[L’analisi] Ecco chi paga il conto per reddito di cittadinanza e flat tax. La tentazione di Salvini e Di Maio e il rischio di nuove elezioni
Fallita la sommatoria delle rivendicazioni, Lega e 5Stelle si trovano a dover fare scelte complicate, difficili e dolorose. E, avendo in tasca la pistola di nuove elezioni e il grilletto facile, la tentazione di sparare è grande. Anche perché l’unico stretto sentiero che si vede per un accordo fra populismo del Nord e populismo del Sud passa paradossalmente per una ulteriore punizione del soggetto sociale più tartassato degli ultimi anni: le classi medie
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Se usiamo il grandangolo, la battaglia sulla manovra l’ha vinta Tria e, con lui, l’ala istituzionale del governo, in cui possiamo far rientrare il presidente del Consiglio, Conte, e, con la svolta delle ultime settimane, anche l’ex dinamitardo Paolo Savona. Ma, se usiamo lo zoom, tutto torna in discussione, tutti i problemi appaiono ancora aperti, di soluzioni non c’è traccia e lo scontro sembra solo rimandato. A guardare da vicino, infatti, si vede che, fallita la sommatoria delle rivendicazioni, Lega e 5Stelle si trovano a dover fare scelte complicate, difficili e dolorose. E, avendo in tasca la pistola di nuove elezioni e il grilletto facile, la tentazione di sparare è grande. Anche perché l’unico stretto sentiero che si vede per un accordo fra populismo del Nord e populismo del Sud passa paradossalmente per una ulteriore punizione del soggetto sociale più tartassato degli ultimi anni: le classi medie.
L'orizzonte della manovra
Nella prospettiva larga del grandangolo, almeno se stiamo alle dichiarazioni dello stesso Tria, suffragate da quelle del premier Conte, l’impostazione della politica economica del governo, fin dalla manovra d’autunno, è quella, infatti, del ministro del Tesoro. L’economista approdato al ministero di via Venti Settembre non nega l’opportunità delle riforme volute dalla coalizione giallo-verde, ma le proietta nel futuro. Flat tax, reddito di cittadinanza, riforma della riforma Fornero sono obiettivi che verrebbero raggiunti nell’arco della legislatura (“Cinque anni” ha detto Conte), man mano che si saranno trovate le risorse. Grazie ad una maggiore crescita alimentata dagli investimenti pubblici, ma grazie anche ad una certosina opera di razionalizzazione. I soldi della flat tax possono venire da una riorganizzazione dei 55 miliardi di euro di detrazioni e deduzioni fiscali oggi esistenti. Quelli del reddito di cittadinanza da una metodica revisione delle tante voci del welfare, oggi sparse a pioggia. Tria non inventa nulla. Sono cose di cui si parla da anni, senza fare molta strada. Ma il governo del Cambiamento potrebbe avvertirne di più l’urgenza.
I numeri obbligati
Questo, comunque, è solo il quadro generale. Il resto è caos. Perché il lavoro di lunga lena che ipotizza Tria dà poco o niente in mano, qui ed ora, a Di Maio e Salvini. Nessuno dei due si può accontentare di una tabella di marcia, per quanto speranzosa. E i soldi per le riforme non ci sono. I numeri, infatti, sono spietati. Servono, a bocce ferme, 22 miliardi di euro. Questo il conto: più di 12 miliardi per evitare l’aumento in calendario dell’Iva al 24 per cento. Poi 3,5 miliardi per spese già decise e indifferibili (tipo le missioni militari all’estero). Circa 2,5 miliardi di minori entrate rispetto alle previsioni perché la crescita rallenta. E, infine, 4 miliardi di interessi in più sul debito pubblico, per i quali grillini e leghisti possono solo rimproverarsi di nonessere capaci di tenere la bocca chiusa di fronte ai mercati finanziari. I 22 miliardi sono, tuttavia, un massimo. Tria è convinto di poter ottenere da Bruxelles un semaforo verde all’idea di interrompere il percorso verso il pareggio di bilancio, in programma per il 2020. Non sarà facile, ma è possibile. Dice il ministro del Tesoro che stringere i cordoni della borsa mentre l’economia rallenta è suicida. E’ ragionevole. Se il disavanzo, dunque, invece di diminuire ancora, restasse equivalente a quello di oggi (1 per cento del Pil) si libererebbero 11 miliardi. Conclusione: invece di 22 miliardi, bisogna trovarne solo 11.
La battaglia dell'Iva
Il problema è che anche 11 non ci sono. E per avviare almeno il cantiere delle riforme ne occorrerebbero altri, che ci sono ancora meno. Inserire nella flattax al 15 per cento, tanto per cominciare, professionisti e piccole imprese costa un po’ meno di 3 miliardi. Le pensioni a quota 100 (età+anni di contribuzione) 4-5 miliardi. Ecco perché si è guardato alla possibilità di lasciar aumentare l’Iva. Se ne è parlato, in realtà, soprattutto sui giornali. E’ vero, però, che molti economisti a livello internazionale – e Tria a livello accademico – sono favorevoli a spostare la pressione fiscale dalle imposte dirette a quelle indirette, come l’Iva. Ma questi economisti guardano a paesi in cui il fisco funziona e alleggerire le imposte dirette può favorire la produttività. Ma l’Italia è il paese degli evasori e la pressione è soprattutto il risultato diretto delle quantità di imposte sottratte a danno di chi le imposte le paga. Inoltre, l’Iva, colpendo i consumi, è una imposta regressiva. Tassa, cioè, di più i più poveri – che destinano ai consumi una quota maggiore del proprio reddito – rispetto ai ricchi. Se la combinate con la flat tax – che, come dimostrano tutte le simulazioni, favorisce pesantemente i più ricchi, che si vedrebbero dimezzate le aliquote fiscali – ottenete una sorta di rivoluzione sociale alla rovescia. Insostenibile anche per la Lega.
Il bonus Renzi
Ecco perché è assai difficile che l’aumento dell’Iva non venga stoppato. Tria, invece, propone di azzerare il bonus di 80 euro che tutti chiamiamo il bonus Renzi. Giustificato, quando fu introdotto nel 2015, dall’idea di fornire un po’ di combustibile agli esangui consumi, il bonus Renzi si è rivelato di difficile gestione. Nella giungla di deduzioni, detrazioni, incentivi fiscali che gli esperti chiamano “tax expenditures” e che vari governi hanno inutilmente tentato negli anni di disboscare, il bonus Renzi, invece, si azzera facile. Nelle casse dello Stato, si materializzerebbero più di 9 miliardi di euro, da destinare, ad esempio, ai primi esercizi di flat tax e di reddito di cittadinanza, le bandiere dei due partiti di governo. Ma si tratta di un messaggio simbolico e di una operazione concreta che hanno profonde ripercussioni sociali e politiche.
I due populismi e la loro vittima
Con una semplificazione un po’ aggressiva, i sociologi hanno individuato i soggetti centrali del populismo del Nord (quello della Lega) e di quello del Sud (targato 5Stelle). Sono tre. Al Nord, la fascia di piccoli imprenditori, professionisti, commercianti, artigiani con un buon reddito. Al Sud, disoccupati, precari, semipoveri a basso reddito. Per tutti e due, la fascia di pensionati e pensionabili coinvolti nelle ultime razionalizzazioni del sistema pensionistico, a cominciare dall’età pensionabile. Per i primi, nelle promesse elettorali, c’è la flat tax, con le aliquote accorciate al 15 e al 20 per cento. Per i secondi, il reddito di cittadinanza a 780 euro al mese. Per i terzi, la revisione della riforma Fornero o, almeno, quota 100. Restano fuori da questi interventi le vittime principali della lunga crisi apertasi nel 2008. Non solo scavalcati, però: quei milioni di rappresentanti delle classi medie, soprattutto lavoratori dipendenti, adesso diventerebbero le vittime sacrificali dei due populismi. Vediamo. La busta paga media, in Italia, non arriva a 29 mila euro l’anno e il bonus Renzi andava agli stipendi inferiori a 26 mila euro, per un totale di oltre 11 milioni di persone. In altre parole, prendere i 9,5 miliardi di euro del bonus Renzi e darli alla flat tax da una parte, al reddito di cittadinanza dall’altra, significherebbe compiere una gigantesca redistribuzione sociale del reddito, con conseguenze politiche difficilmente prevedibili. Di Maio e Salvini lo sanno. Vedremo se decideranno di pagarne il prezzo, pur di mantenere le loro promesse elettorali.