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Concretezza e urgenza per salvare l’Europa. Draghi mette in guardia da una lenta agonia

L’ex premier e Presidente della Bce ha presentato ieri il Rapporto sulla competitività della Ue. La cura in 170 progetti da fare subito. “Troppa burocrazia, siamo vecchi e lenti”. L’attacco a Vestager. La presentazione è stata fatta slittare più volte da giugno. Molte direzioni generali della Commissione temevano questo report

Claudia Fusanidi Claudia Fusani   
Mario Draghi
Mario Draghi (Foto Ansa)

La fotografia è impietosa: dal 1989 il Pil europeo è in costante calo rispetto a quello Usa; nella classifica delle 18 aziende che investono di più al mondo solo due sono europee, nello specifico tedesche e legate ad un “vecchio” settore come quello dell’auto, dieci sono americane, una coreana, una cinese e due svizzere (settore medicinali); il ritardo tecnologico tra Ue e Usa si misura con il 17% dei brevetti europei e il 21% americani; per restare al mondo delle start up, solo il 9% di quelle europee riesce a sviluppare fatturati oltre il miliardo di dollari mentre sono il 54% quelle americane. Ancora: il prezzo dell’elettricità per l’industria in Europa e assai più caro di Cina e Usa; la capacità produttiva di microchip (sotto i 10 nanometri, i più raffinati) in Europa e Usa era zero nel 2022 e nel 2032 sarà del 6% in Europa e del 20% negli Usa. In compenso, l’Europa ha una spesa militare annua pari a 255 miliardi di cui il 78% acquistata da paesi extra Ue. Siamo “vecchi” e “lenti” e se vogliamo evitare una “lenta agonia'', l'Unione Europea deve cambiare “radicalmente”. Due le parole chiave: “concretezza” e “urgenza”. Con un rapporto di 393 pagine l’ex premier e Presidente della Bce Mario Draghi ieri ha consegnato a Ursula von der Leyen il suo atteso rapporto sul ‘"futuro della competitività europea”. Doveva essere presentato a giugno, subito dopo le elezioni europee ma prima delle riunioni e del voto sui top jobs a cui Draghi era stato in qualche modo indicato. Quella data è slittata - e non si è mai capito perchè - anche se superMario trovò il modo di veicolare le conclusioni del suo lavoro durato quasi un anno in occasione di un convegno.

Quei continui rinvii

Ieri, a lavoro quasi completato per la formazione della nuova Commissione, Draghi ha potuto consegnare e presentare il lavoro nella sala stampa di palazzo Berlaymont. Un rapporto ‘“granulare", che contiene "circa 170 proposte”, solo per menzionare quelle “generali”, senza contare quelle “specifiche”. Proposte che, ha rimarcato, possono essere attuate “immediatamente”. Per questo forse è stato ritardato: le conclusioni erano molto temute in alcune direzioni generali della Commissione che ne temevano, appunto, l’immediata applicazione. Peggio ancora forse, un ruolo specifico per Draghi. A domande precise sulle ragioni del ritardo e dei continui slittamenti, l’ex presidente della Bce ha detto che non ci sono “motivi particolari” se non il fatto che il nuovo Parlamento Europeo non si era ancora insediato. Anzi, ha detto, “due mesi” di tempo in più gli hanno dato modo di rendere il rapporto ancora più completo. In realtà, il motivo dei ripetuti rinvii è semplice: quella di Draghi è una voce che a Bruxelles pesa. Eccome. Il civil servant che salvò l’euro è abituato a parlare chiaro e oggi in conferenza stampa si è capito benissimo come la pensa. ''Tra il 2019 e oggi - ha detto - abbiamo prodotto qualcosa come 13mila testi legislativi, mentre gli Usa nello stesso tempo ne hanno prodotti 3mila. E’ una cosa che fa pensare: possiamo fare un po’ di meno ed essere un po’ più focalizzati?”.

Critiche a Vestager e non solo

Non solo. Draghi ha sottolineato che la politica di concorrenza Ue dovrebbe essere più “lungimirante”. Interrogato, ad esempio, sulla celebre bocciatura decretata dalla Commissaria alla Competizione (Dg Comp) della progettata fusione Siemens-Alstom, ha notato che oggi la Cina potrebbe benissimo “importare” in Europa “treni ad alta velocità”, quindi, forse, sarebbe il caso di guardare al “mercato unico anziché ai singoli mercati nazionali. E, “ovviamente”, la Competizione guidata negli ultimi dieci anni dalla danese Margarethe Vestager potrebbe essere un po’ più rapida: “Non dovrebbe volerci così tanto tempo per prendere una decisione e ottenere una risposta, quando si invia una lettera”. Si capisce anche da qui il perchè di tanti rinvii. Draghi ha però precisato che il suo rapporto non invoca la “difesa di campioni nazionali”. L'ex presidente della Bce ha anche spiegato che testi legislativi che vengono annoverati dal Parlamento Europeo tra i propri fiori all'occhiello, il regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr) e l'Ai Act, rischiano di essere “autolesionisti” dato che colpiscono le imprese europee che operano nel settore tecnologico, per lo più piccole. La produzione legislativa Ue in questi ambiti, ha rimarcato Draghi, costringe le imprese a dedicare sempre più personale alla compliance: peccato che le piccole imprese europee hi-tech, che spesso hanno “due o tre” dipendenti, non possano permettersi di assumere persone solo per essere sicure di rispettare le leggi. Così “uccidiamo le nostre imprese” ha avvertito. Non è un caso se “dal 2008” ad oggi il “30%” dei pochi unicorni che sono nati in Europa sono emigrati negli Usa, per poter crescere (un caso clamoroso è la svedese Spotify, gioiello tecnologico nato nell'Ue che è andato a quotarsi al Nasdaq di New York). “Questo deve cambiare - ha rimarcato - l’Ue deve diventare un posto in cui l’innovazione fiorisce, specialmente per le tecnologie digitali”.

Il divario

Draghi ha spiegato con chiarezza perché questo è un problema: tra gli Usa e l’Ue è cresciuto il “divario” nel Pil e, di conseguenza, la crescita del reddito disponibile negli Usa è stata “doppia” rispetto a quella europea. E' un “prezzo” che pagano “le famiglie europee” che diventano “sempre più povere” rispetto a quelle americane. Questo divario si spiega principalmente con il ritardo che la Ue ha accumulato nel settore tecnologico: “bloccata” in settori maturi, come l'automotive, mentre gli Usa hanno abbracciato e guidato la rivoluzione informatica. “Tra le imprese europee con una capitalizzazione di mercato superiore ai 100 mld di euro - ha sottolineato Draghi - non ce n’è una che sia stata costituita negli ultimi cinquant'anni, mentre tutte e sei le società statunitensi con una valutazione superiore ai 1.000 mld di euro sono state create in questo lasso di tempo”. L’Ue deve tornare a crescere, aumentando la produttività, perché “esiste per assicurare agli europei che beneficeranno di alcuni diritti fondamentali” cioè “prosperità, equità, pace e democrazia in un mondo sostenibile”. Se invece l'Europa “non potrà più assicurarli ai suoi popoli, avrà perso la propria ragion d’essere”. Quindi, non si tratta solo di “competitività” ma delle fondamenta del progetto europeo.

La decarbonizzazione

Aumentare la “competitività” non vuol dire comprimere il costo del lavoro o aumentare la “flessibilità”, come è stato per decenni, perché “non è su questo che si gioca” oggi la competitività. La partita si gioca sulla “innovazione”, sulle “competenze” e quindi sulla “formazione” delle persone. Il punto, ha spiegato, non è che in Europa “manchino le persone intelligenti o le buone idee” bensì “ci sono troppe barriere alla commercializzazione delle innovazioni”. Draghi ha anche parlato della “decarbonizzazione” che deve essere una “opportunità” per la crescita. Ma, ha avvertito, se le politiche Ue non saranno tutte “allineate” a dovere per raggiungere quell'obiettivo, c'è il serio “rischio” che la decarbonizzazione vada “in senso contrario alla competitività e alla crescita”. Per esempio, ha spiegato, l'Ue si è data l'obiettivo di non produrre più auto con motore a scoppio entro il 2035, ma gli obiettivi sulla produzione e l'installazione di colonnine elettriche di ricarica per i veicoli elettrici devono essere commisurati a quell'obiettivo. La “decarbonizzazione” si accompagna alla necessità di preservare e sviluppare la capacità industriale dell'Ue nelle tecnologie pulite. Se recuperare l'industria europea dei pannelli solari, distrutta dalla concorrenza cinese, è un'impresa disperata, perché avrebbe “costi enormi” per il contribuente, occorre però tenere presente che la concorrenza della Cina, sussidiata dallo Stato, può essere una “minaccia”per la nascente industria europea del clean tech.. Serve, ha aggiunto Draghi, una “politica estera economica”, che comporta, tra l'altro, fare accordi con Paesi produttori di materie prime chiave, predisporre scorte delle stesse, mettere in sicurezza le filiere di determinati prodotti sensibili.

Sberle sui costi dell’energia

La Ue soffre anche di un serio svantaggio competitivo nel prezzo dell'energia, che viene ancora fissato in maniera preponderante dal prezzo del gas. Draghi propone di aumentare la produzione di energia da fonti rinnovabili e, soprattutto, sganciare la formazione del prezzo dell’elettricità da quello del gas, in modo che gli utenti finali percepiscano i benefici della decarbonizzazione. Il mercato Ue dell’ energia è gravato da rendite finanziarie, ha sottolineato, ed è stato disegnato in un’epoca in cui i combustibili fossili erano assolutamente predominanti. Ha anche ricordato che, per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda, la sicurezza dell'Europa non è più scontata. Pertanto, ha rimarcato, è ora di aumentare gli investimenti nella difesa, senza dipendere da altri. Sono tutti obiettivi “non nuovi” che gli Stati membri stanno già perseguendo, ma ciascuno per conto suo, col risultato di ottenere risultati modesti, sul piano collettivo. “Potremmo ottenere molto di più, se procedessimo insieme” nota Draghi.

Un costo di 700-800 miliardi

Fedele al suo famoso pragmatismo, Draghi accompagna la diagnosi alla cura. Sono 170 le proposte di cose da fare subito. Con quali soldi? Alla Ue occorrono investimenti “massicci”. La quota di investimenti “dovrà aumentare di cinque punti di Pil” tornando ai livelli che non si vedevano dagli anni Sessanta. E il Piano Marshall, che risollevò l'Europa Occidentale dalla miseria in cui era precipitata con la Seconda Guerra Mondiale, aumentò la quota degli investimenti di “1-2”punti di Pil. Il rapporto quantifica la somma necessaria in “750-800 mld di euro”annui aggiuntivi: vale a dire, un Next Generation Eu in più ogni anno. Per reperire queste risorse, sottolinea Draghi, serve un “safe asset” comune, cioè titoli obbligazionari europei. Oltre agli investimenti di privati. Da soli, nè il pubblico nè il privato, ce la possono fare. Occorrono quelli pubblici, per finanziare “beni collettivi europei”.

“Sempre più piccoli”

''Il punto - ha chiosato Draghi - è che dobbiamo capire che stiamo diventando sempre più piccoli di fronte alle sfide che affrontiamo. Per la prima volta dalla Guerra Fredda dobbiamo davvero temere per la nostra autopreservazione. Le ragioni per una risposta unita non sono mai state così urgenti”. La regola aurea è che bisogna sempre guardare alla situazione “com’è senza mentire a se stessi”. In Europa “siamo già in modalità crisi. Non ammetterlo significa non riconoscere la realtà”. Un’altra soluzione potrebbe essere procedere per cooperazioni rafforzate su alcune materie, con “coalizioni di volonterosi”. La presidente Ursula von der Leyen, che ha commissionato il rapporto, ha detto che il lavoro di Draghi ha ispirato e continuerà ad ispirare la sua agenda politica. Bisognerà vedere cosa ne pensano i singoli governi. Che se avessero voluto la rivoluzione invocata da Draghi, gli avrebbero chiesto di guidare la Commissione. O il Consiglio.

Claudia Fusanidi Claudia Fusani   
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