[Il ritratto] Romani, l’uomo di ferro del Cavaliere rifiutato dai grillini per colpa di una bolletta telefonica
Nel giugno 2011 Paolo Romani è assessore ae consigliere dell’Expo al Comune di Monza, deputato del Pdl e ministro dello Sviluppo. Il Comune gli dà un cellulare per le attività istituzionali. Lui lo avrebbe girato alla figlia minore («me lo ha preso», si difende lui, usando «un dispositivo di cui ammetto di aver dimenticato l’esistenza»), che se ne sarebbe servita per tredici mesi, anche in un viaggio negli Usa, accumulando bollette per 12.883 euro. Viene indagato per peculato e finisce a processo. Lui protesta: come poteva accorgersi che il cellulare lo usava sua figlia con tutto quello che aveva da fare, come ministro e come assessore?
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La Terza Repubblica, come l’ha battezzata Luigi Di Maio nel clima festaiolo del 4 marzo, tanto per cominciare è partita subito con una bella figura storica della Seconda, quel Paolo Romani, uomo di televisione nell’era dominante della tv, ex patron di Telelombardia, sottosegretario contestatissimo alle Comunicazioni, fedelissimo di Berlusconi e suo ministro al dicastero dello Sviluppo, sempre un passo dietro al Cavaliere nella buona e nella cattiva sorte, come una sposa sull’altare. Com’è andata a finire la sua candidatura al Senato, lo sappiamo. Ma sta di fatto che tutto quello che è successo dalla vigilia in poi ha riproposto in ogni sua sfaccettatura i riti e i giochi di corridoio, le noiosissime trafile e le chiacchiere interminabili, il bello (il bello?) e il brutto della Seconda.
L’accordo tra i vincitori delle elezioni, il Movimento 5 Stelle e il centrodestra, prevedeva la presidenza del Senato a Salvini e Berlusconi, e la Camera a un uomo di Di Maio. Il Cavaliere ha fatto un solo nome, quello di Paolo Romani. Il leader dei grillini ha risposto che «questa proposta non è ricivibile»: non voteranno mai un senatore condannato per peculato. Berlusconi ha risposto: incontriamoci. Apriti cielo. Mai. La base e forse anche Grillo hanno minacciato la rivolta: i Cinque Stelle sono nati come forza antiberlusconiana, non potrebbero mai sedersi a un tavolo con il diavolo.
Si sa che anche in politica, o soprattutto in politica, le parole le porta via il vento. Dagospia aveva raccontato che nella notte del 4 marzo Berlusconi si era così infuriato con il suo fedelissimo Paolo Romani che da Vespa si era permesso di lodare la giovane età di Matteo Salvini in contrapposizione a quella di qualcun’altro («Salvini è giovane, ha tante energie per girare l’Italia, Berlusconi ha 81 anni, l’età fa la sua parte»), da ricredersi sulla sua volontà di candidarlo come presidente del Senato. Invece, poi, non solo l’ha candidato, ma ha deciso di farlo pure ad oltranza, rimproverato persino dal suo alleato leghista, che inizia a trovarsi bene a far le prime prove nelle vesti di statista: «Il M5S sbaglia a porre veti, ma sbaglia anche chi si arrocca su un solo nome». Ma Berlusconi semplicemente sapeva benissimo di aver la sponda di una grossa fetta del Pd, di Renzi e del suo gruppo, che è comunque ancora in maggioranza all’interno del partito. Alla fine era convinto di riuscire a spuntarla in ogni caso. Quindi barra dritta su Paolo Romani, «cioé un pregiudicato per peculato, che per giunta racconta un sacco di balle sulla sua condanna», come l’ha velenosamente tratteggiato Marco Travaglio, spiegando che leggendo bene fra le righe della motivazione della sentenza si dedurrebbe che «è ladro e bugiardo».
La storia è questa. Nel giugno 2011 Paolo Romani è assessore ae consigliere dell’Expo al Comune di Monza, deputato del Pdl e ministro dello Sviluppo. Il Comune gli dà un cellulare per le attività istituzionali. Lui lo avrebbe girato alla figlia minore («me lo ha preso», si difende lui, usando «un dispositivo di cui ammetto di aver dimenticato l’esistenza»), che se ne sarebbe servita per tredici mesi, anche in un viaggio negli Usa, accumulando bollette per 12.883 euro. Viene indagato per peculato e finisce a processo. Lui protesta: come poteva accorgersi che il cellulare lo usava sua figlia con tutto quello che aveva da fare, come ministro e come assessore? I giudici però sostengono che la figlia con quel telefonino chiamava anche il papà. Un giorno, poi, perse il cellulare e la denuncia di smarrimento la sporse il genitore. Quindi, sostengono i magistrati, non poteva non sapere. Romani ottenne una nuova Sim e la passò subito a sua figlia. Si precipitò, però, a risarcire il Comune.
Al processo scelse il rito abbreviato. In primo grado fu condannato a un anno e 4 mesi. E la sentenza fu confermata in appello. Ma la Cassazione decise poi di rinviare tutto alla Corte d’Appello perchè motivi meglio le mancate attenuanti oppure le conceda limando ancora la pena. Le motivazioni della sentenza, è vero, sono abbastanza nette: l’imputato, dopo aver ricevuto dal Comune l’assegnazione di una scheda telefonica Sim per le sue funzioni, l’avrebbe ceduta alla figlia, che l’ha utilizzata in via continuativa «con il suo pieno consenso». Lui in un’intervista al Giornale ha protestato la sua innocenza: «Mi scoccia dovermi difendere tanto la vicenda è assurda. ero ministro e assessore, ero spesso lontano e mia figlia quindicenne prese quel telefono. Me ne accorsi quando arrivò la bolletta e anbdai subito a risarcire la somma». Lui, e questo lo riconosce, ne ha solo «dimenticato l’esistenza». In pratica, la sua sarebbe «una mancanza nel ruolo di padre», che attiene agli effetti più intimi e andrebbe taciuta per la privacy. «Se mi fossi chiamato Mario Rossi non sarebbe successo tutto questo».
Ma se si fosse chiamato Mario Rossi non sarebbe al Senato, candidato unico alla presidenza da tutto il centrodestra, come ha ribadito con forza Renato Brunetta. E quando il giornalista gli ha chiesto se sarebbe ipotizzabile un passo indietro dello stesso Romani per superare l’empasse, il professore ha sorriso ironico: «E perché mai dovrebbe farlo quando è stato designato dal centro destra intero, come c’era scritto nel comunicato di ieri sera». Spiegando poi meglio quello che stava succedendo. Non è in gioco il futuro di Romani. E’ in gioco quello di Berlusconi.