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Non sono più “la coppia più bella del mondo”, tra Conte e Di Maio è in corso una guerra fredda

se si gratta sotto le fotografie ufficiali e le immagini patinate che escono dai telegiornali, è evidente che tra i due sia successo qualcosa

Massimiliano Lussanadi Massimiliano Lussana   
Foto Ansa
Foto Ansa

Ufficialmente, sono amici, amiconi.  Tutte le foto ufficiali li ritraggono insieme sorridenti. E uno è addirittura il successore dell’altro nel ruolo di “capo politico del MoVimento Cinque Stelle”. E uno ha avuto il ruolo delicatissimo di ministro degli Esteri nel secondo governo presieduto dall’altro e di ministro dello Sviluppo Economico, del Lavoro e del Welfare nel primo governo presieduto dall’altro, di cui era addirittura vicepresidente del Consiglio e insieme “abolirono la povertà”, con tanto di champagne dal terrazzo. Però, se si gratta sotto le fotografie ufficiali e le immagini patinate che escono dai telegiornali, Giuseppe Conte e Luigi Di Maio così tanto amici non sono. E, lungi dall’apparire come “la coppia più bella del mondo” come qualcuno li narra, la scena sembra più quella dello splendido racconto di Conrad e del film di Ridley Scott, “I Duellanti”, eterni competitori per tutta la vita.

L’ultimo piccolo caso, anzi casino, è nato nei giorni scorsi dalle parole di Giuseppe Conte a Ravello, per presentare un libro: "Necessità di un serrato dialogo con il nuovo regime talebano, che si è dimostrato abbastanza distensivo".

Parole che, ovviamente, hanno scatenato le reazioni politiche, richiedendo una successiva precisazione da Giuseppe Conte sui social, che, tanto per non farsi mancare niente, ha attaccato Italia Viva e Matteo Renzi per le parole di qualche mese fa sull’Arabia Saudita, derubricando il tutto a “speculazione politica”. Ma, prima ancora della precisazione dell’ex presidente del Consiglio era stato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio a prendere – a modo suo, democristiano, felpato, le distanze dall'ex premier e ribadire: "È importante agire in maniera coordinata nei confronti dei talebani. Dobbiamo giudicarli dalle loro azioni, non dalle loro parole. Abbiamo a disposizione qualche leva, sia pur limitata, su di loro come l'isolamento dalla comunità internazionale e la prosecuzione dell'assistenza allo sviluppo fornita finora. Dobbiamo mantenere una posizione ferma sul rispetto dei diritti umani e delle libertà, e trasmettere messaggi chiari tutti insieme".

Ed è chiaro: le parole di Di Maio e la correzione in corsa dell’uscita dell’ex presidente del Consiglio e neoleader del MoVimento esprimono tutto l’imbarazzo del ministro degli Esteri di un governo orgogliosamente filoatlantico rispetto a un ex premier che ne ha guidati due che avevano anche altri interlocutori. In quello gialloverde uno dei due azionisti, la Lega (con Giorgetti filo-europeo e filo-Atlantico in una posizione meno politicamente decisiva di oggi) guardava anche a Puntin; in quello giallorosso l’interlocutore privilegiato era la Cina.

Tanto che, riletti oggi, i due discorsi di Conte e di Draghi, a distanza di pochi giorni, in occasione della crisi di gennaio, sono la cartina di tornasole più chiara per capire la rispettiva politica estera: Conte, anche negli ultimi giorni di mandato, omaggiava gli Stati Uniti e l’Europa, “ma anche” la Cina; Draghi ricollocava l’Italia saldamente nel perimetro storico classico, occidentale e atlantico. E anche le parole sulla Turchia di qualche settimana dopo andavano direttamente in quella direzione.

Insomma, Di Maio, fedele ministro degli Esteri del governo Draghi, sta con il suo premier, molto più di quanto stia con il capo del suo partito.

E ormai tutto questo è un copione assolutamente consueto: persino nel momento della drammatizzazione dello scontro fra Conte e Beppe Grillo, il ruolo di Di Maio (in quell’occasione insieme al presidente della Camera Roberto Fico) è stato quello del mediatore e dello sminatore. Ma, se si fosse giunti alla rottura, certamente il ministro degli Esteri e le sue truppe parlamentari, che sono ancora molto numerose, soprattutto alla Camera, si sarebbero schierati con il garante e non certo con l’ultimo arrivato, in quel momento addirittura non iscritto.

Il problema non è nemmeno ideologico, anzi caratterialmente sia Di Maio che Conte sono entrambi post-democristiani, molto democristiani e poco post, il primo nelle azioni (e vuole essere un complimento), il secondo nella dialettica da parroco pugliese degli anni Cinquanta (e, a suo modo, anche questo vuole essere un complimento).

Ma è chiaro che nello stesso pollaio non può esserci spazio per due galli con la stessa cresta moderata.

E quindi Conte ha scelto il ruolo di leader dei progressisti, qualsiasi cosa questo voglia dire, che è un po’ il riassunto di ciò che ha fatto la sinistra in Italia dal 1992 ad oggi, mentre Di Maio sta spingendo l’acceleratore sul serio sulla svolta moderata del MoVimento.

E così, inevitabilmente, si trovano loro malgrado su sponde opposte della barricata.

Basti pensare, ad esempio, a quando Di Maio scrisse la lettera di scuse all’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, ingiustamente carcerato e attaccato pesantemente all’epoca dai Cinque Stelle, affidandola per di più al Foglio, che del garantismo è uno degli house organ più credibili. Ecco, quel giorno Conte, formalmente fece i complimenti a Di Maio, ma per poi dedicarsi allo smarcamento da quelle scuse e alla rivendicazione dell’antica linea manettara, ovviamente con linguaggio da Mariano Rumor 4.0 che è la specialità dell’avvocato del popolo.

Oppure, sempre sulla giustizia, mentre Conte strappava con Draghi, Di Maio (e D’Incà e Patuanelli) mediavano per portare in porto la riforma Cartabia che riporta l’Italia nel girone del garantismo, ma senza abdicare a battaglie sacrosante come quella alla mafia.

E non è un caso che fra gli oltre cento addii parlamentari al MoVimento in poco più di tre anni di legislatura, siano stati in molti coloro che hanno spiegato che uscivano dalla galassia pentastellata, ma ringraziavano comunque Luigi Di Mario. E lo stesso, fuori dal Parlamento, ha fatto l’ex ministra della Difesa del primo governo Conte Elisabetta Trenta, ora transitata nell’Italia dei Valori, che ha spiegato a più riprese che questo non è più il suo MoVimento, ma “salvando” sempre Di Maio. Tutti, sottinteso, contrapponendolo a Conte.

E anche nei giorni di “Conte o morte” di fine gennaio 2021, Di Maio, pur facendo dichiarazioni sulle sue preferenze per un governo politico e per l’ineluttabilità di un Conte ter, è stato il primo a smarcarsi dalle dichiarazioni di chi, fra i suoi, duri e puri, iniziava ad attaccare Draghi e puntava tutto su soluzioni tipo il triste tentativo dei Responsabili in Senato.

Si sa com’è andata a finire, Di Maio è stato il primo a svoltare su “Conte o Orte”, parafrasando l’aforisma di Mino Maccari, non mettendo mai la faccia su dichiarazioni avventate contro il futuro presidente del Consiglio.

E soprattutto rimanendo sempre in ottimi rapporti anche con Sergio Mattarella, di cui pure chiese l’impeachment nel 2018, ma poi scusandosi pubblicamente due anni dopo.

Tanto che, fra i due duellanti, l’interlocutore preferenziale del Colle pare sempre il ministro degli Esteri. E certamente lo è anche per Palazzo Chigi.

Massimiliano Lussanadi Massimiliano Lussana   
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