Lo schiaffo dei 5 Stelle sulla giustizia: 931 emendamenti. L’irritazione di Draghi: ritirateli o è crisi
Si cerca comunque di far partire una mediazione. Il premier non è disposto a subire il giochino del cambio di maggioranza. “Questo è un governo di unità nazionale nato per fare le riforme e decidere”. Altrimenti tutti a casa. E i responsabili avranno nome e cognome. Conte nel guado
Non comincia bene la “segreteria” di Giuseppe Conte. Dopo il faccia a faccia “cordiale e costruttivo” di lunedì mattina con il premier Mario Draghi, un post di ieri fine mattinata in cui il leader designato si dilungava sulla “centralità e intoccabilità” del reddito di cittadinanza, i “suoi” parlamentari hanno mollato sulla scrivania della Commissione Giustizia dove è incardinata la riforma Cartabia la bellezza di 917 emendamenti. Il cui risultato finale è il ritorno alla riforma Bonafede e alla prescrizione infinita. A parte la mancanza di rispetto per la ministra Guardasigilli che in questi mesi ha lavorato ascoltando tutti, compresi i 5 Stelle, i ministri e i gruppi parlamentari; a parte la secca smentita dei ministri che dieci giorni fa hanno votato la riforma in Consiglio dei ministri impegnandosi a portarla avanti in Parlamento senza stravolgimenti; a parte la promessa subito smentita di Conte a Draghi circa “il contributo e l'atteggiamento positivo” del gruppo; a parte tutto questo che di per sè sarebbe già abbastanza per dire agli italiani “arrangiatevi” è chiaro che 931 emendamenti a un testo che deve essere approvato alla Camera entro la pausa estiva come previsto dal cronoprogramma del Pnrr sono una dichiarazione di guerra inaccettabile per palazzo Chigi.
L’irritazione di palazzo Chigi
Non a caso la ministra Cartabia impegnata a Napoli all’università Federico II liquida la massa di emendamenti pentastellati con un categorico: “Lo status quo è un’opzione non accettabile”. Non si può più sentire di una giustizia che impiega “anche vent’anni per arrivare a sentenza definitiva”. Anche il premier Draghi avrebbe espresso con i suo staff “disappunto” per i 931 emendamenti e parlato nuovamente di sue dimissioni se la riforma non approderà nei contenuti e nei tempi previsti nel cronoprogramma del Pnrr approvato dal Parlamento e dal governo. E’ una questione di “serietà, responsabilità e coerenza”. Il governo Draghi ha assunto impegni precisi. Se il Parlamento non è in grado di rispettarli, nonostante le promesse, “se ne prenderà atto e anche in fretta visto che il 3 agosto inizia il semestre bianco” e l’impossibilità di sciogliere le Camere. Ovverosia, se qualcuno pensa di spingere un governo di unità nazionale nelle mani della destra cambiando i numeri in Parlamento (e facendo così approvare la riforma della Giustizia senza i voti 5 Stelle), ha sbagliato i conti. Tutto questo, mettendo in conto qualche defezione qualora si arrivasse al voto di fiducia. Parliamo di una decina di deputati, soprattutto. Non certo un gruppo parlamentare intero.
Ecco che in serata, mentre Conte ha riunito i gruppi alla Camera, da palazzo Chigi filtra un messaggio chiaro: il ritiro dei 931 emendamenti è la precondizione per iniziare qualunque tipo di trattativa. Poi si può iniziare a trattare. Ieri ci sono stati ieri già importanti contatti con il sottosgretario Garofoli. La trattativa è difficile, ma non impossibile. Ad esempio sarebbe lasciato più tempo: la riforma andrebbe in aula la prossima settimana e non venerdì proprio per dare il tempo di “lavorare” e trovare “una sintesi” sugli emendamenti. La posta in gioco è chiara: il prosieguo della legislatura. Per palazzo Chigi il voto dei 5 Stelle è irrinunciabile. La riforma del processo penale è il punto di svolta nei rapporti in maggioranza, quando mancano 13 giorni all'inizio del semestre bianco. E molti deputati 5 Stelle ieri ricordavano come il Conte 1 e 2 siano caduti sempre per motivi legati alla giustizia.
Trattativa difficile ma non impossibile
L'esecutivo si attende quindi che Giuseppe Conte compia il lavoro di mediazione e sintesi, butti via i 931 emendamenti che sono chiaramente una sfida e una provocazione, e riesca a convergere su una decina di emendamenti. La prima occasione è stata ieri sera, nel confronto da leader designato con i gruppi parlamentari. Dove però non si è andati oltre generici posizionamenti e rivendicazioni. Conte ha cercato di fare un discorso motivazionale: M5S “può ancora dettare l’agenda” essendo la forza di maggioranza relativa. E di tenere il punto: “Il Movimento ha una storia complessa, delle volte alcuni toni gridati hanno consentito ad altri di schiacciare l'immagine del Movimento su un terreno forcaiolo ma non è così. Anzi è l’ora di levarci di dosso questa etichetta. I nostri fari saranno la presunzione di innocenza, salvo condanna passata in giudicato, e l’obiettivo di garantire a ogni imputato il principio della durata ragionevole del processo. Noi quindi vogliamo dialogare all'interno dell'impianto normativo che ci viene proposto (il testo Cartabia, ndr), però attenzione, c'è un limite che non possiamo oltrepassare. Non possiamo consentire che possano svanire nel nulla centinaia di migliaia di processi e questo è un rischio concreto”. L’invito a Draghi è stato di “ascoltare non i 5 Stelle ma i tecnici del settore”. La mattinata infatti era iniziata con due audizioni “telefonate”, costruite a tavolino, del procuratore antimafia Cafiero De Raho e del procuratore di Catanzaro Gratteri che hanno bocciato senza appello la riforma Cartabia.
Per Gratteri il 50% dei processi, finiranno in Appello sotto la scure dell'improcedibilità: “Le conseguenze saranno la diminuzione del livello di sicurezza per la nazione, visto che certamente ancor di più converrà delinquere”. Per De Raho la riforma “mina la sicurezza del Paese”. A quel punto i parlamentari M5s della commissione giustizia hanno inviato una nota collettiva: “La riforma del processo penale messa a punto dalla ministra Marta Cartabia deve essere modificata”. E sono arrivati i 931 emendamenti. Tutto costruito a tavolino.
L’attendismo di Conte
Come sempre Conte dice e non dice. Sembra che tratti ma poi chiude. Lascia aperta ogni porta. “L’obiettivo dei nostri emendamenti è quello di offrire una risposta che sia efficace ed equa nell'interesse dei cittadini” ha detto giustificando il numero degli emendamenti e contraddicendosi con quanto detto prima e anche dopo. La solita melina il cui senso sfugge come un’anguilla. E’ difficile quindi dire quale sia le vera posizione assunta da Conte ieri. Oggi è un altro giorno e si vedrà.
I parlamentari hanno chiesto all'ex premier di guidare il Movimento nella difesa delle riforme simbolo messe in campo in questi anni, dalla giustizia all’ambiente con parole di critica al ministro Cingolani (che era il loro ministro). Silenzio totale dei ministri e dei cosiddetti big, quelli che hanno approvato la riforma in Consiglio dei ministri, per l’appunto. Segno che non era l’assemblea il luogo vero della discussione sulla Giustizia. Conviene allora, per capire cosa può succedere, dare un’occhiata alle mosse di personaggi “minori” ma in questo momento più dentro il dossier giustizia rispetto a Conte. Il capogruppo in Commissione Giustizia, Antonio Saitta, ad esempio: “Siamo pronti a lavorare, con serenità, in commissione per trovare un punto d’incontro”. O il presidente della Commissione, il grillino Mario Perentoni. Un punto di caduta potrebbe essere il prolungamento dei termini della prescrizione (si ipotizza da da 2 a 3 anni + 1 nel primo grado e da 1 anno a un anno e mezzo per l’appello) lasciando quindi cadere l’improcedibilità nel secondo e grado prevista da Cartabia. Il rischio evidente è che venga fuori un gigantesco pasticcio e che i tempi dei processi non diminuiscano del 25 per cento come promesso nel Pnrr.
Il mal di pancia del Pd
In casa Pd si punta ad una mediazione (l’ha detto la capogruppo Debora Serracchiani). Ma c’è anche molta irritazione. Fa quasi tenerezza il capogruppo Bazoli che nel presentare gli emendamenti, “dimentica” di indicare i 931 del Movimento. Bazoli ha comunque illustrato i 19 emendamenti dem che mirano a favorire una intesa con tutta la maggioranza, M5s compresa. La Lega ha già iniziato ad accusare M5s di voler bloccare la riforma. Il centrodestra si frega le mani davanti all’ipotesi di una spaccatura nel Movimento o una divaricazione tra M5s e Pd, “sarebbe un successo strategico e non tattico”. Ma è proprio quello che Draghi vuole evitare. A costo di una crisi di governo senza ritorno.