[L'analisi] La rivolta degli industriali: “Noi siamo contro questa manovra”
Salvini non può permettersi di litigare con quella che considera la sua base elettorale e Di Maio di inimicarsi un terreno in cui vuol mettere piede. Se la Manovra del Popolo cambierà segno, molto avrà inciso la necessità di far fronte ad una fascia di elettorato, i cui interessi sono strettamente legati all’Europa. Si può fare spallucce a Moscovici e ironia su Juncker. Non su Bonomi e Boccia. Gli industriali sono, per definizione, governativi e non si vergognano di dichiararlo, volta per volta, apertamente. Quando non lo fanno e, peggio, si assumono anche la fatica di mobilitarsi in pubblico, c’è aria di tempesta vera.

Nella storia dei primi mesi del governo gialloverde, c’è una data che segna uno spartiacque, un prima e un dopo, dove si sono incrinate convinzioni e certezze di Lega e 5Stelle, che, fino ad allora, era sembrato impossibile scalfire. Una megamaggioranzaelettorale, sostenuta da un consenso vasto e crescente nei sondaggi, imbaldanzita dall’assenza di una qualsiasi opposizione politica, quel giorno andava a sbattere contro un muro che non aveva visto e, tanto meno, previsto. Il giorno è il 18 ottobre 2018 e apre la porta alla rivolta dei ceti produttivi contro il governo, che ha trovato, ieri a nella manifestazione pro-Tav di Torino, la sua rappresentazione più esplicita. Quel giorno, i mugugni e i brontolii che avevano accompagnato, ad inizio estate, il varo del decreto Dignità per irreggimentare il lavoro precario si coagulano nel discorso duro e appassionato di Carlo Bonomi in quel tempio dell’industria italiana che, assai più del palazzo romano della Confindustria, è l’assemblea dell’Assolombarda. Per la Lega è uno choc, per i 5Stelle una sorpresa indigesta. Soprattutto, è l’inizio di una slavina che, montando settimana dopo settimana, farà sentire al governo - appena partito, con la Manovra del Popolo, alla crociata contro Bruxelles sotto la bandiera “Serve una spinta allo sviluppo” - che il terreno gli manca sotto i piedi. Non è quella del governo, tutta centrata su sussidi, pensioni, spesa corrente, la spinta che può dare sviluppo, scandisce il presidente dell’Assolombarda. Il grido, da Torino a Treviso, diventa via via un rombo, finché anche il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, ieri sera a Torino, non dice, senza sentire il bisogno di alcuna sfumatura: “Noi siamo contro questa manovra”.
FRA MILANO E BRUXELLES
Chi guarda all’affannoso lavoro di queste ore, fra Tesoro, Palazzo Chigi, quartier generali dei partiti, per rappezzare la Manovra del Popolo e tentare di renderla digeribile a Bruxelles non ha dubbi nell’indicare cosa sta spingendo il governo gialloverde a rimangiarsi molte delle parole pronunciate in questi mesi, fino a ripensare (in quale misura ancora non si sa) alcune delle scelte cruciali della Manovra economica grilloleghista, come pensioni e reddito di cittadinanza:il fattore decisivo è la pressione dei mercati e lo spread, che sanzioni e multe dell’Europa farebbero esplodere. Eppure, è forte l’impressione che né Di Maio, né Salvini abbiano bene afferrato la concatenazione manovra-mercati-spread-economia. Quello che, però, hanno certamente colto al volo è che Salvini non può permettersi di litigare con quella che considera la sua base elettorale e Di Maio di inimicarsi un terreno in cui vuol mettere piede. Se la Manovra del Popolo cambierà segno, molto avrà inciso la necessità di far fronte ad una fascia di elettorato, i cui interessi sono strettamente legati all’Europa. Si può fare spallucce a Moscovici e ironia su Juncker. Non su Bonomi e Boccia.
La storia, infatti, insegna che gli industriali sono, per definizione, governativi e non si vergognano di dichiararlo, volta per volta, apertamente. Quando non lo fanno e, peggio, si assumono anche la fatica di mobilitarsi in pubblico, c’è aria di tempesta vera. Giusto 38 anni prima del discorso di Bonomi, il 14 ottobre 1980 e – brutto segno – proprio a Torino, la marcia dei 40 mila, con la scesa in campo dei ceti produttivi, chiudeva la lunga stagione delle rivolte studentesche e sindacali, culminata nell’autunno caldo. Di Maio non era ancora nato, Salvini aveva appena iniziato le elementari, ma Giorgetti già leggeva i giornali e sa che certe micce vanno spente subito, prima che prendano vigore.
LE CONTRADDIZIONI DELLA MANOVRA
Il problema è che, nell’imbuto di una manovra che somma rivendicazioni provenienti da versanti opposti, lo spazio è diventato subito troppo stretto. Quota 100 per le pensioni e il reddito di cittadinanza sono stati finanziati quasi interamente in deficit. Il quasi sono – appunto - i soldi rastrellati aumentando le tasse sulle imprese. Nel 2019, nel quadro di una manovra ufficialmente designata a sostenere l’economia, gli imprenditori verseranno al fisco – a vario titolo – 6,2 miliardi di euro in più del previsto: 4,5 miliardi industrie e servizi, 1,8 miliardi banche e assicurazioni. E’ un picco: nel 2020 le imprese resteranno sullo stesso livello e, assicurano le proiezioni del governo, nel 2021 recupereranno anche un miliardo di sgravi fiscali. Ma il 2020 e il 2021 sono lontani, si vedrà: è il 2019 quello che guardano tutti.
Anche perché il 2019 già appare una impervia salita e la zavorra del fisco non può che renderla più faticosa. Dopo le tasse, infatti, il secondo motivo di malessere del mondo produttivo sono le previsioni congiunturali. L’1,5 per cento di sviluppo del Pilpronosticato dal governo è, ormai, un remoto ricordo. Dalle più recenti analisi delle grandi banche d’affari, come Goldman Sachs e Barclays viene una doccia gelata: nel 2019 l’Italia non crescerà più dello 0,4 per cento. La paralisi, o, meglio, una minirecessione, che dovrebbe limitarsi alla prima metà del 2019 (dita incrociate sul poi: come per le previsioni meteo, quelle economiche sono tanto meno attendibili, quanto più guardano lontano). Pesano i fattori internazionali, ma – sottolinea il rapporto di Barclays – molto è nelle mani di Di Maio e Salvini. L’incertezza e l’instabilità politica – secondo la grande banca inglese – sono, infatti, alla radice del rallentamento economico in corso: molto prima di decidere se andare o no a Torino, infatti, gli industriali italiani, nei mesi scorsi, hanno tagliato – dicono i dati Istat - gli investimenti. E’ lo sciopero peggiore che un governo debba affrontare.
LA PARALISI DEGLI APPALTI
Visto con gli occhi di un imprenditore, dunque, questo è un governo che spaventa, tassa e non paga. Non solo i suoi debiti con le aziende, ma anche i lavori pubblici che non fa. Ci sono 50 miliardi di euro di appalti per opere pubbliche ferme nei cassetti. Più 3 miliardi della TavTorino-Lione. Una fetta importante di questi appalti fermi, infatti, non si sono inceppati per grovigli burocratici, ma sono congelati dai dubbi e dalle remore dei 5Stelle sulle grandi opere. Dalla Tavall’alta velocità Verona-Padova, ancora il Terzo Valico ferroviario Piemonte-Liguria o l’autostrada Parma-Verona. Soldi che non circolano, dicono gli industriali, e non arrivano all’economia.
E’ la tenaglia in cui è imprigionata la Lega, sensibile a questi richiami, ma bloccata dall’accordo di governo con i grillini. Il rischio – letale, non solo per Salvini, ma anche per Di Maio – è, però che questo malessere diffuso degli imprenditori, questa delusione e questa rabbia che montano si traducano in una contestazione politicamente definita e mirata. Non c’è bisogno di inventarsi nulla. Il 18 ottobre, Bonomi aveva già inquadrato la protesta degli industriali in uno smantellamento, pezzo per pezzo, dell’esperienza grillo-leghista. No “alle promesse elettorali scassabilancio, senza impatto su crescita e lavoro” diceva il presidente dell’Assolombarda. No allo Stato paternalista, a chi attacca le autorità indipendenti, vuole le chiusure domenicali, resuscitare l’Alitalia. No “a chi alimenta la paura per sfruttarla a fini di consenso”. Una fuga in avanti di Bonomi rispetto al grosso degli imprenditori, dissero allora quelli che conoscono bene gli umori degli industriali. Ma il governo gialloverde non può permettersi che, in assenza di risposte, gli industriali italiani si risveglino bonomiani.