[Il retroscena] Nel Def spunta l’autonomia di Veneto e Lombardia, ma il M5S è contrario

Il testo depositato alle Camere impegna la maggioranza a dare l’autonomia alle Regioni che l’hanno chiesta, ma i pentastellati frenano: introducendo il principio della “spesa storica” penalizzerà il Sud, dove hanno preso moltissimi voti. Si scontrano Zaia e Buffagni e la ministra per gli Affari Regionali, la leghista Erika Stefani, si trova tra l’incudine Lega e il Martello 5s: “È una nostra battaglia, non ci possono fermare”. Il 22 il cdm discute di Veneto e Lombardia, ma hanno chiesto autonomia sei Regioni

Di Maio con Salvini
Di Maio con Salvini

Non c’è soltanto il reddito di cittadinanza. Lo scontro tra Cinquestelle e Lega sul Def riguarda anche un altro dossier delicatissimo di cui si è finora parlato poco: l’autonomia di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. I referendum che si sono tenuti l’anno scorso nelle principali regioni governate dalla Lega hanno contribuito a mettere il turbo al Carroccio alle ultime Politiche e oggi Attilio Fontana e Luca Zaia non possono permettersi di deludere le aspettative. Ecco perché Matteo Salvini ha preteso che nel documento presentato alle Camere, bocciato dalla Ue, ma difeso strenuamente da Luigi Di Maio, quell’impegno fosse messo per iscritto. “Una priorità è costituita dall’attuazione dell’articolo della Costituzione sull’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario”, si può leggere nella Nota di aggiornamento al Def. “Sulla questione è già stato avviato un percorso con tre Regioni - Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna - nel 2017 e nei primi mesi del 2018. Si tratta, quindi, di portare a compimento l’attuazione di disposizioni così rilevanti per il sistema delle autonomie territoriali del nostro Paese”, prosegue il cosiddetto Nadef. Solo che a Luca Zaia, che rivendica “l’attribuzione dei 23 materie di competenza esclusiva” alla sua Regione come chiesto da milioni di cittadini che si sono recati alle urne, ha già risposto Stefano Buffagni, ascoltatissimo consigliere di Luigi Di Maio e sottosegretario agli Affari Regionali. “Quella richiesta è molto irrealizzabile”, ha messo in chiaro solo due settimane fa il luogotenente pentastellato. 

La reazione della Lega

A prescindere dalla curiosa espressione utilizzata (una cosa, se è “irrealizzabile”, per la lingua italiana, non lo è né molto né poco), la reazione della Lega non si è fatta attendere. Il governatore veneto ed ex ministro dell’Agricoltura, contestando l’accusa di pretendere un eccessivo trasferimento delle competenze, ha tuonato: “Troppe?  E’ una musica già sentita in passato. Se Buffagni o qualcun altro vuole cambiare la Costituzione, che prevede 23 materie trasferibili alle Regioni, lo dica. Noi abbiamo sempre dichiarato cosa chiediamo, ed è quello che prevede la Carta”. E in realtà, l’articolo 117 proprio questo prevede. Ma Buffagni la stessa tesi l’ha sostenuta dopo essere stato ascoltato in Regione Lombardia, dove, a suo tempo, era anche stato consigliere grillino.  Il numero uno leghista del Pirellone, in realtà, ha ambizioni più ridotte: i lombardi si “accontenterebbero” di 15 materie di competenza esclusiva. I Cinquestelle però frenano perché la loro base sociale è al Sud. Hanno garantito che non avrebbero mai tagliato un euro dei trasferimenti a favore delle Regioni, ma sostengono che, con il passaggio delle competenze che finirebbero di essere - come oggi - concorrenti con lo Stato, nel trasferimento delle risorse economiche dovrebbe essere applicato un nuovo criterio, che, per la verità, tanto nuovo non è, e che, in passato, ha dato un contributo non secondario a scavare l’attuale voragine nei conti pubblici. L’assegnazione dei fondi, per loro, dovrebbe infatti avvenire sulla base della spesa storica: chi finora ha speso di più per erogare servizi dovrà ricevere l’equivalente rispetto al passato. Chi ha attivato molti servizi e per questo spendeva di più - o, come spesso capita per le Regioni meridionali, lo faceva in modo meno oculato -  ne avrà di più; chi invece spendeva di meno - o meglio, come le Regioni “virtuose”-, avrà ancora meno risorse. Come direbbe il napoletano Di Maio: “chi ha dato ha dato ha dato; chi ha avuto avuto avuto”. 

Chi paga i costi

Non è un caso che le Regioni più efficienti abbiano da tempo chiesto l’introduzione del costo standard. Secondo questo criterio, se il costo standard  è 60, la Regione può chiedere solo 60 allo Stato centrale. Se spende 100, gli altri 40 se li deve far dare dai propri cittadini, mettendo nuove tasse, con la possibilità che i cittadini si rendano conto delle responsabilità politiche di chi pratica una cattiva amministrazione.  Così, se i costi per la pulizia dell’ospedale Cardarelli di Napoli sono più del doppio rispetto a quelli emiliani del Sant’Orsola  e all’Umberto I di Roma sono necessari più di 500 mila euro per ogni letto utilizzato, mentre al San Matteo di Pavia ne bastano 380 mila, a coprire la differenza non sarebbe più lo Stato ma i contribuenti di quelle regioni. Che saprebbero, eventualmente, con chi prendersela.

Se le disparità rischiano di crescere

Certo, senza una riorganizzazione dei servizi, si rischia di pagare un prezzo sociale altissimo: il quotidiano Il Mattino, ad esempio,  pochi mesi fa ha calcolato che coi nuovi criteri di riparto basati sui costi standard tutto il Sud avrebbe perso fette importanti di finanziamento per asili  nido e scuole: a Napoli, dove ci sono pochissimi asili, continuerebbero a non esserci; a Bologna, dove ce ne sono già molti, arriverebbero ancora più soldi. La spesa storica, assecondando inefficienza e cattive abitudini, però non “riduce il gap” come promesso dalla ministra per il Sud Barbara Lezzi, ma, al contrario, rischia di aumentarlo. Ad aggravare la situazione per i pentastellati, c’è il fatto che, dopo Veneto e Lombardia anche altre Regioni del Centronord hanno chiesto di avere lo stesso trattamento:  Emilia Romagna, Liguria, Toscana, Marche e Umbria (in forma congiunta) e Piemonte.  In mezzo c’è una, sempre più in difficoltà, Erika Stefani, ministra per gli Affari Regionali, praticamente sparita dai radar già dall’indomani del giuramento. Leghista e veneta, si muove in tandem proprio col governatore. “Stiamo entrando nel vivo di una grande stagione riformista con le Regioni protagoniste di questo cambiamento. Per anni purtroppo si è cercato di omogeneizzare le realtà regionali italiane: una scelta politica che nei fatti ha danneggiato il Paese ampliando il gap tra le Regioni”, ha scritto pochissimi giorni fa in un saluto inviato alla presentazione di una ricerca del Censis , nella quale oltretutto si dimostra che proprio dove si spende di più i servizi sono più cari per i cittadini. 

La strategia delle singole intese

Nel corso di  affollate assemblee a porte chiuse con gli eletti del Carroccio, lunedì al Senato e martedì alla Camera, la ministra ha confermato tutte le difficoltà che sta attraversando: “Questa è una battaglia della Lega, è nel contratto di governo ma ci sono forti resistenze nel Movimento 5 stelle. Vorrebbero rinviare e, per questa ragione, c’è bisogno del contributo di tutti”. Il percorso è tutt’altro che lineare. Il partito di via Bellerio ha deciso di procedere con singole intese tra governo e Regioni a partire dal 22 ottobre,  quando ci dovrebbe essere il via libera del Consiglio dei ministri. Ogni intesa dovrà passare le forche caudine del Parlamento, dove gli esiti degli accordi arriveranno sotto forma di legge ordinaria. Niente legge delega, niente decreto. In tutti i recenti incontri, però, Erika Stefani si è mostrata ottimista. Con Confindustria veneta, storico bacino di voti leghista, epicentro del disagio per l’approvazione del decreto dignità, e poi ancora in giro per sezioni. Ieri, per esempio, a “Recoaro Terme e a Valdagno per fare il punto della situazione politica nazionale e soprattutto il punto sulla autonomia”, come ha scritto su Twitter.

Di Maio dice no, la Lega va avanti

Il fronte del Nord che contrasta i Cinquestelle a trazione meridionale si era già ritrovato sulla candidatura alle Olimpiadi invernali del 2026. Zaia e Fontana si sono messi in proprio, impegnandosi a trovare i soldi e hanno di fatto estromesso Chiara Appendino, sindaca di Torino. Lo Stato non metterà un euro”, ha tagliato corto Luigi Di Maio, indispettito per le “prove di autonomia” delle due Regioni e per l’umiliazione subita dalla sindaca a cinque stelle. Ma Zaia e Fontana, con l’endorsement decisivo del sindaco di Milano, Giuseppe Sala, hanno alle spalle società locali ansiose di recuperare la propria autonomia e disposte a investire sullo sviluppo. Diffidenti, al di là di tutto, nei confronti dello statalismo di ritorno del M5s e della pulsione assistenzialista che sembra caratterizzare il suo ruolo nel governo nazionale.