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Armi e alleanze. La tensione è alle stelle. Conte chiede “rispetto”, ma per il Pd “la pazienza è finita”

La mediazione della ‘colomba’ Guerini non basta. I 5Stelle ‘usano’ il ministro contro il Pd

Ettore Maria Colombodi Ettore Maria Colombo   
Armi e alleanze. La tensione è alle stelle. Conte chiede “rispetto”, ma per il Pd “la pazienza...

A fine serata, Pd e M5s riescono a litigare persino sull’interpretazione ‘autentica’ delle parole del ministro alla Difesa, Lorenzo Guerini. Il quale, al Tg1, dice una cosa molto chiara: “"Non è stata una mediazione (la sua, sulle spese militari, ndr.) ma la conferma di un lavoro già iniziato, cioè la crescita graduale delle spese in ambito difesa iniziate nel 2019 con Conte e poi proseguite con Draghi, che facesse dell'Italia un attore credibile sul piano internazionale, nel rispetto degli accordi. Oggi c'è un'intesa molto larga sul 2%, tutti condividono questo impegno, anche chi diceva nella precedente legislatura di uscire dalla Nato”, cioè proprio il Movimento 5Stelle. Ma ‘fonti’ del Movimento provano a mettere zizzania: “Guerini sostiene che la data del 2028 per raggiungere il 2% del Pil destinato alle spese militari non è stata frutto di una mediazione. Ieri invece il Pd ha sostenuto che si è trattato di una grande mediazione portata avanti dal partito di Letta. Un cortocircuito imbarazzante. Ormai si dice tutto e il contrario di tutto pur di non riconoscere il risultato della battaglia di Giuseppe Conte e del Movimento 5 Stelle per spalmare gli investimenti per le spese militari ben oltre il 2024”. Un ragionamento capzioso e in malafede, ma tant’è, serve a fare polemica col Pd.  

Eppure, sembrava essere andato tutto bene. La mediazione era stata trovata, grazie all’opera di interposizione di un novello ‘casco blu’, il ministro alla Difesa Lorenzo Guerini. Anche perché si rischiava la crisi di governo con una guerra in corso, quella in Ucraina, una ripresa economica che stenta, le bollette che rincarano. Una ‘cosa da pazzi’ che nessuno avrebbe capito. Del resto, Draghi era salito al Colle, l’altro giorno (e, ieri, come vedremo, ci è andato pure Conte…) proprio per rendere edotto il Capo dello Stato che la situazione, sui soldi da destinare alla Difesa, si andava pericolosamente attorcigliando.  

Poi, appunto, Guerini in formato ‘colomba della pace’ aveva trovato la mediazione, quadrato il cerchio. L’aumento, concordato in sede Nato, delle spese militari, in incidenza sul Pil, al 2%, slitta dal 2024 al più lontano 2028. Il M5s chiedeva, addirittura, il 2030, ma vabbé, poteva permettersi pure il lusso di esultare, come se la mediazione fosse merito della sua mente. “Fino a ieri ci davano degli irresponsabili, oggi si fa un buon passo quanto chiedevamo” la chiosa M5s.  

Anche il voto sul dl Ucraina era filato liscio  

Anche l’ok definitivo del Senato, sul dl Ucraina, che arriva dopo quello della Camera, ma condito con la questione di fiducia posta dal governo (giusto per tutelarsi di fronte a possibili defezioni) viene votato in modo blindato, con 214 sì e 35 no. Il dibattito, in Aula, fila via liscio, con il M5s che vota insieme agli altri gruppi della maggioranza. Tra le poche voci stonate, il ‘no’ del grillino Vito Petrocelli, presidente della commissione Esteri di Palazzo Madama, ormai noto come ‘compagno Petrov’, ormai sul filo dell’espulsione, visto che ha detto no alla fiducia a un governo che, a oggi, il Movimento appoggia.

Ma non c’è solo Petrocelli, tra i renitenti alla leva, nel voto. Il presidente della Commissione Bilancio, Daniele Pesco e il senatore "pacifista" Alberto Airola non si sono presentati al voto, assenti ingiustificati. Solo per Petrocelli, però, si profila l'espulsione. "Chi ha votato contro la fiducia a questo decreto è fuori dal movimento 5 stelle" conferma anche il Presidente Conte.  

Più che altro, a stonare sono le assenze: al voto finale hanno partecipato solo 249 senatori su 321. Unico momento di tensione l'esposizione da parte dei senatori di Italexit di Gianluigi Paragone e Alternativa (tutti ex M5s) recanti la scritta “no soldi per armi”, prontamente rimossi dai commessi. Insomma, tutto sembrava finito bene. Ma la misura, per molti esponenti del Pd, è ormai colma e più di qualcosa, nel rapporto con i 5Stelle, ormai si è rotto. Anche perché dal M5s filtra una ‘pazza idea’: aspettare settembre, incassare la pensione per i parlamentari alla prima legislatura e mettere in crisi il governo per passare all’opposizione. Un gesto ‘irresponsabile’ – ribattono dal Pd – “che farebbe saltare l’alleanza” oltre a costringere a trovare un nuovo governo, di fine legislatura, perché di certo non si potrebbe andare a votare in sessione di bilancio.  

Il Pd sta con Draghi e attacca dura i 5Stelle  

Del resto, nello scontro che si è consumato tra Draghi e Conte, durante il loro drammatico faccia a faccia consumatosi martedì a palazzo Chigi, il Pd ha dimostrato di stare da una parte sola, quella del premier. In gioco, nella diatriba sulle spese militari, per i dem, c’è la collocazione internazionale dell’Italia, la sua credibilità agli occhi dei partner europei e atlantici, che il capo dei Cinquestelle rischia di compromettere per meri calcoli di bottega. Deriva che i dem non intendono avallare. Il che non significa (ancora) mettere in discussione l’alleanza. Ma manca poco: se l’Avvocato dovesse insistere, fino a rompere l’unità nazionale e il governo, le strade saranno destinate inevitabilmente a dividersi.  

Il primo a essere preoccupato per l'escalation contiana è, ovviamente, Enrico Letta, che aspetta a lungo prima di prendere una posizione netta. “L'Italia lascerebbe sbigottito il mondo se si aprisse ora una crisi di governo”, avverte il segretario, dopo un giorno di silenzio ufficiale: “Sarebbe dannosa per noi e tremendamente negativa per il processo di pace e per chi soffre per via della guerra. Noi lavoriamo con impegno per evitarla”. I malumori interni, però, non gli lasciavano via d'uscita. Non poteva più restare zitto. Il corpaccione dem rischiava di esplodere di rabbio, deciso com’è a non concedere più sconti all'alleato: accusato di “inseguire Di Battista”, di “fare propaganda”, addirittura di “trasformismo”.  

La rivolta dei deputati dem: ‘irresponsabili’  

La tensione tra gli alleati sale alle stelle e dopo i mal di pancia filtrati da entrambe le parti, ma soprattutto dal lato dem, per gli attacchi dei 5 stelle sulla questione Nato. Il bubbone scoppia.  

“C’è già Putin a creare fibrillazioni, non c’era bisogno che ci si mettesse pure Conte”, sbotta Lia Quartapelle, responsabile Esteri del Pd. “Bene discutere, rivedere insieme gli obiettivi per arrivare a una vera difesa comune europea, ma chiedere di tornare sugli impegni presi da ogni governo dal 2014 a oggi davvero non si spiega anche perché sulla politica estera non si scherza”. Altrimenti “rischiamo una figuraccia internazionale”, spiega Andrea Romano, portavoce di Base riformista, “di accreditare la caricatura di un’Italia che cambia idea a ogni stormir di fronda”. Tanto più inconcepibile perché ad alimentarla è “un ex presidente del Consiglio, da cui ci si aspetterebbe una maggiore consapevolezza del ruolo, non che si comporti come un Di Battista qualsiasi”. E per che cosa poi? “Per regolare i conti dentro il Movimento e vincere la sfida per la leadership con Di Maio: usa la guerra per questo, dimostrando tutta la sua piccineria”, rincara un collega, dietro anonimato.  

Tra il Transatlantico di Montecitorio e la bouvette del Senato la compagine democratica ribolle. “Conte è un trasformista che muta posizione a seconda della convenienza del momento. La presunta “corsa al riarmo” è solo un pretesto, non c’entra assolutamente nulla col merito della questione”, attacca Matteo Orfini. “Non c’è nessun valore o principio pacifista che lo muove”, taglia corto l’ex presidente del Pd. “In una fase come questa", non si capacita, “mettere in dubbio l’ancoraggio alla Nato e la stabilità del governo, tra l’altro per una posizione strumentale, ti dà l’idea di un soggetto politico totalmente inaffidabile. Se il nuovo corso dei 5Stelle è questo faccio fatica a pensare che la coalizione si possa tenere insieme”. Accanto a lui, l’ex ministra Marianna Madia sgrana gli occhi: “Ha detto ora che non farà passi indietro. Assurdo”.  

A palazzo Madama, il clima è ancora più teso. Il duello con i senatori grillini in commissione Esteri sul dl Ucraina ha lasciato scorie difficili da smaltire. Segna una distanza che è bene rimarcare, anziché colmare, affinché sia chiaro da che parte sta il Pd. “La necessità che l’Italia mantenga gli impegni internazionali, espressa dal presidente Draghi, è fuori discussione”, scandisce il veterano Luigi Zanda. “In questo momento non sono in gioco le alleanze politiche”, precisa Zanda, “ma il rapporto del M5S con la collocazione dell’Italia all’interno dell’alleanza atlantica e con le ragioni su cui si fonda il patto di governo, che Draghi ha specificato di voler mantenere inalterate”. Chiaro il concetto: la scelta di campo del Pd è netta.  

Ma si addensano nuvoloni neri anche sul futuro dei due (eterni) promessi sposi. “Se nel M5s prevalesse una linea alla Di Battista il dialogo con il Pd si esaurirebbe”, prevede Andrea Marcucci. “Se sulla politica estera, addirittura in presenza di una guerra, non c’è omogeneità di vedute, sarà complicato continuare a garantire una corsia preferenziale all’alleanza con loro”, aggiunge il senatore Salvatore Margiotta. E se persino al franceschiano Franco Mirabelli pare “evidente che esiste un problema, i 5S hanno bisogno di rilanciare il loro profilo, ma è sbagliato fare un’operazione demagogica che terremota il governo, spero che prevalga il buon senso”, significa che il famoso campo largo perde pezzi. E ogni giorno diventa più difficile ricostruirlo.  

Conte attacca il Pd: “Pretendiamo rispetto”. Poi sale al Colle a spiegare la sua posizione  

Ma non è finita qui. A spargere sale sulle ferite, ci si mette direttamente Conte che sparge sale sulle ferite, attacca direttamente il Pd, poi sale al Colle.

L'incontro è stato fissato dopo una telefonata tra il leader del M5S e il capo dello Stato legata al dossier difesa e spese militari, poi la decisione di vedersi. Conte vuole spiegare la posizione del M5s sul punto, oltre a esprimere “preoccupazione perché c’è un intero Paese in sofferenza” (Paese che, è il sottotesto, si preoccupa del caro bollette, non delle spese militari…). Poi Conte scandisce: “Continueremo a dimostrare grande responsabilità verso il paese nel continuare a sostenere il governo, ma non rinunciamo alle nostre posizioni", irritato non poco con chi ipotizza che l’M5s voglia passare all'opposizione.

La notizia fa subito salire la tensione dentro la maggioranza di governo e, soprattutto, all'interno del fronte giallorosso. Conte, infatti, via diretta Instagram, chiede al Pd “rispetto” sostenendo che i 5 Stelle non sono la “succursale di un'altra forza politica”.

Terminato il colloquio con Mattarella, Conte convoca il Consiglio nazionale del M5S nella sede romana. Manco fossimo, appunto, alla vigilia di una crisi. Certo, l’ex premier ribadisce agli utenti Instagram (sic) che “non intendiamo uscire dal governo”, che vuole “dialogare con buonsenso”, che l’alleanza con il Pd “va avanti da tempo”, ma – e qui c’è la staffilata – dice “io pretendo rispetto e dignità. Non posso accettare accuse di irresponsabilità. Non funziona così: non siamo la succursale di un'altra forza politica, non siamo succedanei di qualcuno". E ancora: "Non accetto che ogni volta che poniamo una questione politica ci si accusa di volere una crisi governo. Vogliamo il rispetto da tutte le forze politiche”.

Dal Pd avvertono: “la nostra pazienza è finita” e si riapre il dossier della legge elettorale

E così, la tensione, appena sopita, riesplode nella sua gravità, anche se investe ‘solo’ i rapporti Pd-M5s. Sempre Orfini chiosa: “Abbiamo costruito noi, il ministro Guerini per primo, la soluzione. Conte non ci parli di rispetto. Abbiamo dimostrato fin troppa pazienza. La mia, per dire, si è esaurita”. “L’M5s ha messo su una campagna mediatica sulla pelle del Paese”, osserva un esponente di primo piano del Pd. "Siamo sorpresi e preoccupati alcuni passaggi compiuti dal M5s”, dice in chiaro la capogruppo dem al Senato, Simona Malpezzi. Il problema, però, non è solo la querelle sulle spese militari, ma quella, sul futuro dell’alleanza politica tra Pd e M5s.

Sempre di ieri è la notizia che si terrà l’election day, il 12 giugno, tra primo turno delle comunali (votano quasi mille comuni) e i referendum sulla giustizia, quelli passati al vaglio della Consulta, promossi da Lega e Radicali. Le alleanze nelle città, tra Pd e M5s, stentano a decollare quasi ovunque e si fa fatica a immaginare, oggi, un ‘campo largo’ che possa unire Pd e M5s alle prossime politiche. “Cosa aspettiamo ad aprire la partita sulla legge elettorale? Non possiamo legare il nostro destino a quello del Movimento 5 stelle", si sfoga un dirigente del Nazareno. Il cortocircuito sull'aumento delle spese militari tra Pd e Movimento 5 stelle, vede questa reazione da parte del Pd: “Conte ha commesso un errore nel metodo oltre che nel merito”, la tesi, “ha creato nuove fibrillazioni in vista di tutte le prossime elezioni, comunali e politiche. Così non andiamo insieme da nessuna parte”, la tesi conseguente.

Intanto, anche nel Movimento 5 stelle cresce la voglia di proporzionale, ma il 'refrain' nell'ex fronte rosso-giallo è che la mossa di cambiare il sistema di voto deve avere la sponda di FI e Lega.

“Ricordiamoci che le ultime leggi elettorali sono state cambiate con la fiducia. Chi si prende la responsabilità di fare un passo avanti?”, si chiede una fonte centrista, scettica sul cambio di legge elettorale in corsa. Inoltre, Berlusconi e Salvini non sembrano andare nella direzione di un cambio del sistema di voto, piuttosto stanno accelerando sulla lista unica, fermo restando che entrambi i partiti presenteranno liste con nuovi marchi. Certo, il proporzionale potrebbe togliere le castagne dal fuoco a tutti: ognuno correrebbe sotto le proprie bandiere, senza dover fare accordi di sorta. Ma se la legge elettorale, invece, resta quella attuale, il Rosatellum, per il fronte (ex) giallorosso saranno dolori. Allo stato, immaginare accordi politici tra Pd e M5s per sostenere candidati comuni nei collegi uninominali è fantascienza. Ma senza accordi, quantomeno di ‘desistenza’, Pd e M5s perderebbe la totalità dei collegi uninominali maggioritari, che sono il 34% del totale, e sono quelli che assicurano la vittoria. Il centrodestra si troverebbe con elezioni già vinte prima ancora di partecipare

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