Deputati gelosi dei senatori: e non per la buvette più raffinata. Il caso del monocameralismo di fatto
Tra le due Camere ci sono differenze di calendario. Dal 9 marzo ad oggi e a mercoledì 12 aprile il Senato si è riunito solo sei volte
A Montecitorio sono un po’ gelosi dei loro colleghi senatori. No, non perché la buvette sia più raffinata o perché i turni di presidenza siano più divertenti.
Anzi, quando è in aula e non si avventura in riletture storiche, il presidente del Senato Ignazio La Russa è davvero efficace nel presiedere garantendo il rispetto dei diritti delle minoranze e, fra i vice, Maurizio Gasparri (esattamente come Giorgio Mulè alla Camera dei deputati) ha la capacità di gestire l’aula e di sdrammatizzare, che è ciò che ci vuole per assicurare un buon andamento dei lavori.
E allora perché i deputati sono un po’ gelosi dei senatori?
Per una semplice questione di calendario: perché, dal 9 marzo ad oggi e a mercoledì 12 aprile ovviamente, quando riprenderanno le sedute, il Senato della Repubblica si è riunito solo sei volte, due delle quali per semplici adempimenti formali, come la comunicazione di decreti legge a norma della Costituzione o l’annuncio di revisione del calendario dei lavori. E’ successo il 15 marzo con una seduta durata sei minuti, dalle 13,01 alle 13,07 e presieduta da Gasparri e il 4 aprile, quando presiedeva Anna Rossomando e la seduta, grazie agli interventi di fine seduta su argomenti non iscritti all’ordine del giorno, che sono un po’ il tema libero lasciato ai parlamentari, è durata nove minuti, dalle 16,33 alle 16,42.
Insomma, al netto di questo quarto d’ora le altre sedute sono state solo quattro, il 21, 22 e 23 marzo e il 5 aprile, una delle quali dedicata alle interrogazioni, quando normalmente sono in aula solo i presentatori e chi deve rispondere, circostanza giustamente sempre ricordata dai presidenti di turno alle scolaresche in visita al Parlamento per non fare pensare ai ragazzi che i banchi siano sempre semivuoti.
Visto che non amiamo la demagogia, diciamo anche che nelle settimane in cui non c’è seduta i lavori del Senato sono in commissione e quindi sarebbe sbagliato parlare di fannulloni a prescindere. Non sempre, non tutti.
Ma sta di fatto che, nello stesso periodo, la Camera si è riunita molto di più con 21 sedute a marzo e tre ad aprile per un totale di 24 sedute, di cui diciotto nello stesso periodo di riferimento dal 9 marzo a martedì prossimo, quando riprenderanno i lavori, comunque un giorno prima del Senato.
In tutto questo, poi, c’è un altro punto e cioè il fatto che la maggior parte delle sedute, la quasi totalità, siano per esaminare decreti legge del governo o disegni di legge di ratifica di trattati internazionali, spesso con il ricorso al voto di fiducia o in entrambi o in un ramo del Parlamento, il secondo, dando così vita a un monocameralismo di fatto.
Funziona così: il presidente di turno dice “ha facoltà di parlare il ministro…” e un ministro, generalmente quello per i rapporti col Parlamento, quindi in questa legislatura Luca Ciriani, si alza e pronuncia la fatidica frase: “Signor Presidente, onorevoli senatori, a nome del Governo, autorizzato dal Consiglio dei ministri, pongo la questione di fiducia sull'approvazione, senza emendamenti né articoli aggiuntivi, dell'articolo unico del disegno di legge n. xxx, di conversione del decreto-legge yyy, nel testo approvato dalla Camera dei deputati”, dove al posto delle x potete metterci un numero e delle y un numero e una data. E, ovviamente, c’è la variabile delle ultime tre parole, con “Camera dei deputati” sostituibile con “Senato della Repubblica”.
A questo punto l’opposizione insorge e poi si vota la fiducia. E il bello è che, di solito, colui che chiede la fiducia era uno di quelli che insorgeva la legislatura precedente, quando il suo partito era all’opposizione: è successo a Ciriani, che era presidente dei senatori di Fratelli d’Italia, sempre all’opposizione nella scorsa legislatura, ed è successo prima di lui a Federico D’Incà, sempre al governo col MoVimento Cinque Stelle nella passata legislatura, ma all’opposizione durissima in quella precedente, quando governava sempre il Pd. E ovviamente, specularmente, i ruoli di contestatori e di contestati si scambiano come in un gioco delle parti.
Per la cronaca, in questa legislatura, per ora i voti di fiducia sono stati meno di altre volte,ma viene in mente quando Giorgia Meloni si indignò in un post social il 22 settembre 2021: “Cinque voti di fiducia in 48 ore: un record senza precedenti. Per velocizzare l'iter legislativo, il governo Draghi sospende - di fatto - la democrazia parlamentare. Nessuna possibilità di discutere gli emendamenti e modificare i testi”.
Ma, alla fine è andata al solito modo e anche Giorgia ha dovuto seguire gli stessi metodi di Draghi. A dicembre, ad esempio, i voti di fiducia sono stati quattro, anche per approvare in tempo la legge di Bilancio e l’altro giorno, quando si è votata l’ultima fiducia, il deputato di Alleanza Verdi e Sinistra Marco Grimaldi, ha quasi perso il conto: “Siamo alla nona, credo”.
E non è il numero più alto degli ultimi governi dopo i primi cinque mesi, ma è il più alto in rapporto al numero di leggi approvate.
Insomma, c’è chi ha parlato di “monocameralismo alternato” o “monocameralismo di fatto”. Un testo, infatti, per diventare legge dello Stato deve essere approvato nella stessa identica versione sia dalla Camera dei deputati sia dal Senato della Repubblica. Se una delle due Camere modifica un provvedimento, anche solo di una virgola, il testo deve tornare all’altro ramo del Parlamento per diventare definitivamente legge.
Ed è proprio per questo che, molto spesso, in questi mesi vota una sola Camera con la discussione “normale” e l’altra è chiamata di fatto a ratificare le decisioni dell’altra senza alcuna possibilità di modifica. In questo modo, si limitano le possibilità di “navetta” da un ramo all’altro del Parlamento che, nella prima Repubblica, a volte facevano arrivare a cinque o sei letture per semplici sfumature nelle leggi, quasi un ostruzionismo interno alla maggioranza.
Insomma, da un lato certamente si risparmia tempo, andando verso il monocameralismo o il bicameralismo differenziato che era alla base della riforma costituzionale Renzi-Boschi, bocciata dal referendum che portò alle dimissioni di Matteo, ma dall’altro si svuota di ruolo il Parlamento. E questo, come ho spiegato, indipendentemente da chi c’è al governo.
Quindi, alla fine, le Camere – e soprattutto la Camera, a causa del suo regolamento – passano intere giornate a votare ordini del giorno.
Ultimo avamposto dell’autodeterminazione dei parlamentari, con l’aula come una Fortezza Bastiani nel deserto dei Tartari.