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Dal dramma personale al libro anti-armi nel segno di papà "Ago" Di Bartolomei

Luca, il figlio del grande calciatore della Roma tragicamente scomparso nel 1994, spiega a Tiscali Notizie: "Una pistola non può in nessun modo lenire le paure profonde che tutti noi abbiamo"

di Andrea Curreli   
Dal dramma personale al libro anti-armi nel segno di papà 'Ago' Di Bartolomei

"Quando mio padre Agostino si è sparato, l'ultimo ad averlo visto vivo sono stato io". La voce narrante è quella di Luca Di Bartolomei e Agostino è "Ago" o "Diba", il capitano con la maglia numero 10 che aveva conquistato il popolo giallorosso vincendo lo scudetto con la Roma nel 1982-1983 prima di passare al Milan con il "Barone" Nils Liedholm in panchina. Tra padre e figlio, tra Agostino e Luca, si è messa in mezzo una Smith & Wesson calibro 38 special. Agostino Di Bartolomei si sparò al cuore nella villa di San Marco di Castellabate nel salernitano, la mattina del 30 di maggio 1994 quando aveva 39 anni. Il calcio si fermò attonito davanti alla morte di quel calciatore taciturno, profondamente cattolico e così lontano da un mondo che si stava rapidamente trasformando in uno show ricco di luci e tanti soldi. Me nel mezzo di tutto ciò c'era anche e soprattutto il dolore della famiglia e di Luca. "Qualcosa di noi è rimasto da allora e per sempre ostaggio di quella pistola. Non abbiamo avuto né la forza né il coraggio di disfarcene", scrive Di Bartolomei.

Quel "vissuto personale" è alla base della battaglia che oggi Di Bartolomei conduce contro il parallelo "più armi, più sicurezza". Luca non ha seguito le orme di un padre calciatore che sognava di fare il medico, ma è un avvocato "innamorato di calcio, politica e arte moderna". Il frutto di questa sua quotidiana lotta contro le spinte per incrementare la diffusione delle armi è il libro Dritto al cuore (Baldini e Castoldi editore, 2019). "Il giorno del mio compleanno furono pubblicati i dati di una ricerca del Censis secondo la quale 4 italiani su 10 si sarebbero sentiti più sicuri avendo un'arma in casa - dice Di Bartolomei a Tiscali Notizie -. Mi sono spaventato perché io con un'arma in casa ci sono cresciuto, con quell'arma mio padre si è tolto la vita. Da 25 anni noi facciamo i conti con un'arma che ha cambiato il corso della nostra esistenza".

Se ha inciso radicalmente sulle vostre vite, perché non vi siete liberati di quell'arma?
"Viviamo una sorta di Sindrome di Stoccolma con quella pistola. Non riusciamo nemmeno a toccarla e a liberarci di lei anche se ha provocato a tutti noi un grandissimo dolore".

Come si passa dal dramma personale e familiare alla critica contro l' "emergenza sicurezza"?
"Il dramma personale è diverso dal discorso generale che riguarda l'utilizzo di questi strumenti. Le persone pensano che le armi siano utili a scacciare la paura o a difendersi in casi estremi. E' una falsa percezione perché una pistola o un'arma da fuoco non possono in nessun modo lenire le paure profonde che tutti noi abbiamo. I dati indicano che viviamo in un Paese incredibilmente sicuro. E molto più sicuro di qualche anno fa".

Nel suo libro lei cita dati e percentuali. Ma non nega che ci sia un sentimento di forte insicurezza in Italia.
"Sì, esiste perché c'è un disagio più profondo che coinvolge soprattutto la classe media sia italiana che europea. Viviamo anni di incertezza o meglio di incertezze. Non solo lavorative, ma anche umane e personali. Siamo davanti a una disgregazione del tessuto sociale e familiare, una atomizzazione continua della società. L'io viene posto al centro e il resto finisce per sfilacciarsi".

L'incertezza aumenta la tentazione di armarsi?
"L'incertezza porta paura. E oggi ci sentiamo minacciati dal migrante, l' 'uomo nero' ha sostituito il polacco, o il rom. Questa paura poi viene amplificata per motivi essenzialmente politici e per questo motivo trova ampio spazio nei media. Una politica mediocre ha avvelenato i pozzi fornendo una risposta semplice a problemi molto più complicati".

di Andrea Curreli   
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