Conflitto tra Usa e Iran: è presto per dire chi ha vinto. Quali sono i rischi per la nostra economia
Le conseguenze sull’equilibrio delle forze nello scacchiere medio-orientale le valuteremo solo nei prossimi mesi. A certe condizioni le conseguenze per il nostro Paese potrebbero essere devastanti

E’ ancora presto per dire chi ha vinto e chi ha perso nello scontro che si è consumato, nel giro di pochi giorni, fra Usa e Iran. Le conseguenze sull’equilibrio delle forze nello scacchiere mediorientale le valuteremo solo nei prossimi mesi. Sul piano della propaganda, tuttavia, la partita fra droni americani e missili iraniani ha consentito ad ambedue i governi – a torto o a ragione - di rivendicare una sorta di 1 a 1, quanto è bastato per allentare la tensione e far parlare di de-escalation. Le Borse hanno festeggiato, l’oro, tradizionale bene-rifugio ha ripercorso all’indietro il cammino che, in poche ore, lo aveva portato a toccare i massimi dal 2013, il barile di petrolio, che era schizzato sopra i 70 dollari è ripiombato a 65, un calo del 9 per cento in un giorno solo, che è un record.
Il petrolio
Per l’Italia, il sospiro di sollievo riguarda soprattutto il prezzo del petrolio. Importiamo oltre il 70 per cento del nostro fabbisogno energetico e compriamo, ogni giorno, oltre un milione 340 mila barili, per una spesa annua superiore ai 20 miliardi di euro. Un aggravio improvviso, ad esempio, di 10 dollari al barile peserebbe sulla nostra bilancia dei pagamenti per 3-4 miliardi di euro l’anno. In realtà, peraltro, anche a prescindere dal costo del petrolio, noi paghiamo già un prezzo pesante alle tensioni che Trump ha suscitato con l’Iran. Nel 2017, prima delle sanzioni della Casa Bianca contro Teheran, eravamo diventati il primo partner commerciale europeo dell’Iran. L’interscambio (importazioni più esportazioni), pur senza tornare ai massimi di 7 miliardi di dollari l’anno del 2011 era risalito a quasi 5 miliardi. Per misurare l’impatto che le sanzioni hanno avuto sugli affari tra Italia e Iran, basta confrontare i dati dei primi 9 mesi del 2018, rispetto ai primi 9 mesi del 2019. Le nostre esportazioni si sono dimezzate: da quasi 1,2 miliardi di euro a 600 milioni. Le importazioni (soprattutto greggio) sono praticamente scomparse: da 2,6 miliardi di dollari a neanche 120 milioni.
Gli ottimisti
Ci sono gli ottimisti convinti che il sereno (affari compresi) possa tornare presto. Fermatisi appena in tempo sull’orlo dello scontro militare, Trump e gli ayatollah potrebbero andare assai al di là della de-escalation e riprendere un genuino negoziato. Ma sono molti di più i pessimisti. Come reagirà la Casa Bianca, quando Teheran darà corpo all’annuncio di aver ripreso i lavori per la bomba atomica? E cosa succederebbe se, non gli iraniani, ma una milizia libanese o irachena a loro vicina ammazzasse soldati americani? La situazione è fragilissima e l’impatto di un inasprimento ulteriore del confronto sull’economia internazionale potrebbe essere molto pesante.

Paradossalmente, trattandosi di Medio Oriente, non per il petrolio (e questa, come abbiamo visto, è una buona notizia per l’Italia). Gli iraniani potrebbero bloccare lo stretto di Hormuz, l’arteria principale del traffico mondiale di petrolio (vi passa il 20 per cento del greggio venduto sul mercato internazionale), ma la realtà è che di barili, in questo momento, ce ne sono in giro abbastanza da soddisfare la domanda. Lo dimostra il fatto che l’uscita di scena, di fatto, di importanti produttori come lo stesso Iran, colpito dalle sanzioni, e la Libia, dilaniata dalla guerra civile, ha avuto effetti limitati sui prezzi. I grandi produttori, come Arabia saudita e Russia, hanno diminuito l’estrazione, proprio per sostenere i prezzi. In caso di crisi, potrebbero tornare a pompare dai pozzi a pieno regime. Senza contare che anche gli altri grandi protagonisti, gli americani dello shale, stanno producendo meno di quanto potrebbero.
Il rischio dello shock finanziario
Insomma, non è lo shock petrolifero quello che gli analisti temono in prima battuta. E’ lo shock finanziario che potrebbe essere innescato dall’ondata di panico scatenata dai venti di guerra. Per dirla in due parole: c’è molto petrolio, ma troppi debiti. Guardando in giro si vedono borse ai massimi, probabilmente sopravalutate, quindi fragili. Imprese superindebitate. Superpotenze (Germania quasi in recessione, Usa e Cina in rallentamento) che marciano stentatamente. L’economia mondiale si muove, dunque, su ghiaccio sottile. Non ne sono, forse, pienamente consapevoli i mercati finanziari che, negli ultimi anni, si sono cullati nella tranquillità della rete di protezione e garanzia offerta dai costanti interventi delle banche centrali. Ma, con i tassi di interesse già a minimi record, le armi a disposizione della Fed o della Bce per combattere una recessione sono molto limitate, se non proprio spuntate. Una guerra Usa-Iran – hanno calcolato con spericolato coraggio statistico a Capital Economics - toglierebbe lo 0,5 per cento ad una crescita mondiale che già fatica a superare il 2,5 per cento. A ottobre, proprio guardando alla corsa ad indebitarsi, approfittando dei tassi bassi, da parte delle imprese, il Fondo monetario internazionale aveva già calcolato che, nel caso di una recessione severa anche solo la metà di quella del 2009, il 40 per cento dei debiti delle aziende degli 8 paesi più importanti dell’economia mondiale diventerebbero “a rischio”. Fuori dal gergo, significa che imprese con debiti superiori, complessivamente, a 19 mila miliardi di dollari, non incasserebbero profitti sufficienti a pagare gli interessi sui loro debiti.
Una specie di gigantesca bolla. Se scoppiasse, per un paese fragile e con una economia in ristagno, come l’Italia, sarebbe (questo sì) devastante.