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La strategia del M5S per le elezioni: Conte si muove a tutto campo. E gli addii sono quasi una liberazione

Si passa da alleanze locali e 'campi larghissimi' per le amministrative che si svolgeranno negli stessi giorni delle Europee

Massimiliano Lussanadi Massimiliano Lussana   
La strategia del M5S per le elezioni: Conte si muove a tutto campo. E gli addii sono quasi una liberazione
Giuseppe Conte ed Elly Schlein - Foto Ansa

Come ogni volta che si avvicinano le elezioni, il MoVimento Cinque Stelle esalta la sua identità e gioca a tutto campo e questa caratteristica – che è già stata vincente con l’ottima performance delle politiche 2022, dove è stato scongiurato il tracollo ipotizzato da molti, con anche la vittoria in molti collegi uninominali al Sud, su tutti quelli di Campania e Sicilia – si acuisce soprattutto in vista delle Europee, elezioni dove si vota con il proporzionale e con la soglia di sbarramento che sembrano fatte apposta per lasciare la massima libertà agli elettori.

E allora Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio che è stato capace di governare con la Lega nel governo gialloverde e con Pd e sinistra radicale nel governo giallorosso, è perfetto per guidare questo momento, in cui i pentastellati si muovono a tutto campo sulla scena politica: e così si passa da alleanze locali e 'campi larghissimi' per le amministrative che si svolgeranno negli stessi giorni delle Europee, con addirittura propri candidati appoggiati dal Pd, come l’ex viceministra dello Sviluppo Economico, Alessandra Todde, in Sardegna, a battaglie comuni come quella sul salario minimo, con le altre opposizioni, compreso Calenda ed escluso solo Renzi, ma anche differenziazioni notevolissime come quella sulla Rai, dove Conte non ha aderito alla protesta del resto delle opposizioni contro 'TeleMeloni', ricordando a Elly Schlein – fra l’altro avendo gioco facile – che il centrosinistra di governo non fece nulla di particolarmente diverso. In più il capo politico del MoVimento riconosce alcune professionalità di assoluto valore, primo fra tutti il direttore del Tg1, Gianmarco Chiocci, che certo non è pentastellato, ma con cui Conte ha un ottimo rapporto.

E poi ci sono momenti che comunque fanno capire che, su alcuni temi, l’asse sulle cui basi nacque il governo gialloverde è sempre vivo: si pensi al momento in cui Antonio Conte e Matteo Salvini sostennero Elisabetta Belloni per il Quirinale, stoppati solo da Matteo Renzi; al recente documento sulle armi in Ucraina rispetto al quale, per qualche ora, è sembrato che i presidenti dei gruppi pentastellato e leghista in Senato, Stefano Patuanelli e Massimiliano Romeo, potessero firmare insieme un emendamento sulle armi in Ucraina o, ancora, ovviamente, al voto comune sul MES a Montecitorio con i deputati del MoVimento decisivi numericamente, anche perché c’erano state astensioni in maggioranza.

Insomma, Giuseppe Conte gioca a tutto campo. E l’ha dimostrato anche accettando l’invito di Fabio Fazio a 'Che tempo che fa', “per la prima volta da quando è entrato in politica”. Fabio, solitamente accusato di essere troppo tenero con gli intervistati, confondendo il garbo e il suo stile con accondiscendenza, è stato invece durissimo con l’ex presidente del Consiglio, forse anche troppo. Ma ne ha tratto una risposta: e cioè che lui non si schiera a prescindere né con Biden, né con Trump, scavando un solco profondissimo con il Pd, apertamente schierato con i Dem a stelle e strisce. E, anche in questo caso, la sponda più forte nel resto del panorama politico è proprio la Lega, resuscitando almeno in politica estera il rapporto forte che diede origine al Conte uno, con la benedizione di Steve Bannon, che di quel governo è stato in qualche modo il filosofo, ma anche l’ispiratore della presidenza Trump e del famosissimo tweet dell’allora inquilino della Casa Bianca che dava il suo endorsement a 'Giuseppi'. E questa situazione, se Donald dovesse vincere le presidenziali a stelle e strisce, potrebbe ripresentarsi, anche perché a questo punto il presidente americano avrebbe bisogno di una sponda in Europa e quella italiana, al momento, è la più probabile, insieme ad alcuni Paesi dell’Est.

E, se ci fossero stati ulteriori dubbi, Conte li ha fugati in un’intervista al 'Corriere della sera': "Nel Pd esiste ancora, in alcuni, un riflesso condizionato. La memoria di un passato in cui quel partito aveva una vocazione maggioritaria e una pretesa egemonica. Oggi non funziona più lo schema dei satelliti che ruotano attorno a loro. Oggi c'è un rapporto alla pari". Basta? Non basta: "Bisogna che ci intendiamo. Per presentare un domani un progetto serio e credibile va approfondito il confronto oggi. Dobbiamo scacciare l'ipocrisia: non possiamo nasconderci le differenze, anzi proprio su queste serve un chiarimento. E soprattutto non si può chiedere certo al MoVimento di abbandonare quella forza propulsiva che da oltre dieci anni sta cambiando il Paese. Noi siamo questo".

Insomma, questo è il quadro

Al cui interno ci sono però alcuni particolari: ad esempio, il primo addio ai gruppi parlamentari di Senato della Repubblica, dove i pentastellati sono 28, e Camera dei deputati, dove sono 52, tutti fedelissimi di Conte perché scelti uno ad uno dal leader politico e quindi con gruppi parlamentari potenzialmente blindati. E infatti non è un caso se i due gruppi pentastellati al Parlamento, un tempo ospiti fissi della rubrica dei resoconti stenografici dedicata ai cambi di gruppo, fino ad oggi non avevano subito nessun addio, dimostrandosi fra i più 'impermeabili' dell’intero panorama di Montecitorio e Palazzo Madama, con anche la scelta di nuovi portavoce per le dichiarazioni televisive oltre ai 'soliti', in particolare Dolores Bevilacqua e Luca Pirondini, violinista genovese, faccia giovane, pulita e molto efficace dialetticamente.

Insomma, il primo addio ai gruppi è arrivato solo dopo quasi un anno e mezzo di legislatura. Ma c’è un ma. Si tratta della deputata Federica Onori, eletta sì nei Cinque Stelle, ma fra gli italiani all’estero e nel collegio Europa, che lavora alla commissione dell’Unione Europea. E perché è importante questa precisazione? Perché Onori se ne è andata insieme all’eurodeputato Fabio Massimo Castaldo, che dei Cinque Stelle a Strasburgo e Bruxelles è stato anche capodelegazione e vicepresidente del Parlamento Europeo: entrambi sono stati accolti da Carlo Calenda in Azione e hanno motivato il loro addio con la mancata condivisione della linea del partito sull’Ucraina.

Il MoVimento ha avuto gioco facile a replicare che Castaldo era al suo secondo mandato e non avrebbe potuto essere ricandidato a giugno, circostanza che aveva avvicinato il suo nome nei mesi scorsi al passaggio a Forza Italia.
E proprio nell’Eurogruppo, eletto in tempi ed ere politiche in cui il capo politico era Luigi Di Maio e non ancora Conte, gli eurodeputati rimasti nei Cinque Stelle sono solo cinque: la capodelegazione Tiziana Beghin, Laura Ferrara, Mario Furore, Sabrina Pignedoli e Maria Angela Danzì. Ma avrebbe potuto andare ancora peggio perché quest’ultima era la prima dei non eletti nel Nord Ovest (Lombardia, Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta), ed è subentrata a Eleonora Evi, che nel frattempo era andata nei Verdi, divenendone co-coordinatrice con Angelo Bonelli e poi deputata italiana.

Per cinque rimasti nei Cinque Stelle, sono sette (otto con la Evi) quelli che se ne sono andati in questi cinque anni: Dino Giarrusso, l’ex Iena che è rimasto insieme ai pentastellati nel limbo dei non iscritti, pur avendo salutato la compagnia, e altri sei che sono al secondo mandato e quindi non avrebbero potuto essere ricandidati dai Cinque Stelle: Castaldo, che per l’appunto va ad Azione e al gruppo di Renew Europe, dove ritroverà Marco Zullo, ora indipendente approdato al gruppo con macroniani, renziani e calendiani; Isabella Adinolfi, andata nell’eurogruppo di Forza Italia e tre ex pentastellati andati fra i Verdi, insieme a Eleonora Evi: Ignazio Corrao, Rosa D’Amato e Piernicola Pedicini. Ma per raccontare l’Europa pentastellata di domani, lo schema di Conte prevede di dimenticare l’Europa pentastellata di ieri.

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