[Il retroscena] La rissa totale tra Salvini e Di Maio. E spunta il "governo del presidente" per un anno
Giovannini, Cassese, Cottarelli o un tecnico premier. Luigi Di Maio accusa Matteo Salvini di "rimanere con Silvio Berlusconi per problemi di soldi", ma il leghista controbatte: "Basta sciocchezze, non sono sotto ricatto di nessuno, ora querelo". Il leader del Carroccio chiede il preincarico, ma sa di non avere i numeri. Il suo amico e consigliere del Cavaliere Giovanni Toti anticipa la linea in vista delle consultazioni di venerdì: "Servirebbe un governo guidato da una personalità indicata dal Presidente della Repubblica, che affronti le urgenze, faccia Def, cambi la legge elettorale" e accompagni il Paese al voto nel 2019. Gli azzurri chiedono di costituire le commissioni per far lavorare il Parlamento e si calcolano i costi dell'immobilismo: ogni giorno perso in chiacchiere equivale a un milione sprecato
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Una dopo l’altra, sono evaporate tutte le diverse ipotesi. La penultima, quella che prevedeva l’incarico a Matteo Salvini che andasse in Parlamento “a chiedere i voti su un programma specifico”, è stata terminata dal diretto interessato. “Da soli non ce la facciamo, ma mi rifiuto di pensare a un governo che dipenda da 30-40 Scilipoti e dai loro umori diurni e notturni. Tocca agli altri dare una risposta”, ha spiegato ieri il segretario della Lega, dopo un nuovo bagno di folla a Euroflora, a Genova. Gli “altri” a cui si riferiva sono i Cinquestelle che, dopo settimane a tentare di imporsi come perno di una qualsiasi maggioranza in Parlamento, oggi sembrano in grande difficoltà.
Scontro tra Salvini e Di Maio
A dimostrarlo lo scontro durissimo tra Luigi Di Maio, che ancora rivendica “la guida di un governo per portare i risultati” e il leader del Carroccio. “Non è possibile nessun governo del cambiamento con Silvio Berlusconi e il centrodestra. Salvini ha cambiato idea e si è piegato a lui solo per le poltrone. Si torni subito al voto!”, ha scritto sul blog il leader dei pentastellati. Subito dopo, è stato ancora più duro, alludendo alla voce secondo cui il segretario della Lega non avrebbe intenzione di mollare Forza Italia perché il Cavaliere gli avrebbe garantito sostegno economico in un momento finanziariamente complicato per il suo partito: “Tra prestiti e fideiussioni, hanno qualche problemino con i soldi. Ma l’Italia non può rimanere bloccata per i guai finanziari di un partito”, ha scritto ancora il capo politico del Movimento.
Nei giorni scorsi era tornata a circolare la voce che dopo il sequestro dei conti correnti dovuto agli errori della gestione di Umberto Bossi e in assenza di finanziamento pubblico, Salvini abbia chiesto e ottenuto dal fondatore di Mediaset un supporto economico. “Non rispondo a insulti e sciocchezze su soldi e poltrone, per noi lealtà e coerenza valgono più dei ministeri”, ha tagliato corto il neo senatore. Qualche giorno fa con un’intervista al Fatto Quotidiano, il giornalista ed ex direttore de La Padania, Gigi Moncalvo, ha rivelato un altro dettaglio che, a suo dire, spiega la tenuta dell’asse Lega - Forza Italia, stressato come non mai dalle avance dei pentastellati, ma che non ha mai veramente traballato: “C’era un accordo scritto ai tempi di Bossi con Berlusconi che di fatto attribuisce la proprietà del simbolo della Lega, quello con Alberto Da Giussano, al Cavaliere”. Il segretario del Carroccio replica secco: “Chiunque parli di soldi, prestiti, fideiussioni, regali e ricatti inesistenti a me e alla Lega se finora è stato ignorato, da domani sarà querelato. Abbiamo fatto tutto da soli”.
Clima gelido tra i due ex “promessi sposi” del governo
Il clima gelido e di accuse tra i due ex “promessi sposi” del governo gialloverde, che si scrivevano su Whatsapp ed erano pronti a convergere su alcuni punti programmatici, non fa che complicare il lavoro del Capo dello Stato che giovedì comincerà un nuovo - e ultimo? - giro di consultazioni, alla disperata ricerca di una soluzione finale. Quale possa essere lo ha indicato Giovanni Toti. Il governatore della Liguria, vicinissimo al capo della Lega, tornato in scena da alcune settimane come “uomo ponte” tra lui e il fondatore di Forza Italia, è partito da una considerazione: “Un presidente del Consiglio che si presenti con il programma di centrodestra alle Camere temo che non troverebbe i numeri”. Poi, però, ha aggiunto: “L’altra strada è solo una: il presidente della Repubblica individua un garante che prenda in carico 3-4 punti di programma che sono indispensabili come un Def che sterilizzi le clausole di salvaguardia e dia tempo al Parlamento di cambiare la legge elettorale con il massimo del consenso per poi tornare al voto”. Azzurri e leghisti, dunque, sembrano voler puntare dritti sul “governo del presidente”, guidato da un esponente indicato dal Quirinale, che abbia un programma minimo, si intesti una riforma della legge elettorale e riporti il Paese alle urne tra un anno, insieme alle Europee. Questa ipotesi è quella che Gianni Letta ha sempre ritenuto, sin dal 4 marzo, l’unica strada percorribile per sbloccare l’empasse.
Ma chi potrebbe sostenere questo governo del presidente e quale è il profilo più adatto per guidarlo? Sono stati studiati i profili di Carlo Cottarelli, di Enrico Giovannini, di Sabino Cassese e del vicesegretario leghista Giancarlo Giorgetti, che, secondo molti, è da sempre la “carta nascosta” del Carroccio. Non è ancora escluso che Salvini, all’ultimo secondo, chieda di poterci provare lui in prima persona. Sui numeri della possibile maggioranza inciderà l’esito del dibattito interno al Pd.
Cinquestelle chiedono nuove elezioni
I Cinquestelle chiedono le elezioni, ma non potranno essere accontentati e avrebbero interesse a essere della partita. Sul tema della legge elettorale, oltretutto, nel centrodestra sembrano avere le idee chiarissime: “Mettiamo il premio di maggioranza nella legge elettorale attuale”, dicono in stereo, rilanciando una proposta di Giorgia Meloni. Con una legge siffatta Lega-Fi e Fdi pensano di poter vincere le Politiche e conquistarsi una maggioranza in serenità, di sfruttare al meglio il vantaggio sui pentastellati. “Salvini vuole governare col Pd, pensa ad una ammucchiata con Matteo Renzi e Silvio Berlusconi: poteva dircelo subito”, risponde Di Maio. “Io sono disponibile a parlare con lui anche domani, ma sono fedele agli elettori che hanno votato il centrodestra unito”, gli ha replicato Salvini, abbassando decisamente i toni.
Forza Italia torna alla carica
Visto che la soluzione a questa crisi inedita è ancora lontana, Forza Italia è tornata alla carica per tentare di “sbloccare” il Parlamento. “Basta stallo, basta immobilismo. Rendiamo subito operative le Camere con la formazione delle Commissioni permanenti”, ha chiesto Mariastella Gelmini, capogruppo alla Camera di Forza Italia. “La nostra proposta ufficiale è stata illustrata già una decina di giorni addietro al presidente della Camera, Roberto Fico, durante una capigruppo. Nella storia parlamentare repubblicana ci sono almeno tre precedenti - nel 1976, nel 1979 e nel 1992 - in cui la costituzione delle Commissioni permanenti è stata effettuata prima della formazione di un governo”, ha sottolineato. Sono già 700 le proposte di legge depositate dai parlamentari, ma senza commissioni non possono essere esaminate: le Camere sono ferme. La prassi prevede che le commissioni si costituiscano soltanto dopo la nascita di un governo, quando è chiaro chi sta in maggioranza (e quindi può chiedere e ottenere le presidenze) e chi è all’opposizione e si vede riconosciute le cosiddette “commissioni di garanzia” come la Vigilanza Rai o il Comitato di controllo sui Servizi e per questa ragione si è finora rinviata la loro formazione.
“Nella particolare situazione attuale, con le trattative per il prossimo esecutivo ancora ferme, occorre seguire questo percorso. Il Parlamento deve poter lavorare nella pienezza delle sue funzioni: i cittadini esigono risposte immediate e concrete”, ha aggiunto l’ex ministro dell’Istruzione, seguita poi a valanga da tutti i più importanti dirigenti azzurri. Su questa linea si erano già schierati anche il Carroccio e Fratelli d’Italia.
E nell'attesagli italiani pagano
I ritardi nell’avvio della legislatura hanno anche un costo economico che, prima o poi, qualcuno potrebbe addebitare ai continui veti e alla scarsa attitudine dei partiti - e alcuni in particolare - a sedersi attorno ad un tavolo per trovare una soluzione condivisa. Se il Capo dello Stato dovesse ritrovarsi costretto a sciogliere le Camere e rimandare il Paese al voto a settembre - il 24 è la data più accreditata - gli italiani avrebbero subito un danno economico di almeno 136 milioni di euro soltanto per gli stipendi dei parlamentari pagati per non lavorare a cui si sommerebbero i costi della convocazione di nuovi comizi. Il dato reale, che include anche i costi vivi delle strutture, è molto più alto. Il pool di economisti di Lavoce.info ha rielaborato i dati anticipati da Tiscali e stimato in 120 milioni di euro le risorse già “bruciate” dall’inizio della legislatura tra Camera e Senato. Senza uno sbocco diverso da quello che si augurano i Cinquestelle, la diciottesima legislatura iniziata il 4 marzo conquisterebbe il primato della più corta di sempre: l’undicesima, quella dei governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, è durata 722 giorni, dall’aprile 1992 all’aprile 1994.