole. E per ricordarcelo non dobbiamo certo aspettare una lettera dell’Antitrust.

Luigi Carlettidi Luigi Carletti   
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