[Il retroscena] La pesca di Salvini tra i Cinque Stelle del Nord e la rinascita del centrodestra

Dopo quattro mesi di grande freddo, questa mattina si ricompone il centrodestra per un vertice a Palazzo Grazioli. Salvini e Meloni trattano con Berlusconi una nuova alleanza in vista delle Regionali. Preoccupazione tra i Cinquestelle, che hanno poche chance di vincere qualcosa e temono che un sorpasso leghista alle Europee potrebbe convincere il vicepremier a pretendere Palazzo Chigi portando in maggioranza Fi e Fdi. Un gruppo di sottosegretari e parlamentari pentastellati alla seconda legislatura, specie del Nord, sarebbero pronti a sostenerlo

[Il retroscena] La pesca di Salvini tra i Cinque Stelle del Nord e la rinascita del centrodestra

Domenica è andato con Giancarlo Giorgetti ad Arcore. La scusa era una partita di calcio eppure, come è evidente, la visita di Matteo Salvini a Silvio Berlusconi serviva a sbloccare l'impasse che si era creata sulla presidenza della Rai. Forza Italia ieri si è astenuta al voto in commissione di Vigilanza Rai e presumibilmente venerdi’, il candidato leghista Marcello Foa diventerà a tutti gli effetti il numero uno di Viale Mazzini. Questa mattina il vicepremier e leader della Lega, stavolta in compagnia della presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, farà il suo ingresso in un altro luogo simbolo del berlusconismo, a Palazzo Grazioli, per il primo vertice di maggioranza dopo la rottura di maggio, da quando cioè la Lega è al governo e gli altri due partiti del fu centrodestra sono stati lasciati all’opposizione.

All’ordine del giorno dell’incontro, al quale parteciperà anche il vicepresidente degli azzurri, Antonio Tajani, c’è il rinnovato accordo a tre in vista delle prossime elezioni regionali. “È la soluzione più probabile, anche perché il M5s non vuole fare alleanze con la Lega e la Lega con M5s”, descriveva la situazione Giorgetti, ieri sera a Otto e mezzo. I forzisti chiedono due candidati governatori e li avranno e Fratelli d’Italia almeno uno, ma più delle decisioni sulle liste, ad alzare la  pressione dei Cinquestelle è la rinascita del “secondo forno” a disposizione della Lega.  

Già da alcuni mesi  si va rafforzando la fronda degli esponenti più vicini a Roberto Fico, scontenti per gli “sbandamenti” programmatici verso gli alleati di governo, dalla gestione dell’emergenza migratoria in poi. In questi giorni la tensione ha raggiunto un nuovo picco: nella legge di Bilancio si è scoperto che non ci sono i soldi sufficienti per il reddito di cittadinanza che, quindi, potrebbe partire soltanto a maggio. Questi ritardi, accompagnati da un sempre più evidente protagonismo della Lega nel lavoro del governo, vengono messi ovviamente sul conto dell’ala governista del Movimento. Senza più la copertura di Beppe Grillo, con lo spauracchio di una ridiscesa in campo di Alessandro Di Battista per le Europee, Luigi Di Maio si è dovuto intestare anche i pessimi sondaggi che vedono i Cinquestelle superati dalla Lega, che sarebbe così diventata il primo partito italiano.

E’ vero che il leader del M5s prova a rispondere lanciando idee forti come il taglio dei parlamentari o le chiusure domenicali, ed ora anche “la pensione di cittadinanza”, ma, comunque, è un dato di fatto che arranca. “I sondaggi? Li vedo e mi fanno piacere ma non ci credo”, disse pochi giorni fa il leader del fu Carroccio. I pentastellati, invece, quei dati disastrosi li prendono sul serio e, in privato, li commentano  con molta preoccupazione. I timori non riguardano il presente immediato, ma le possibili conseguenze di un exploit leghista a loro spese alle Europee della prossima primavera. Matteo Renzi usò il suo 40% per cacciare Enrico Letta da Palazzo Chigi e prenderne il posto: che farà il segretario leghista, se si dovesse rivelare più forte di premier e vicepremier, ritrovandosi davvero alla testa del primo partito italiano?  

Il ritorno del centrodestra in vista delle Regionali è quindi vissuto come un tradimento. Il “governo del cambiamento”, delle forze antisistema, appesantito dall’alleanza con i “vecchi” partiti del centrodestra, sarebbe obiettivamente un’altra cosa, specie agli occhi degli elettori del M5s. In più, un’affermazione di Salvini, supportato da un accordo politico con i tradizionali alleati di centrodestra, lo proietterebbe inevitabilmente verso una candidatura a guidare un nuovo governo.  Salvo colpi di scena, infatti, la vecchia trimurti, con a capo un nuovo leader, farà l’en plein per le Regioni, lasciando i pentastellati ancora senza nemmeno un governatore: un paradosso per un partito che esprime premier, vicepremier e i sindaci di molte delle principali città.

Anche se Salvini, nel corso dell’ultimo faccia a faccia col Cavaliere, ha smentito l’intenzione di voler far cadere a breve il governo, ripetendo in più di un’occasione di voler tenere fede al contratto sottoscritto coi Cinquestelle, a Di Maio, deve essere tornato in mente il famoso tweet inviato da Renzi a Enrico Letta nel tentativo di rassicurarlo sulla sua lealtà mentre, in realtà, stava tramando per sostituirlo. Così le affermazioni di Salvini gli devono sembrare una sorta di #staitranquillogigino di cui non fidarsi più di tanto.

In casa Cinquestelle non sono soltanto preoccupati perché Salvini ora può mettere in campo un piano B, ma anche perché quel piano comporta una spaccatura dentro al loro partito. A nessuno sfuggono infatti le fibrillazioni di un pezzo del partito di Di Maio che, analogamente a quanto accade in Forza Italia, sente il richiamo del “capitano”. A rendere un possibile approdo verso la Lega ancora più interessante c’è il vincolo del doppio mandato che - regola ancora vigente tra i grillini - lascerà almeno cinquanta parlamentari, e tra questi moltissimi ministri e sottosegretari in carica, in caso di elezioni, senza un lavoro. L’altroieri, per esempio, gli osservatori più attenti del mondo grillino hanno notato come un esponente importante del partito come Stefano Buffagni, sottosegretario agli Affari Regionali, abbia “scaricato” la sindaca di Torino e sposato la linea leghista sulle Olimpiadi: “2026, andiamo avanti con Milano e Cortina! Come dice il motto olimpico: “Citius! Altius! Fortius!”, ha scandito con un tantino di enfasi. “Ben vengano i giochi olimpici, realizzati senza sprechi e con i soldi degli sponsor”, aveva scritto su Facebook.

Quella, però, sarebbe la linea dei padani, non quella del suo movimento. Oltre agli esponenti al governo, c’è un richiamo - naturale? - verso la Lega tra gli eletti pentastellati del Nord Est. E’ in quelle aree del Paese che nei mesi scorsi c’erano stati i maggiori dubbi sugli effetti del Decreto Dignità firmato dal vicepremier e ministro del Lavoro, ed è lì che almeno una dozzina di parlamentari sarebbero pronti, in caso di “golpe” salviniano, a mollare la casa madre per il partito fondato da Umberto Bossi alla fine degli anni ottanta dell’altro secolo.  Anche senza passare per le elezioni anticipate, sarebbe sufficiente questo pugno di eletti pentastellati transfughi per sostenere un governo di centrodestra con Salvini premier e dentro ministri di Forza Italia e Fratelli d’Italia. Nel Carroccio non si sbilanciano e continuano a rassicurare: “Abbiamo la fila di esponenti del centrodestra come dei cinquestelle che vogliono entrare nella Lega, ma non accettiamo nessuno”.  

Che qualcosa si stia muovendo, però, non lo dimostra soltanto la soluzione del caso Rai, sbloccato con una furbata: la maggiorana gialloverde ha votato un emendamento alla risoluzione scritta dai due partiti che impegna il futuro presidente, ex giornalista del  Giornale, ad esporre prima del voto ai commissari le sue “linee guida” in modo da poterli convincere: un escamotage per consentire di giustificare il cambio di linea degli azzurri. “Ci sono elementi di ricatto politico nel rapporto tra Lega e Fi? Nella politica esistono sempre elementi di ricatto: li ha Salvini nei confronti di Berlusconi e Berlusconi nei confronti di Salvini. Se Berlusconi non vota Foa alla Rai, Foa non passa. Ma in cambio non gli abbiamo dato niente”, ha tenuto a precisare ancora Giorgetti. Pd e Leu approfittano di questa trattativa per tuonare contro “gli accordi di Arcore”. Che le cose stiano cambiando velocemente nel centrodestra redivivo  dopo mesi lo dimostra anche un altro voto, questa volta nell’aula di Montecitorio. Pochi giorni fa, quando si è votata la fiducia all’esecutivo sul Milleproroghe, il gruppo del partito della Meloni non ha partecipato al voto. “Era un atto illegittimo”, la motivazione del capogruppo della formazione più a destra del Parlamento. Fatto sta che, rispetto al voto contrario, quella è una posizione più attenuata. I numeri di quella votazione non hanno fatto altro che rafforzare le preoccupazioni dei pentastellati. Rispetto al voto di fiducia del 6 giugno, in occasione dell’insediamento, l’esecutivo ha perso 21 voti. Allora Giuseppe Conte incassò 350 voti a favore, 236 contrari e 35 astenuti; oggi il numero dei “sì” è già calato a 329, sia pure con la “complicità” delle defezioni di dodici tra ministri e sottosegretari impegnati in missione. Cinque, però,  le “assenze ingiustificate” in casa M5s, due nella Lega.