Salvini dalla difesa all’attacco e ritorno in poche ore. Minaccia la crisi e poi fa marcia indietro
Ma le fibrillazioni continueranno. Una parte dell’elettorato Lega chiede in effetti di uscire dalla maggiorana e seguire Meloni. Che vorrebbe andare subito al voto. Ma neppure Fratelli d’Italia vorrebbe correre il rischio di governare il Paese in questo passaggio così difficile

Matteo Salvini è costretto a giocare in difesa - dai risultati elettorali alle iniziative diplomatiche come minimo estemporanee - e dunque attacca. Anche qui però in maniera sconclusionata. E l’attacco rischia di diventare un boomerang. Per lui e per la sua leadership più che per il partito. Così ieri annuncia lo strappo dal governo che sarà annunciato in modo scenografico dal pratone di Pontida durante l’annuale cerimonia fondativa a settembre. Ma poi cambia idea e lo rinvia di qualche mese. Al Senato arma le truppe per spaventare il governo sulla legge Cartabia che deve essere approvata oggi in via definitiva, ma anche qui rimbalza davanti ai numeri dell’aula che mandano avanti la riforma della Giustizia così com’è, comprese quelle modifiche che esaudiscono almeno tre quesiti su cinque.
E’ la stessa tattica - miope e stucchevole con tutto quello che sta accadendo nel mondo e nei bilanci delle famiglie - individuata dai 5 Stelle e dal leader Conte. Tra i due però è più “facile” che sia Conte ad uscire dal governo che Salvini. Tutto dipende dalla “fortuna” del governo nel riuscire a trovare soluzioni ai tani fronti aperti, interni ed esterni. Ma se nel corpaccione elettorale della Lega - a cui Salvini è certamente molto rispondente - esiste una parte più sensibile al richiamo- provocazione di Giorgia Meloni (“il centrodestra lasci il governo e andiamo a votare”) per aprirsi la strada di palazzo Chigi, è altrettanto vero che la maggioranza dei parlamentari e anche degli elettori del Carroccio individua in Draghi l’unica personalità in grado di guidare il Paese in questo difficile momento. Considerazione opposta e contraria a quella di Giuseppe Conte convinto invece di essere non solo in grado di guidare il Paese ma che comunque la stagione di governo del Movimento sia conclusa.
All’attacco sulla riforma del Csm
La tormentata riforma del Csm arrivata ieri sera in aula al Senato diventa quindi la migliore palestra per mostrare i muscoli. E subito sgonfiarli. Anche per dare un segnale dopo l’onta del referendum. Filibustering, valanghe di emendamenti, richiesta di voto segreto, la Lega ha messo in campo sulla riforma dell'ordinamento giudiziario e del Csm tutte le armi parlamentari tipiche dell'opposizione al governo. Tattiche di terrorismo a bassa intensità - mentre Draghi è in partenza per Kiev in una delle più importanti missioni diplomatiche degli ultimi settant’anni - ma il tentativo non è passato e ha spianato la strada al provvedimento.
E stata comunque una mossa non gradita al governo in queste ore al lavoro su diversi dossier parlamentari che avranno la data più sensibile nel 21 giugno quando il premier Mario Draghi farà le sue comunicazioni al Parlamento in vista del Consiglio europeo.
Quando la Lega chiede il voto segreto - Salvini è presente in aula - il Pd sottolinea che si tratta di una tattica parlamentare che usa l'opposizione e non una forza politica che sostiene l’esecutivo. “Portare l'ostruzionismo sulla giustizia vuol dire minare le basi della convivenza stessa del governo, è un atteggiamento insostenibile” è stata l’ accusa prima del segretario Enrico Letta e poi della capogruppo Simone Malpezzi (“scelta irresponsabile da parte di un partito di maggioranza”). Per questo i Dem consigliano al governo di porre la fiducia sul provvedimento. In serata la replica di Matteo Salvini che, pur confermando che la Lega non farà saltare il banco, tiene il punto: “Noi peseremo il governo e l'incisività della Lega del governo su questo: lavoro, tasse e pensioni”.
Il partito di Salvini è in fibrillazione ma la sua leadership non sembra per ora in discussione. L’improvvisa, ieri, richiesta dei ministri leghisti di riaprire - proprio in questa fase caldissima dell'agenda politica - il nodo dell'autonomia delle regioni del nord viene letto come un tentativo di ricompattamento tra l'ala governista e quella più barricadera che spinge per un'uscita dal governo.
Agenda fitta e piena di insidie
L'agenda Draghi per il Pnrr è fittissima e non c’è quasi un solo punto dove regni l'armonia. Gli scogli sulla rotta tracciata da Mario Draghi sono tanti: si va dalla concorrenza al dl aiuti, passando per la risoluzione (martedì della settimana prossima) sull'Ucraina che tanto preoccupa M5s. Da non dimenticare i temi economici su cui i partiti esercitano pressioni forti e contrastanti, come pensioni e salario minimo. Spinosa si annuncia anche la discussione sul superbonus e i crediti, con vari partiti, M5s in testa, che vogliono rilanciare una misura sulla quale proprio Draghi non ha nascosto la propria avversione. Dopo la battaglia sui balneari, si profila all'orizzonte quella sulle licenze dei taxi. Il Concorrenza, che contiene entrambi, è uno dei provvedimenti chiave per gli obiettivi del Pnrr. Crea una certa apprensione il fatto che la Lega abbia chiesto lo stralcio dell’articolo 8, ossia la delega in materia di servizi pubblici locali.
La “crisi” di Pontida
Questo è quanto accaduto al Senato. Il dubbio se restare o mano al governo viene messo da parte da Salvini in 48 ore dallo scrutinio delle schede. Un cambio in corsa di linea politica d'altronde rischia di mettere in crisi non solo i rapporti interni al Carroccio, dove da mesi convivono a fatica le due anime del leave e dello stay , ma anche quelli del centrodestra di governo. Da Arcore Silvio Berlusconi ribadisce con chiarezza il sostegno di Forza Italia a Mario Draghi fino al termine della legislatura (chiamando però a raccolta i centristi). Giorgia Meloni suggerisce invece di rompere per poter così capitalizzare il suo largo consenso ed evitare il rischio logoramento. Salvini è nel mezzo. “Non mi sono pentito di essere andato al governo. Non contavo di guadagnare voti e non ne ho guadagnati” ma la situazione oggi è diversa e quindi “o questo è un governo che taglia tasse mettendo qualcosa nelle tasche degli italiani oppure alla lunga è complicato starci”. Salvini vuole risposte entro l'estate, più precisamente entro il 18 settembre quando la Lega tornerà a radunarsi sul pratone di Pontida dopo due anni di stop causa Covid. Poi però una parziale retromarcia assicurando che non c'è nessun ultimatum a Draghi, che “le risposte che chiediamo al governo non hanno la scadenza di ferragosto o di metà settembre”.
Il Cav parla ai centristi
In questo quadro a molti, soprattutto nella Lega, non è sfuggito il messaggio inviato da Berlusconi ai centristi e accolto con favore dell'ala governista di Forza Italia che non ha mai nascosto l'avversione nei confronti dei sovranisti e dell'ipotesi di una fusione con la Lega in ottica elettorale. E non si placano neanche i travagli interni a via Bellerio, con i governatori che fanno asse stringendo a difesa del governo Draghi. L’aut aut di Salvini non sarebbe piaciuto a Massimiliano Fedriga e Luca Zaia. Salvini, è il suggerimento che arriva da alcuni territori, farebbe meglio a concentrasi sui ballottaggi invece che provare a distrarre l’elettorato attaccando il governo. Con il populismo, per dirla con una parola. Così ieri in serata decide di tendere una mano a Tosi (al ballottaggio con Tomasi) a Verona (“ho avuto in passato screzi con lui ma l'accordo lo farei anche domattina”) e chiama a raccolta Fdi a Catanzaro (“spero dia una mano”). Perdere Verona non sarebbe solo un numero ma una ferita al cuore della Lega.