C’era una volta la Camera dove tutto succedeva, ora tutti pazzi per il Senato
Era quasi impensabile che un leader di partito non sedesse nell’aula di Montecitorio: Bettino Craxi, ma anche Ciriaco De Mita, Ugo La Malfa, Enrico Berlinguer, Marco Pannella, Giorgio Almirante ne erano gli alfieri
C’era una volta la Camera dove tutto succedeva, dove bastava muoversi per il Transatlantico per respirare notizie, per raccogliere retroscena, per essere presi sottobraccio da Ciriaco De Mita, presidente del Consiglio dei ministri e segretario della Democrazia Cristiana, praticamente due divinità politiche in un corpo solo, e ascoltare i suoi “ragionamendi”. C’era una volta in cui era quasi impensabile che un leader di partito non sedesse nell’aula di Montecitorio: i democristiani, certo, ma anche Bettino Craxi, Ugo La Malfa, Enrico Berlinguer, Marco Pannella, Giorgio Almirante, Massimo D’Alema, Gianfranco Fini, il primo Silvio Berlusconi, Fausto Bertinotti, Pierferdinando Casini e tanti altri, in tutto l’arco parlamentare e anche oltre.
E il Senato?
Il Senato era un po’ il posto degli anziani, dei vecchi leader ormai pensionandi, del dibattito alto e nobile e, complice l’età degli eletti – che la Costituzione pone a 40 anni, con gli elettori di almeno 25enni, contro i 25 anni per essere eletti a Montecitorio e la possibilità di votare per la Camera per tutti i maggiorenni – era il posto dei ragionamenti in aula, dei pisolini nelle sale circondate di busti di senatori antichi, di toni ovattati simili alla Camera dei Lord inglese.
Poi successe qualcosa
Poi successe qualcosa: in particolare la rottura arrivò con le nuove leggi elettorali della seconda Repubblica che, prevedendo meccanismi diversi fra Camera e Senato (la Costituzione prevede che l’elezione di Palazzo Madama avvenga su base regionale e quindi anche gli eventuali premi di maggioranza sono assegnati su questa base e non, ad esempio, con un collegio unico nazionale), hanno posto Palazzo Madama in una posizione molto più combattuta e decisiva.
Il muro contro muro
Basti pensare anche all’ultima legislatura: il governo Conte, anche nella sua ultima fase, ha sempre avuto una maggioranza assoluta alla Camera, mentre al Senato sia in fase gialloverde, sia soprattutto in fase giallorossa e, segnatamente, nell’ultimo tormentato mese del Conte bis dopo che molti senatori avevano abbandonato la maggioranza, i numeri sono quelli che hanno portato alla caduta dell’esecutivo, con la sciagurata gestione della crisi, il muro contro muro e il tentativo di arruolamento di Responsabili non andato a buon fine.
Ma, prima ancora che con il Conte bis, il Senato era stato decisivo per tutti gli snodi più importanti della seconda Repubblica: gli scontri Spadolini-Scognamiglio e Marini-Andreotti per la presidenza dell’aula, resi ancor più drammatici dal regolamento che obbliga al ballottaggio finale; la nascita del primo governo di Silvio Berlusconi che nel 1994 non aveva i numeri e passò l’esame di fiducia grazie al voto di senatori a vita, autonomisti e soprattutto a tre senatori eletti nelle file dell’alleanza fra pattisti di Segni e Popolari ex democristiani.
El Senador Pallaro
Oppure, la nascita del secondo governo di Romano Prodi nel 2006, con le elezioni vinte dal centrosinistra solo grazie agli italiani all’estero che risultavano decisivi anche in aula, indimenticabile el Senador Pallaro, o al patto con Rifondazione che esprimeva un gruppo di senatori molto eterogeneo. E, infatti, bastò qualche passaggio di gruppo, la rottura di Clemente Mastella e di Lamberto Dini con il centrosinistra e il voto coerente di Franco Turigliatto, espressione della corrente trotzkista di Rifondazione, per far cadere il governo, con le indimenticabili scene in aula di Nino Strano e Domenico Gramazio, senatori di Alleanza Nazionale, che stappavano champagne e mangiavano fette di mortadella per festeggiare la caduta in aula del Prodi bis (il primo, invece, era caduto sempre in aula, dieci anni prima, ma a Montecitorio).
Seduta drammatica
E, sempre al Senato, sempre in una seduta drammatica, venne votata la decadenza di Silvio Berlusconi da parlamentare dopo la condanna definitiva in Cassazione e l’affidamento ai servizi sociali dell’ex presidente del Consiglio. Ma – e qui c’è la prima notizia – proprio in quell’occasione, Berlusconi si fece eleggere al Senato e non alla Camera, come era avvenuto nelle prime legislature della “discesa in campo”, anche per approfittare dell’”effetto traino” connesso alla sua presenza sulle liste, in quella che storicamente era la più combattuta fra le due Camere.
Dove tutto accade
Il culmine di tutto questo, poi, si è avuto nell’ultima legislatura, dove – oltre agli epici voti di fiducia sul governo Conte che avevano a Palazzo Madama il loro punto più alto e più cruento dialetticamente, numericamente e politicamente – il Senato è diventato il posto in cui tutto accade. Basti pensare, ad esempio, al momento della caduta del primo governo di Giuseppe Conte, quello gialloverde, con la scena del presidente del Consiglio (non parlamentare) che rispondeva direttamente – seduto fianco a fianco al suo vicepresidente e ministro dell’Interno Matteo Salvini – con uno scontro che era su tutto.
Persino sul calendario dei lavori. E quando si vide che il centrodestra (con la ritrovata Lega) andava sotto anche su questo, sulla mancata accelerazione della crisi a Ferragosto, si capì che l’asse Salvini-Zingaretti sul rapido ritorno alle urne non avrebbe retto e che sarebbe successo qualcosa. E anche in quel frangente uscì potentissimo il ruolo del Senato, con Matteo Renzi, in quel momento ancora per pochissimo tempo nel Pd, che quando era segretario del Partito Democratico scelse Palazzo Madama, comprendendo che sarebbe stato il Senato la Camera decisiva, quella dove fare tutte le battaglie. E, segnatamente, vincerle.
E Matteo Renzi e Matteo Salvini, fra i quali vanno in scena incontri o scontri dialettici ogni volta che si vota su qualcosa di importante a Palazzo Madama – ultimo della serie il voto di mercoledì sulle comunicazioni del presidente del Consiglio Mario Draghi in vista del vertice Europeo – prendono la parola, solitamente uno dopo l’altro e nel momento di maggiore ascolto televisivo, anche perché sono proprio loro a propiziarlo quell’ascolto.
Camera svuotata di ogni potere
E invece, paradossalmente, la Camera è svuotata di ogni potere: con molti presidenti del Consiglio non parlamentari al momento della loro elezione (Mario Monti, nominato contestualmente senatore a vita da Giorgio Napolitano; Matteo Renzi; Giuseppe Conte; lo stesso Mario Draghi, con le uniche eccezioni rapide di Enrico Letta e Paolo Gentiloni) e i leader dei partiti o al Senato o proprio fuori dal Parlamento.
Dei senatori si è detto, Nicola Zingaretti è presidente del Lazio, Silvio Berlusconi oggi è eurodeputato, Carlo Calenda pure, Giovanni Toti governatore pure lui, Enrico Letta è stato richiamato da Parigi. E così, anche senza contare “Giuseppe Piero Grillo” che ancora sulle liste elettorali era in qualche modo il garante del MoVimento Cinque Stelle, pur avendo sempre scelto di non avere ruoli elettivi, gli unici leader presenti a Montecitorio in questo momento sono Giorgia Meloni, che dai banchi della Camera dei deputati si lancia nei suoi appassionatissimi discorsi parlamentari, come un meme vivente, e Luigi Di Maio che però, in questa legislatura, è rimasto deputato semplice solo i primi due mesi prima di diventare prima vicepresidente del Consiglio e ministro del Lavoro, del Welfare e dello Sviluppo Economico nel primo governo di Giuseppe Conte e ministro degli Esteri nel governo Conte bis e poi nel governo Draghi.
Insomma, pur formalmente deputato, Di Maio non è mai stato onorevole semplice. E, a fianco del suo nome, la colonnina dell’attività da deputato semplice (come accade per tutti coloro che sono al governo, non è una prerogativa di Gigino) segna zero proposte di legge presentate, zero interrogazioni, zero interventi. A differenza invece di quelli svolti come ministro. Ennesima prova plastica di come tutto accade sempre al Senato. Forse l’unica vera rivoluzione copernicana della seconda Repubblica.