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[Il retroscena] Salvini al bivio, al governo con il Pd di Renzi nella grande coalizione o in Parlamento sarà il caos

Il 5 marzo si sveglierà con un numero di deputati compreso tra i 100 e i 110, di cui 56 eletti col sistema proporzionale e tutti gli altri direttamente, nei collegi uninominali. Costituirà un terzo della maggioranza necessaria per un governo nella Camera che sarà più in bilico, cioè quella dei deputati. L’asticella prevista dalla Costituzione è di 316 deputati, uno più della metà. Se come pare il centrodestra complessivamente non andrà oltre quota 301, sarà proprio la Lega ad avere essere decisiva nello scenario post-voto. L’eurodeputato dovrà fare una scelta: accettare o non accettare i voti in arrivo da fuori, collaborare col Pd

[Il retroscena] Salvini al bivio, al governo con il Pd di Renzi nella grande coalizione o in...

Matteo Salvini è a un bivio. Il “populista”  in felpa ha messo la cravatta ed ha spinto la sua Lega fin dove forse non avrebbe mai nemmeno immaginato, l’ha trasformata in un partito nazionale che eleggerà parlamentari anche al Sud, ha quasi agganciato le percentuali di Forza Italia e avrà un gruppo parlamentare triplo rispetto a quello attuale. La creatura di Umberto Bossi poi passata per le mani di Roberto Maroni il 5 marzo si sveglierà con un numero di deputati compreso tra i 100 e i 110, di cui 56 eletti col sistema proporzionale e tutti gli altri direttamente, nei collegi uninominali. Male che vada, dunque, il Carroccio costituirà un terzo della maggioranza necessaria per costituire un governo nella Camera che sarà più in bilico, cioè quella dei deputati.

L’asticella prevista dalla Costituzione è di 316 deputati, uno più della metà. Se come pare il centrodestra complessivamente non andrà oltre quota 301, sarà proprio la Lega ad avere essere decisiva nello scenario post-voto. Tutte le alternative, compresa quella di una grossa coalizione Pd-Fi-Leu, non avrebbero i numeri.  Il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, preso atto che nessuna forza politica avrà stravinto dovrà dare un incarico esplorativo a mandare il premier a cercarsi i voti in Parlamento. Pure se l’incaricato dovesse essere lui in persona come dice, l’eurodeputato dovrà fare una scelta: accettare o non accettare i voti in arrivo da fuori, collaborare col Pd e le altre forze politiche o chiamarsi fuori, rimanendo all’opposizione pure da vincitore?

La Lega farà parte di una ipotetica coalizione disponibile a scrivere un programma minimo e a lavorare per l’ “unità nazionale” o resterà a guardare, costringendo di fatto il Paese a tornare alle urne? Ad oggi il leader della Lega sembrerebbe avere scelto la seconda opzione. “I fuoriusciti del M5S? Non li voglio. Solo in Italia ci sono parlamentari che ancora prima di essere eletti sono fuoriusciti, questa cosa mi mette tristezza”, ha tagliato corto, intervistato al programma di Rai Radio1 “Un Giorno da Pecora”. Berlusconi li ha provati ad ingolosire dicendo che col centrodestra non dovrebbero restituire parte dello stipendio: “Alta politica...ci sarebbe anche un programma di governo che uno dovrebbe condividere”.

Se la Lega non è disposta a mettere in piedi una maggioranza coi battitori liberi dei Cinquestelle, figurarsi col Pd, se possono convivere dentro lo stesso governo il leader della Lega e il segretario dem, che da anni se ne dicono di tutti i colori. Eppure il leader del Carroccio non vuole sentir parlare di Patti anti-inciucio.  “Noi siamo al 20%, la coalizione con Forza Italia e Fratelli d'Italia arriva al 40%. Il patto anti inciucio è nella storia della Lega. Io non sospetto questa intenzione. Mi fido di Silvio Berlusconi e del voto degli italiani, che penso sarà chiaro e che impedirà qualsiasi altra stranezza”, ha ribadito ieri.

I numeri, però, sembrano pronti a smentirlo. Il centrodestra è sì in vantaggio, ma salvo tonfi del M5s o rimonte improbabili di Fi fino al trenta per cento, non potrà essere autosufficiente. Oltretutto i leghisti dovrebbero arrivare dietro i forzisti e di conseguenza, per la regola che l’indicazione del premier toccherà a chi arriva primo, alle consultazioni al Quirinale i capigruppo del centrodestra dovrebbero fare tutti il nome di Antonio Tajani.

“Se voglio fare il premier? Tra un mesetto mi intervisterete da premier, gli italiani vogliono questo cambiamento, quando vado in giro per l'Italia lo percepisco. Ed è una grande responsabilità”, garantisce. L’ex capo dei Giovani Padani (componente della Lega che ha premiato con ben dieci seggi sicuri per Montecitorio) pensa già al giorno del “giuramento al Quirinale”: “Sfoggerò il mio ampio armadio, sceglierò una bella cravatta ed una bella camicia. Rappresenterò il made in Italy nel mondo, l’italian style”.

Impossibile, gli fa eco il leader di Fi: “La Meloni ha una forza politica che ha il 5% dei voti totali, Salvini ha il 15%, noi siamo al 18% quindi io sono sicuro che il premier lo indicheremo noi”, ha detto ad Otto e Mezzo.

Che il segretario della Lega sia però consapevole di dover fare una scelta l’indomani del voto e che questa scelta avrà conseguenze importanti lo dimostra il lavoro fatto per la composizione delle liste. Innanzitutto Salvini ha strappato molti più posti di quanti gliene sarebbero spettati se fosse andato da solo, poi ha furbescamente provato a compensare le cessioni di posti al Nord con un buon numero di seggi al Sud.  Ad accorgersene per primo sarebbe stato il consigliere principe del Cavaliere, Gianni Letta, che avrebbe pure provato ad opporsi a questo strapotere degli ex padani senza troppo successo, dal momento che le trattative le stava facendo Niccolò Ghedini.

Il risultato è che Lega e Forza Italia avranno un peso nel prossimo Parlamento molto simile, una differenza di seggi che sarà di circa una decina, che nessuno dei due partiti potrà fare a meno dell’altro. Immaginando che potesse presentarsi questa eventualità il leader padano, che è affiancato da Alberto Giorgetti, suo stratega e dirigente che ha attraversato tutte le stagioni e le gestioni del Carroccio, ha fatto due cose. La prima è stata ridurre al minimo le truppe dei colonnelli leghisti per evitare che ci fosse qualcuno in condizioni di spaccargli il partito o sfilarglielo da sotto al naso. Luca Zaia non ha nessuno dei “suoi” tra i candidati (e infatti pretende le dimissioni dei segretari cittadini leghisti in Veneto, per mettere le mani almeno sul partito), Roberto Calderoli corre da solo (ed è impegnato in tour al Sud), Umberto Bossi idem, Maroni non è in lista e non ha alcun fedelissimo in volo per Roma.

Nessun leghista, dunque, avrà i numeri per portargli via un gruppo di “responsabili” pronti a sostenere il governo, potrà fare l’Angelino Alfano del Carroccio. La seconda scelta fatta dal segretario è stata quella di mettere in lista personale politico di livello diverso, più alto, non proprio “tecnici”, ma quasi. E’ il caso dell’avvocato Giulia Bongiorno, già difensore di Giulio Andreotti e parlamentare di Fli, che sembra marciare spedita verso la poltrona di Guardasigilli col benestare anche del Cavaliere, ma anche degli economisti Alberto Bagnai e Claudio Borghi Aquilini, che insegnano all’Università e hanno i titoli per reggere un ministero.

Secondo chi lo conosce bene la strategia di Salvini per non mandare all’aria il nuovo Parlamento e forse il Paese senza ritrovarsi costretto a sedere in consiglio dei ministri accanto ad un esponente indicato da Renzi o, peggio, da Massimo D’Alema sarebbe questa: mettere al governo dei leghisti “tecnici” senza impegnarsi personalmente. Salvini ha in mente il vecchio schema della Lega di lotta e di governo, con lui impegnato nella lotta e qualcun altro dei suoi nel governo. Giusto ieri ha presentato nel corso di un incontro con la stampa al Senato Umberto Rapetto, ex generale della Guardia di Finanza, per il quale ha immaginato un ruolo di “super manager per la sicurezza degli italiani, dal cyberbullismo, alla sicurezza della rete alle telecomunicazioni, che metta in fila competenze oggi distribuite tra vari soggetti”. Meglio non parlare di posti, però.

“Da presidente del Consiglio sceglierò; ho una squadra di ministri ben chiara ma non tiro fuori un nome al giorno”. Le trattative saranno lunghe. L’eurodeputato milanese ha un’altra cosa chiara in testa: “Non faremo accordi coi Cinquestelle”, ripete continuamente. Salvini non vuole nemmeno ritrovarsi da solo all’opposizione con l’M5s, teme di finire schiacciato da un partito che, comunque, uscirà dalle urne con una percentuale di consenso quasi doppia rispetto a quella del suo partito. Tutti i leader dei principali partiti negano di essere disponibili ad accordi post voto. Dopo il Cavaliere, ieri è toccato al leader Pd: “Niente larghe intese: Forza Italia e Lega non vengono da Marte. Quando pensiamo a un governo del genere, dovremmo ricordare che l'ultimo giorno di un loro governo avevamo lo spread a 555…”, ha detto Renzi. Salvini non risponde alle provocazioni: “Vinceremo col sorriso”, risponde. E intanto spera di non doverlo perdere il giorno dopo il voto quel sorriso.

Paolo Emilio Russodi Paolo Emilio Russo, giornalista parlamentare   
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