Renzi e Gentiloni, gemelli diversi dentro il PD. Ma sulla leadership pesa il Rosatellum
Michele Anzaldi, già collaboratore di Gentiloni e poi coordinatore della comunicazione di Renzi alle ultime primarie per la Segreteria Pd, parla di due leader "complementari e non alternativi". Poi avvisa: "La Sicilia è un monito, serve unità"
Doveva essere “la riserva”, il reggente pro-tempore scelto dal disarcionato Renzi per governare la transizione, difficilissima, dopo la debacle del Referendum Costituzionale. Nominato alla testa di un governo-fotocopia e percepito per questo quasi come un ologramma del Segretario Pd. E invece no. Paolo Gentiloni è riuscito poco a poco a ritagliarsi un profilo autonomo, complementare ma allo stesso tempo innovativo rispetto al solco del suo predecessore. Con il suo stile sobrio, inclusivo, rassicurante è riuscito a disegnare i contorni di una leadership forte, autorevole, molto apprezzata all’estero ma anche in patria. Lo attesta l’applausometro che misura la simpatia del Premier molto alta ad ogni uscita pubblica. Ma anche l’eloquenza dei sondaggi: l’ultimo è quello di Ixè, a inizio novembre, secondo il quale il premier godrebbe della fiducia del 39% degli italiani. Più del segretario del Pd Matteo Renzi staccato di 12 punti e scavalcato anche dal candidato del M5S Di Maio. Non solo. Gentiloni piace anche fuori dal Pd, da sinistra a destra. Dalla rilevazione emerge infatti che il “potenziale attrattivo” del PD fuori dal proprio recinto sarebbe del 7,1 se il front-man fosse Gentiloni, contro il 3,9 dell’attuale segretario. Un elemento che potrebbe addirittura diventare dirimente all’indomani delle politiche, nell’ipotesi di dover trovare un leader “coesivo” in vista di un governo di larghe intese.
Lui si schernisce, continuando a definirsi (lo ha fatto nel faccia a faccia con Bruno Vespa sul Corriere, venerdì) “un medico chiamato ad operare in una situazione d’emergenza”. Ma è consapevole del peso crescente del suo ruolo, e pur stando bene attento a non porgere mai il fianco alla fronda antirenziana, non rinuncia ad esercitare la sua influenza “equilibratrice”. Si è visto nel recente braccio di ferro per la nomina del titolare di Bankitalia, dove Gentiloni, naturalmente schierato con Mattarella sul fronte della stabilità istituzionale, ha guadagnato ancora punti su Renzi, che invece ha convinto meno nei panni del rottamatore antisistema. E’ stato ancora più evidente dopo l’abbraccio liberatorio fra il premier e il titolare del Nazareno, durante la convention napoletana per la conferenza programmatica del Pd, in cui Gentiloni, pur confermando la sua fedeltà alla leadership renziana, non ha rinunciato a dare qualche consiglio all’amico Matteo, delineando la sua visione di partito: “Unità, gioco di squadra, un partito impegnato a costruire l’assetto più largo possibile, aperto verso il centro e la sinistra, per vincere e governare”. Con un programma marcatamente di sinistra, che guardi all’Europa, ai più deboli, alle sfide dell’ambiente. Renzi, dal canto suo, ha concesso al titolare di Palazzo Chigi la standing ovation della platea, per poi ribadire subito dopo che l’unica leadership possibile, in caso di vittoria alle politiche, rimane la sua, in ottemperanza alle regole dello Statuto. A buon intenditore poche parole.
Ma guai a soffiare sul venticello della discordia. Perché “Renzi e Gentiloni non sono alternativi, semmai complementari. Due grandi ufficiali in comando che stanno lavorando molto bene e fanno parte della stessa squadra”. A dirlo non è uno qualsiasi, ma un personaggio che che li conosce bene entrambi: Michele Anzaldi, amico e collaboratore del premier sin dai tempi in cui, negli anni ’90, lavorava con Gentiloni direttore a La Nuova Ecologia, il magazine di Legambiente. Poi ancora insieme nel Gabinetto di Francesco Rutelli, in Campidoglio. Un legame che è proseguito nella militanza politica, dalla Margherita all’approdo al Pd. Fino alla nascita del nuovo astro renziano, che li ha visti ancora una volta uniti nell’appoggio al giovane leader. E quando Filippo Sensi è rimasto a Palazzo Chigi con Gentiloni, è stato Anzaldi a prendere il suo posto come responsabile della comunicazione renziana durante le ultime primarie per l’elezione del segretario dem. Del periodo romano con Gentiloni ricorda: “Ogni mattina eri obbligato ad arrivare alle otto, per i breafing di staff a cui lui, molto mattiniero, teneva molto. Si faticava a stargli appresso”. Difficile scucirgli un paragone più che diplomatico fra i due leader: “Le qualità dell’uno e dell’altro? Per Renzi la schiettezza, per Gentiloni la collegialità”. Doti che coincidono anche con i loro principali difetti: “Matteo a volte troppo decisionista, Paolo troppo accomodante”. E che si riflettono nei ruoli che i due hanno interpretato ed interpretano tutt’ora: “Il poliziotto buono e quello cattivo. Quando c’era da battere i pugni in Europa Renzi era il duro, Gentiloni il mediatore: alla fine si portava a casa il risultato”. E’ un gioco di squadra che -nonostante le crepe sulla vicenda Visco- continua tuttora, assicura Anzaldi, ed è sotto gli occhi di tutti: “Il Governo gode della fiducia del Pd. Senza l’appoggio del partito e del suo segretario Gentiloni cadrebbe domani”.
Il premier lo sa, e continua a lanciare messaggi rassicuranti: dice che il suo compito è quello di portare a casa una legislatura con i conti in ordine, per dare al suo successore la prospettiva di un governo stabile. Eppure l’idea del ticket tra i due riemerge come un fiume carsico ad ogni sondaggio. Non ci può essere il desiderio legittimo da parte di Gentiloni di continuare il suo lavoro? O più semplicemente una valutazione di opportunità da parte del partito? “Il desiderio individuale può anche esserci, quando si lavora bene l’ambizione del resto è giusta e sacrosanta. E del resto il valore di Gentiloni non sfugge a Renzi, che lo ha voluto in squadra sin dall’inizio evitandogli il passaggio delle Primarie e premiandolo con ruoli chiave”. Pausa. Anzaldi dribbla, ma non troppo. “Lo Statuto del Pd dice che il candidato premier è il Segretario. Poi nella realtà l’incarico lo da il Presidente della Repubblica sentendo le altre parti, guardando i numeri e valutando le necessità del paese. Gli italiani che vanno a votare devono considerare che dentro il Pd ci sono due grandi chanches, due straordinarie figure di leader. Uno forte, dal profilo profondamente riformatore, ed un altro che ha grandi qualità di mediazione e di dialogo. Il problema vero”, conclude “è la legge elettorale. Bisogna andare a prendere i voti, prima di parlare di leadership. Le divisioni non giovano, come si vede in Sicilia. Le elezioni del 4 novembre sono un paradigma ed un monito per il 2018”.