Trivelle sì, trivelle no: cosa c'è da sapere sul referendum del 17 aprile
Il quesito, le norme, i rischi per l'ambiente e chi guadagna dalla presenza delle piattaforme petrolifere
L'appuntamento con il referendum è per domenica 17 aprile. Il più importante strumento di democrazia diretta previsto dalla Costituzione chiamerà alle urne circa 50 milioni di italiani. I quali dovranno decidere se abrogare "l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile2006, n. 152, 'Norme in materia ambientale', come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 'Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di Stabilità 2016)', limitatamente alle seguenti parole: 'per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale'". La consultazione referendaria è la prima della storia della Repubblica promossa dalle Regioni, dieci poi diventate nove dopo il ritiro dell'Abruzzo, la maggior parte delle quali governate dal Pd, il partito di governo. Dato ricco di significato perché alla base di molte delle discussioni politiche a corredo della consultazione. Compresa quella sull'astensionismo invocato dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Il quorum si raggiunge se va a votare la metà più uno degli aventi diritto al voto (23.443.782 elettori su 46.887.562). I seggi saranno aperti dalle 7 del mattino alle 22.
Cosa dice il referendum?
Il quesito che abbiamo riportato sopra riguarda le concessioni per i pozzi petroliferi compresi entro le 12 miglia dalla costa italiana, venti chilometri circa. L'attuale normativa, modificata dalla legge di Stabilità del 2016, prevede che le concessioni petrolifere finiscano con la fine del giacimento. Se dovesse passare il "Sì" le concessioni avrebbero una fine prestabilita e, al loro termine, le compagnie petrolifere dovrebbero smantellare le piattaforme oppure chiedere un nuovo permesso all'estrazione. Tenendo conto del fatto che le nuove perforazioni entro le 12 miglia sono proibite dalla legge - infatti il referendum riguarda solo le concessioni già in essere - resta intaccata la normativa relativa ai giacimenti terrestri e quelli oltre le 12 miglia dalla costa. (GUARDA LA GALLERY DELLE PIATTAFORME)
Le ragioni del "Sì": inquinamento e partecipazione negata
Inizialmente i quesiti referendari erano sei. I cinque cassati miravano a ripristinare la partecipazione delle Regioni nel processo decisionale in materia energetica, cancellata dal governo e ripristinata dall'ultima Legge di stabilità. Ma il tema attiene a scelte energetiche più ampie, che riguarda la sostenibilità ambientale e il passaggio graduale a fonti rinnovabili. Infatti il tema che tiene più banco è quello del rischio ambientale. Soprattutto se ci si riferisce a coste con un delicato equilibrio marino come buona parte di quelle italiane. Legambiente, associazioni varie e appelli di intellettuali sono in "campagna elettorale".
Greenpeace e le cozze di Eni
Tra queste c'è Greenpeace che, citando uno studio dell'Ispra commissionato da Eni, dove si analizzano le cozze nelle zone marine perforate, sostiene che l'inquinamento del mare nelle zone degli impianti è una realtà inevitabile. I mitili in questione, spiegano gli ambientalisti, sono fortemente impregnati di metalli pesanti. E questo a dispetto delle "oasi marine" che secondo l'Eni si formerebbero intorno alle piattaforme dove "le cozze hanno trovato il loro habitat ideale". Secondo Greenpeace non è proprio così. A riprova del fatto che gli sversamenti e le perdite legate all'attività "ordinaria" sono fattori di inquinamento certo. A questo si aggiunga il rischio incidenti (in Italia ce ne fu uno nel 1965 a largo di Ravenna con danni limitati perché di gas metano). Secondo un rapporto del Parlamento europeo però, piccoli sversamenti costanti avvengono intorno alle piattaforme: 9000 circa in tutto il Mediterraneo tra il 1994 e il 2000.
Le ragioni del "No": perdita di posti di lavoro
Se il governo si è espresso a favore dell'astensione e, da ultimo, ha optato per la "neutralità", in campo contro il referendum sono scese ovviamente le compagnie petrolifere. L'Eni come detto scende in campo con il tema delle cozze, che rientra comunque in un discorso più ampio di posti di lavoro. "Si rischia di perdere diecimila posti di lavoro", sostiene Assomineraria. Ma in realtà un dato preciso sui lavoratori dei pozzi offshore entro le 12 miglia non si conosce. Anche perché c'è tutto l'indotto che potrebbe raggiungere i 29 mila addetti. La perdita di posti di lavoro inoltre sarebbe condizionata alla gradualità della chiusura dei pozzi, che varia come detto dal 2018 al 2034. Il sindaco di Ravenna, Gianantonio Mingozzi, sostiene che si avrebbero due-tremila occupati in meno.
L'estrazione di petrolio a mare
Secondo i dati diffusi dal ministero dello Sviluppo economico, nei mari italiani ci sono 135 piattaforme e teste di pozzo. Quelle che sono comprese entro le 12 miglia dalla costa sono 92 e riguardano regioni quali Emilia Romagna, Veneto, Marche, Molise, Puglia, Calabria e Sicilia. Quindi per la maggiore nell'Adriatico e nello Jonio. Sempre secondo i dati verificabili sul sito del Mise, di queste solo 48 sono eroganti, quindi in attività, mentre tra non eroganti, non operative e piattaforme di supporto alla produzione, 40 strutture non producono petrolio. Le concessioni all'estrazione rilasciate dallo Stato hanno una durata iniziale di 30 anni, a cui se ne aggiungono dieci di proroga per la prima volta, poi cinque e infine altri cinque. Facendo due conti dunque, se vincesse il "Sì" la prima piattaforma entro le 12 miglia chiuderebbe tra due anni, mentre l'ultima rimarrebbe in vita fino al 2034, data di scadenza della concessione di Eni ed Edison per l'estrezione davanti a Gela in Sicilia.
Cosa si estrae nei pozzi entro le 12 miglia?
Secondo quanto scrive L'Espresso, citando dati del Mise, le piattaforme estraggono soprattutto metano, pari al 28,1 per cento della produzione nazionale di gas e al 10 per cento di quella petrolifera. Rapportando quanto estratto al fabbisogno nazionale, il contributo dei giacimenti entro le 12 miglia risulta piuttosto irrisorio: nel 2015 hanno contribuito a soddisfare il 3-4 per cento della richiesta interna per quanto riguarda il metano e l'1 per cento del petrolio.
Chi sono i baroni del petrolio italico?
Le piattaforme petrolifere oggetto del referendum sono principalmente di proprietà dell'Eni. La società energetica di Stato è infatti titolare di 76 impianti su 92 accreditati. Le restanti concessioni sono della francese Edison (15) e una della Rockhopper, una compagnia petrolifera inglese. Ma i diritti delle trivelle per i pozzi off shore e quelli a terra sono
Quanto ci guadagna lo Stato?
Uno dei temi più dibattuti è quello che riguarda gli introiti dello Stato relativamente alle cosiddette royalties, i diritti di concessione pagati dalle compagnie petrolifere. Secondo il Mise nel 2015 le titolari hanno versato nelle casse pubbliche complessivamente 351.984.903,70 euro, distribuiti tra i pozzi di mare e quelli di terra. Stringendo il cerchio si ottiene che le piattaforme entro le 12 miglia hanno versato circa 38 milioni, poca cosa. In effetti la tassazione delle compagnie petrolifere in Italia non è particolarmente vantaggiosa per lo Stato che, per quelle marittime che operano entro le 12 miglia, applica due aliquote: il 7 per cento per il gas e il 4 per il petrolio. Ma - e qui viene il bello - una serie di franchigie in vigore per le prime 20 mila tonnellate di petrolio e 25 milioni di mc di gas in terra e per i primi 50 mila tonnellate di petrolio e 80 milioni di mc in mare, fanno sì che attualmente a versare royalties siano, solo 5 di quelle che estraggono gas e 4 di quelle che estraggono petrolio. Le altre producono sotto franchigia e quindi gratis.