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Multe per chi declina le cariche al femminile: dopo la polemica, la Lega sconfessa il suo senatore e fa ritirare il testo

Con una nota Romeo bolla la pdl di Manfredi Potenti come una "sua iniziativa personale". Ma Valente (Pd) avverte: "Attenzione a non sottovalutare quanto accaduto"

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Manfredi Potenti durante un intervento al Senato
Manfredi Potenti durante un intervento al Senato

Multe da mille a 5mila euro per chi avesse trasgredito il divieto di declinare al femminile gli atti amministrivi relativamente alle cariche riferite a donne. Unsa norma per la quale il linguaggio inclusivo non deve trovare spazio istituzionale e che addirittura stabilisce sanzioni per i fan sfegatati della lingua italiana che applicano, con precisione, le regole grammaticali. Le polemiche non si sono fatte attendere e anche la Lega, il partito del firmatario della proposta, il leghista Manfredi Potenti, ha dovuto sconfessare il suo senatore, bollando l'atto come una "iniziativa personale".

E' una nota del capogruppo del Carroccio a palazzo Madama a posizionare un macigno sopra l'iniziativa. "I vertici del partito, a partire dal capogruppo al Senato Massimiliano Romeo, non condividono quanto riportato nel ddl Potenti il cui testo non rispecchia in alcun modo la linea della Lega che ne ha già chiesto il ritiro immediato”, hanno fatto sapere all’agenzia Ansa.

Cosa propone il testo

La proposta di legge, ancora in forma di bozza, intende vietare  negli atti pubblici "il genere femminile per neologismi applicati ai titoli istituzionali dello Stato, ai gradi militari, ai titoli professionali, alle onorificenze, ed agli incarichi individuati da atti aventi forza di legge". Il testo è ancora una bozza, ma si legge: "La presente legge intende preservare l’integrità della lingua italiana ed in particolare, evitare l’impropria modificazione dei titoli pubblici, come ‘Sindaco’, ‘Prefetto’, ‘Questore’, ‘Avvocato’ dai tentativi ‘simbolici’ di adattarne la loro definizione alle diverse sensibilità del tempo". Quindi alt alla declinazione al femminile, qualora la carica o la professione sia riferita a una donna, a costo di una salatissima multa, prevista dall'articolo 5 del testo. 

Per Valeria Valente del Pd, che esprime in una nota la sua soddisfazione, non si è trattato però di un gesto dal sen fuggito ma "un fatto grave" e non "un’iniziativa ridicola o antistorica". E spiega che "pensare che la declinazione femminile di nomi istituzionali o professionali corrompa la lingua italiana e per questo prevedere anche multe salate, rivela un pensiero ben preciso: e cioè che le donne nella vita pubblica siano un orpello da cancellare e che il sistema, maschile e maschilista, sia il punto di riferimento per tutti, il neutro della soggettività maschile che tutto ingloba. Questa destra crede nel modello patriarcale di società e lo dimostra di continuo: sull’aborto, sull’occupazione femminile, sulla famiglia. Non abbassiamo la guardia”.

"Questa volta la propaganda è andata male, ma resta la natura retrograda e discriminatoria sul ruolo delle donne, sia in ambito pubblico che professionale - dice Aurora Floridia di Avs -. La parità di genere dovrebbe essere al centro delle politiche pubbliche e, aver pensato a una simile vergognosa proposta significa comunque voler attaccare direttamente i diritti delle donne e la loro legittima rappresentazione". La senatrice ricorda ancora che le 76 senatrici e senatori che hanno firmato l'appello a La Russa per essere "interpellate con il genere di appartenenza" aspetta ancora una risposta. 

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