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Bobby Solo e capitano Kirk sì, i partigiani no. La metamorfosi del Pd alla festa dell'Unità

Non è uno scherzo: è la mutazione genetica delle feste nazionalpopolari più antiche della Repubblica

di Luca Telese   
Bobby Solo e capitano Kirk sì, i partigiani no. La metamorfosi del Pd alla festa dell'Unità

L'estate della follia alla Festa de l'Unita. Mettere i partigiani fuori dalla casa che hanno difeso con il "parabello in spalla", per accogliere simbolicamente, l'ospite d'onore Denis Verdini, grande animatore di immaginifici comitati per il Sì al referendum. Mettere fuori dai dibattiti sulle riforme delle feste l'Anpi, a Bologna, con un corollario inevitabile di polemiche, e poi aprire le porte a splendide baracconate da fiera, come la visita di William Shatner (meglio noto al mondo come il comandante Kirk di Star Treck), oppure ai concerti di Bobby Solo (come è successo a Pescara).

Non è uno scherzo. È il mondo capovolto. È la mutazione genetica delle feste nazionalpopolari più antiche della Repubblica. È noto che Matteo Renzi e il suo gruppo dirigente questa estate avrebbero voluto ribattezzarle le kermesse con la nuova dizione "Feste del Sì", fermandosi poi solo un attimo prima del grande passo, dopo che le strutture dirigenti intermedie avevano fatto riflettere i nuovi dirigenti su l'incredibile errori di markenting. A Torino - per dire - sono scoppiate polemiche perché il Sì era la parola dominante dei manifesti promozionale, dove il nome e le date della festa scomparivano per cedere il passo al messaggio propagandistico. Ed è noto anche che - per lo stesso motivo - che la denominazione "Feste del Pd" (giá introdotta nell'era Veltroniana), non è stata mai da del tutto accettata, e molte feste (malgrado la sorte dell'omonimo quotidiano, fondato da Antonio Gramsci e affondato da Fabrizio Rondolino) si ostinano a mantenere la stessa denominazione di sempre.

Alle festa di Ostia, tanto per fare un esempio, da mezzo secolo c'è sempre lo stesso logo, è sempre la solita tonnellata di cappelletti fatti s mano da militanti emigrate dall'Emilia Romagna negli anni cinquanta. D'altra parte, le feste furono una complessa e illuminata operazione di ingegneria politico-culturale. Vennero importate dagli ex esuli espatriati negli anni trenta in Francia, che aveva studiato (negli anni del regime), le feste del Front populaire francese, che univa comunisti e socialisti. In più le feste dell'Unità avevano un irresistibile mix che le rendeva accattivanti e accessibili anche ad un enorme pubblico, un dogma non ideologico. Le feste univano la gara del tappo e gli stand concessi ai movimenti di liberazione internazionale, la solidarietà con Lumumba e i partigiani congolesi (o con il Cile, con gli Sinti Illimani e contro Pinochet), e la lotteria ad estrazione a premi.

Le feste erano state negli anni Settanta la palestra di tutti i cantautori italiani, di ogni segno e colore - da De Gregori a Guccini - ma anche il tempio del ballo liscio. Le feste erano un luogo di ortodossia e di eterodossia: la linea del partito, ma anche della tolleranza con gli infaticabili ed assatanati agit prop di Lotta Comunista, a cui era consentito di diffondere i propri giornali tra gli stand. E tutti ricordano la famosa citazione di Edoardo Bennato, fotografia del conflitto generazionale innescato dal movimento del 1977: "Gli Impresari di partito/ mi hanno fatto un altro invito/ e hanno detto che finisce male/ se non vado pure io/ al raduno generale/ della grande festa nazionale!". Era vero. Perché i manager del Pci avevano l'ossessione quasi scientifica di tenere insieme tutto, la linea del partito e la nouvelle Vogue dei contestatori (come il sarcastico Bennato). E poi, ovviamente, la festa era in tempio del dibattito.

Il luogo (festa di Roma del 1984) dove Giulio Andreotti creó una crisi diplomatica internazionale con la famosa frase (da riabilitare) sulle due Germanie che "era meglio se fossero rimaste divise". Alla festa si discuteva e si polemizzava, si accoglievano tutte le diversità, come nel noto dibattito sull'omosessualità organizzato agli albori degli anni ottanta dall'Arcigay in cui un giovane Franco Grillini sentì un militante iniziare il suo intervento così: "Sono d'accordo con quello che ha appena detto il compagno busone". Alle feste dsi cuocevano le salamelle ma si fermavano gli stand per alzare bandiere, commemorare vittime, ricordare dirigenti scomparsi, ospitare leader terzomondisti come il nicaraguense Daniel Ortega. Le feste sono immortalate nel cinema italiano, prima di tutto, dalla celebre ed esilarante scena di "Berlinguer ti voglio bene" con il dibattito sulla parità di genere: "Pole la donna permettisi di pareggiare con l'omo?".

"Si", "No", "'Si apre il dibattito". Le feste sopravvissero anche allo scontro capitale tra il Sì e il No nel congresso della svolta, nel 1989, ospitarono polemiche e duelli, contese memorabili anche con il faccia a faccia tra opposte fazioni nella costola della festa di Cuore organizzata Montecchio, sarcastica ed irriverente. A nessuno veniva in mente che Pietro Ingrao potesse non parlare alla festa perché aveva una opinione diversa da quella di Achille Occhetto, nessuna pensava di togliere la parola Ad Aldo Tortorella per darla (solo) a Claudio Petruccioli). Invece, l'attuale gruppo dirigente, continua ad opporsi alla possibilità dell'Anpi di partecipare al dibattito sulle riforme. Ha scritto una giornalista iscritta al Pd, come Chiara Geloni, una grande verità: e cioè che questo divieto è un boomerang perché proprio questo veto grottesco ha permesso all'Anpi di avere una visibilità e una solidarietà che è andata ben oltre il confine delle feste.

Non c'è dubbio. Ma io ho il sospetto che tutto questo Matteo Renzi non lo voglia, o non lo possa capire. Per lui le feste sono commercio più propaganda, a lui le feste piacerebbero con le serate in stile amico organizzate con la De Filippi, e con gli spot promozionali del Sì registrati da un giordani sta come Luca Semprini o da una mi stressa come Maria Elena Boschi. Nella sua lotta contro lo spirito delle feste Renzi dimostra tutta la sua alterità alla storia culturale di un partito che - dopotutto - non ha mai conosciuto. Per questo Renzi non può capire che lottare contro l'Anpi significa lottare contro lo stesso dna della sinistra, e cercare di far passare Verdini come un alleato significa distruggere quel Dna. Si possono riempire le arene delle feste con Bobby Solo e William Shatner, con Happy days o con la #Buonascuola, certo. Ma poi si ammazza il dibattito. E con quello - subito dopo - anche il partito.

di Luca Telese   
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