[L'analisi] Il salario minimo garantito non piace alle imprese, e neppure ai sindacati
In parlamento ci sono quattro progetti di legge ma quello grillino è a destra di quello del Pd che è a sinistra di quello presentato dall’estrema sinistra di Leu, il quale, a sua volta, è quasi identico alla proposta di Fratelli d’Italia ed è, sotto alcuni aspetti, il più realistico
Quando l’idea l’ha messa sul tavolo Renzi, come necessario complemento del Jobs Act e la rilancia Di Maio, come indispensabile antidoto al Jobs Act, le possibilità sono due. O il problema è talmente semplice che non si può non essere tutti d’accordo. O è talmente complesso, che ognuno se lo gira come gli pare e lo scontro è assicurato. Nel caso dell’introduzione in Italia di un salario minimo garantito per legge, i paradossi non si limitano al balletto della primogenitura fra Renzi e Di Maio. I progetti in Parlamento sono quattro (solo Lega e Forza Italia non ne hanno uno) ma quello grillino è a destra di quello del Pd che è a sinistra di quello presentato dall’estrema sinistra di Leu, il quale, a sua volta, è quasi identico alla proposta di Fratelli d’Italia ed è, sotto alcuni aspetti, il più realistico.
L’ECCEZIONE ITALIANA
L’Italia è uno dei pochi paesi industrializzati a non avere un salario minimo garantito per legge. Ma non perché siamo un paese arretrato. Al contrario. Il salario minimo non c’è a Cipro, ma neppure nei paesi scandinavi. Agli imprenditori, infatti, non piace perché lo considerano un vincolo, ma non piace neanche ai sindacati, che pensano di proteggere meglio i lavoratori con i contratti collettivi e i minimi contrattuali. La cosa funziona, in effetti, in Scandinavia, perché i sindacati sono forti. Ma, in Italia, non lo sono più, anzi sono spesso evanescenti. Per giunta, la nuova realtà frammentata del mondo del lavoro – fra precari, collaboratori, indipendenti, gig economy, part time, sommersi – ha fatto esplodere le tutele e le rappresentanze: in teoria, la Costituzione dice che ognuno è protetto da un contratto, ma ci sono una marea di sindacati e sindacatini che hanno firmato oltre 800 contratti ed è troppo facile non rispettarne nessuno.
Il salario minimo viene visto, quindi, come un modo di consolidare le buste paga e, in generale, di aumentare il peso complessivo dei salari, da troppo tempo in discesa, cosa che rilancerebbe la domanda di consumi e rivitalizzerebbe l’economia. Il problema: una cosa è introdurre un salario minimo in una economia in espansione – come ha fatto la Germania nel 2015 – un’altra in recessione. Perché, se le imprese lo vivono come un costo troppo alto, in un momento in cui non c’è spazio per l’ottimismo, o vanno in nero o tagliano l’occupazione: se non il posto, le ore lavorate. Dunque, primo punto chiave: il livello di questo salario minimo è cruciale.
GABBIE SALARIALI?
Negli altri paesi europei, il salario minimo è fissato a livello nazionale. Solo in paesi sconfinati, come gli Stati Uniti o il Canada, i livelli sono locali. Ma in Italia, le differenze regionali – in termini di costo della vita, opportunità di lavoro, produttività – sono fortissime. Si rischia una ripetizione degli squilibri del reddito di cittadinanza che, a Nord, è inferiore al livello di povertà, quindi non copre tutti i poveri, a Sud è superiore, quindi copre anche chi povero non è. Il secondo punto cruciale, dunque, è che si rischia una introduzione del salario minimo che va liscia al Nord, ma la busta paga è troppo magra per il lavoratore. Invece, al Sud il minimo nazionale è più che adeguato, ma è un costo troppo alto per l’impresa, che preferisce tagliare posti di lavoro.
PAVIMENTO O TETTO?
Al contrario di altri paesi europei, l’Italia è un paese di imprese piccole e piccolissime. L’Istat registra che il 95 per cento delle aziende italiane ha meno di dieci addetti. Il sindacato, qui, esiste per sentito dire. Introdurre il salario minimo protetto per legge – da carabinieri e giudici – può voler dire assicurare una busta paga decente a tutti. Ma può anche voler dire che un’azienda che si poteva permettere di pagare più del minimo, ora risparmia accettando l’indicazione di legge. Il terzo punto cruciale, quindi, è navigare fra l’obiettivo di fissare un pavimento alla corsa all’indietro dei salari e il rischio che quell’indicazione di legge diventi, invece, un tetto.
Come si collocano, su queste difficili scelte, le proposte presentate in Parlamento?
QUANDO I GRILLINI SONO BUONISTI
La differenza più stridente fra la proposta di legge grillina e quelle degli altri quattro partiti riguarda cosa succede se un’impresa non rispetta l’obbligo di applicare il salario minimo. Pd, Leu e FdI prevedono sanzioni, più o meno severe, per il padrone che fa il furbo. I 5Stelle nessuna. Forse, un bonario monito delle autorità. Nella versione 5S, insomma, il minimo salariale ha la veste sostanzialmente di un invito, un auspicio, un riferimento. Non è la prima volta che i grillini si dimenticano di prevedere sanzioni in severi disegni di legge, forse convinti della capacità persuasiva della Gazzetta ufficiale o, forse, decisi a non infilare le mani in un vespaio, in cui, alla fine, ci si arrangerà secondo disponibilità.
LA GENEROSITA’ DEL PD
Salario minimo a 9 euro l’ora, aveva detto Renzi. E 9 euro l’ora dice il progetto presentato dal Pd. E’ la stessa cifra che hanno indicato i grillini. La differenza è che il Pd parla di 9 euro, al netto di tasse e contributi, i 5S al lordo. Non è una differenza da poco. Nell’ipotesi – forse non la più probabile – di un orario standard di 40 ore settimanali, parliamo, comunque, di un salario di oltre 1.400 euro al mese, lorde o nette, a seconda dei 5 Stelle o del Pd.
Sono (relativamente) tanti soldi. Nove euro l’ora è, da qualche mese, il salario minimo in Germania, ma il livello medio delle retribuzioni tedesche è più alto di un 17-18 per cento rispetto all’Italia. La scala a cui fanno riferimento gli economisti è il salario, non medio, ma mediano. Cioè quello che si colloca esattamente a metà, fra il più alto e il più basso. Con 9 euro l’ora, il minimo legale sarebbe pari al 75 per cento del salario mediano. Molto di più che negli altri paesi: in Francia è al 60 per cento, in Spagna al 40, in Gran Bretagna al 48 per cento. Secondo i modelli econometrici dell’Ocse, il 75 per cento è una percentuale troppo alta. Per evitare che il minimo salariale spaventi le aziende e le spinga a tagliare i posti di lavoro, il livello deve oscillare fra il 40 e il 60 per cento del salario mediano, fra Spagna e Francia. Oltre, farebbe male all’economia. Nel caso italiano, un minimo salariale dentro la forchetta Ocse corrisponde a 5-7 euro l’ora, visto che il salario mediano è un po’ superiore agli 11 euro.
I MODERATI? SONO GLI ESTREMISTI
Più cauti e flessibili, invece, i progetti presentati dall’estrema sinistra di Leu e dall’estrema destra di FdI, che, per molti versi, sono in fotocopia. Anzitutto sui soldi. Tutt’e due, infatti, sono più vicini alla forchetta indicata dall’Ocse, perché parlano di un minimo al 50 per cento del salario medio, che non è la stessa cosa di quello mediano (in questo caso si prende il totale dei salari e li si divide per il numero delle buste paga). Il salario medio, comunque, è di circa 14 euro l’ora e la metà fa, appunto, 7 euro.
Inoltre, Leu e Fdi prevedono che la cifra di legge, anziché ogni anno, come chiedono Pd e 5S, venga ritoccata ogni 4 anni (Leu) o ogni 3 (FdI). Soprattutto, tutt’e due i partiti (anche, a sorpresa, Leu) prevedono “un fattore di proporzionalità regionale”. Fuori dal gergo, la possibilità di modulare il minimo salariale a seconda delle condizioni economiche e degli standard salariali della regione. Una precauzione che odora di gabbie salariali, ma che ha un senso in un paese in cui la retribuzione media, al Nord, è di 24 mila euro l’anno, il 50 per cento più che al Sud, dove si ferma poco sopra i 16 mila euro.