Pronti? Si vota! Elezioni anticipate a settembre. Ma per i partiti sarà un bagno di sangue
Durante la Repubblica italiana le elezioni politiche non si sono mai tenute in autunno. Per trovare un precedente occorre tornare al Regno sabaudo e al voto del 1919,
E dunque, si vota il 25 settembre. Un record. Durante la Repubblica italiana le elezioni politiche non si sono mai tenute in autunno. Per trovare un precedente, ma in tutta la storia d'Italia, occorre tornare al Regno sabaudo e al voto delle elezioni politiche del 1919, vinte poi da socialisti e cattolici, coi liberali nel mezzo. Le prime elezioni dopo il conflitto mondiale, l’esordio del suffragio universale maschile e anche il primo voto a prevedere come obbligatori i contrassegni sulla scheda, anche grazie all'introduzione del sistema elettorale proporzionale con scrutinio di lista (ma collegi). Allora le elezioni si tennero il 16 novembre, comunque autunno inoltrato. Ma mai in passato si è mai votato prima del 22 ottobre (solo nel 1865).
Ma, per i partiti, come per il Paese, sarà un vero ‘bagno di sangue’. Campagna elettorale, e non solo quella, sotto l’ombrellone, tra caldo torrido e afa asfissiante. Mattarella – stupito, amareggiato, indignato, sia pur senza poterlo dire o anche solo far trasparire – nel mettere (tutti) i partiti davanti alle (tutte loro) responsabilità per aver scatenato una folle, assurda, incomprensibile, crisi di governo (perché non è che la crisi è solo colpa: a) dei 5Stelle, i primi ad averla innescata; b) di Lega e FI che hanno tirato un rigore a porta vuota; c) di Draghi che, prima ancora del fischio sul calcio di rigore, era andato via dalla porta che doveva presidiare, indignato e sdegnoso, come se stesse giocando non a calcio, sport virile, ma a golf, tic-toc-tac), li ha anche rosolati a fuoco lento. Ha imposto loro, cioè, grazie a una ‘scusa’ potentissima, di piena legittimità costituzionale, una corazza di ferro (bisogna correre, verso il voto, perché altrimenti, entro la fine dell’anno, non si riesce a scrivere, discutere, far approvare e varare la manovra economica, detta Finanziaria o legge di Bilancio), una corsa contro il tempo, in vista delle elezioni, da far tremare le vene nei polsi. Come è accaduto. E come, quando si votò in autunno, nel 1919, non era obbligatorio fare, cioè chiudere la Finanziaria entro il 31 dicembre.
TUTTE LE TEMPISTICHE ‘ELETTORALI’
Certo, la data di convocazione delle urne, tra i 60 e i 70 giorni dallo scioglimento delle Camere, è determinata da precisi paletti indicati in parte nella Costituzione e in parte in leggi ordinarie. "Le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti" recita l'articolo 61 della Costituzione. In caso di scioglimento anticipato, stabilisce l'articolo 88 primo comma della Carta, il Capo dello Stato deve sentire prima i presidenti dei due rami del Parlamento, cosa che Mattarella ha fatto ieri pomeriggio. E' dunque dalla data di scioglimento da parte del Quirinale (Decreto presidenziale controfirmato dal presidente del Consiglio) che Palazzo Chigi deve calcolare i 70 giorni come limite massimo per le urne (decreto del cdm, controfirmato dal Presidente della Repubblica), come spiega, con dovizia di esempi, in questo caso nelle vesti di preciso professore di diritto costituzionale e non di deputato Stefano Ceccanti, un faro per tutti (cronisti, parlamentari, commentatori), in queste giornate buie e difficili.
Il limite minimo per “l’indizione dei comizi elettorali” è stato fissato, però, non più a 45 giorni, come è stato per decenni, in caso di elezioni (ordinarie o anticipate che fossero), ma a 60 giorni almeno da una legge di attuazione (Dpr 104 del 2003) della cd. “riforma Tremaglia” che attribuiva dei seggi in Parlamento agli italiani residenti all'estero. Infatti, tutte le procedure per la presentazione delle liste, la stampa delle schede elettorali per le cinque circoscrizioni Estere, sono materialmente impossibile sotto questo timing.
L’ELECTION DAY BEACH DEI PARTITI…
Con lo scioglimento fissato a partire da ieri sera, le date possibili erano una domenica tra il 19 settembre e il 29 settembre, è ‘uscito’ – sulla ruota della ‘Sfortuna’ (per i partiti) il 25.... Solo se Mattarella avesse fatto come Scalfaro, che nel 1994 attese quattro giorni tra le dimissioni del premier Ciampi (13 gennaio) e lo scioglimento (16 gennaio), si poteva includere il 2 ottobre.
Ma, in ogni caso, pur con questa data, sarà una folle corsa contro il tempo in piena estate ‘aggravata’ dal fatto che, fosse stato per il Colle, si votava anche prima (il 18 settembre…) e che, solo per un soffio legato alla ‘legge Tremaglia’, che impone 60 giorni di tempo per le citate operazioni di voto per gli italiani all’estero, non si sarebbe potuto rispettare quel lasso temporale.
Come scrive lo studioso di simboli e partiti, Gabriele Maestri, sul suo blog personale, “I simboli della discordia” (un blog accuratissimo, analitico, tutto da seguire per i malati di Politica), “la rappresentazione plastica di #ViminaleBeach è data dalle scadenze. Voto il 2 ottobre: deposito simboli 19-21 agosto, candidature 28-29 agosto. Voto il 25 settembre: deposito simboli 12-14 agosto, candidature 21-22 agosto. Voto il 18 settembre: deposito simboli 5-7 agosto; candidature 14-15 agosto”. Il Quirinale, facendo votare il Paese il 18 settembre, avrebbe ‘ammazzato’ sul nascere la campagna elettorale, ma anche così non l’aiuta di molto. Candidature e liste (molto più dei simboli elettorali, che vengono presentati in tantissimi, i più variopinti, vengono citati un giorno e poi la cosa finisce lì: passare lo sbarramento al 3% è impresa ardua…) sono il vero ‘scannatoio’ dentro e tra i partiti.
COME FUNZIONA IL ROSATELLUM
Dentro per accaparrarsi le posizioni migliori in lista (capolista bloccati, collegi presunti ‘sicuri’) e fuori per la necessità di contrattare, dentro una coalizione (ricordiamo che il Rosatellum prevede lo sbarramento di coalizione al 10%, lista al 3%), i collegi uninominali maggioritari da dividere in tre fasce: collegi ‘sicuri’, ‘incerti’, ‘perdenti’. A quale partito ne vanno tanti, e quale altro meno, chi viene candidato dove diventa assai decisivo.
Si ricordi che il Rosatellum è una legge elettorale mix tra parte proporzionale (2/3 di collegi plurinominali proporzionali, il 61%) e parte maggioritaria (un terzo di collegi uninominali maggioritari dove vince chi prende un voto in più per il 37% dei seggi) con 2% di seggi dell’Estero che vengono assegnati con metodo proporzionale. Un mix micidiale, il Rosatellum, che può determinare la vittoria o la sconfitta di una coalizione larghissima, o per un pugno di voti, che si trasformano in seggi grazie alla spinta ‘polarizzante’ insita nella legge detta Rosatellum (perché scritta dall’allora capogruppo del Pd alla Camera, Ettore Rosato, oggi n. 2 di Renzi in Iv). Spinta ‘polarizzante’ che deriva da tre fattori: 1) la presenza dei collegi maggioritari uninominali all’inglese, secondo la logica del ‘first past all’ (il primo prende tutto); 2) la soglia di sbarramento al 3% per simboli-liste singole-partiti che comunque è difficile da superare per tre ordini di motivi (il sistema polarizza e bipolarizza, i collegi sono grandi e i voti si prendono solo nel proporzionale) e i cui voti vengono redistribuiti ai partiti più grandi se, stando in coalizione, stanno tra l’1% e il 3% dei suffragi e vengono ‘buttati’, cioè non contabilizzati se finiscono sotto la soglia dell’1%. Un altro effetto polarizzante del sistema elettorale che spinge sempre più in su, dando loro più seggi, i grandi partiti e penalizza molto quelli più piccoli per tacere dell’effetto derivante dal taglio del numero dei parlamentari (da 945 a 600: 400 deputati e 200 senatori) che ‘allarga’, a dismisura, i collegi (in 4 regioni – Friuli, Basilicata, Abruzzo e Molise – viene eletto soltanto un senatore…) e che rende molto più difficile conquistarli per chi, come il centrosinistra, non gode di un voto omogeneo nelle marco-aree del Paese, ma confinato e forte solo nelle regioni rosse, mentre il centrodestra lo ha (e lo aveva l’M5s al Sud, alle Politiche del 2018, con l’exploit del suo 33%) e i centristi non si capisce in quali zone possano ‘pescare’ voti per trasformarli in seggi, tranne che, ovviamente, nella parte del proporzionale. E se è vero che il Rosatellum ha fallito la sua prima prova, nel 2018 (la legge fu varata nel 2018 e vede, oltre ai collegi, listini corti tutti ‘bloccati’, cioè senza la possibilità di esprimere preferenze), perché ne uscì una tripartizione di liste/coalizioni (centrodestra, centrosinistra, M5s) e, dunque, la famosa descrizione dei due ‘non’ (vincitori), Salvini e Di Maio, l’effetto tri-polarizzante potrebbe ripetersi, ma più probabilmente ‘non’ ripetersi, a queste elezioni, o soltanto se i centristi riusciranno a mettere insieme un vero ‘terzo polo’ realmente competitivo con gli altri due attuali.
LA ‘GABOLA’ SULLA RACCOLTA FIRME
In ogni caso, il problema, e il guaio, anche per i partiti che si presentano ‘in Italia’ le procedure di presentazione delle liste e la raccolta delle firme sono laboriose, e creano patemi, liti e scontri: infatti, fino a oggi compreso non si è mai scesi sotto i 63 giorni dallo scioglimento delle Camere.
Ma se, per i partiti privi di gruppi parlamentari nelle due Camere, la raccolta delle firme è necessaria, e sarà un vero incubo, per quelli che hanno gruppi parlamentari, invece, la raccolta delle firme non è necessaria. Ma solo se sono ‘nati’, i gruppi, entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello del voto: quindi Iv e altri sono ‘salvi’. Come pure i partiti che hanno preso tra l’1% e il 3% alle precedenti elezioni: +Europa, ma NON Calenda, Cd di Tabacci, etc.
Insomma, come spiega sempre il bravo Maestri, “il problema della raccolta delle firme non tocca coloro che hanno una rappresentanza qualificata in Parlamento” (in base a una norma inserita in un provvidenziale e preveggente, stile Nostradamus, “decreto elezioni”, legge di conversione di un dl), in seguito all'emendamento Magi-Costa (due che molti partiti presto o tardi faranno ‘santi’…) riformulato dalla commissione. Si tratta di M5S, Pd, Lega, Fi e FdI, già esentate in base alle norme precedenti, nonché di Leu, Italia viva, Coraggio Italia, Noi con l'Italia, +Europa, forse Psi e Udc, Udc), sarebbero costrette alla raccolta firme sotto il solleone tutte le altre forze politiche, comprese quelle presenti oggi in Parlamento (a partire da Alternativa, ItalExit, con Gianluigi Paragone che aveva gridato alla "porcatina" in Senato, e Insieme per il futuro, qualunque nome prenderà il progetto legato a Luigi Di Maio, etc.). Si devono poi contare anche le altre forze che avevano partecipato alle elezioni nel 2018, ma hanno avuto solo in seguito rappresentanza e visibilità parlamentare, come Potere al Popolo!, Prc, il Partito comunista di Rizzo, Italia dei valori, Idea-Cambiamo!, Vinci Italia, etc. etc. etc. e tutte quelle che stanno nascendo in queste settimane dentro e fuori dalle Camere. Se, poi, una lista non esentata volesse entrare in coalizione con almeno una lista esonerata, avrebbe l'ulteriore handicap di dover attendere (oltre che la formalizzazione della coalizione) la scelta dei candidati comuni nei collegi uninominali da indicare sui moduli per la raccolta firme, potendo contare su un tempo ridottissimo per quell'adempimento fondamentale e rischiando – se non gli piacciono i nomi della lista che il coltello dalla parte del manico – di restare fuori…
Bagatelle e formalismi di cui è fatta la Politica, soprattutto i Palazzi, e che, però, possono fare la fortuna o sfortuna di carriere di leader e partiti, gruppi e coalizioni, seggi, prestigio, quattrini…
LA SECONDA REPUBBLICA E’ MORTA. E’ TEMPO CHE NASCA LA TERZA?
Tornando, invece, alla questione politica di base, come dice Maurizio Lupi, leader di una formazione pulviscolo che milita nei centrodestra, Noi con l’Italia (in pratica, sono i centristi di Cl, diversi dall’Udc, da Toti, etc. etc. etc.), “Non è morto nessuno. Bisogna avere rispetto per la democrazia, a ottobre avremo le nuove Camere”.
Non si capisce bene, in effetti, se, ieri, è morta la Seconda Repubblica e ne nascerà davvero una Terza. La ‘Seconda’ – per convenzione politica e politologica, non certo per diritto costituzionale, che la Repubblica sempre una è, quella del 1948 – è quella nata nel 1994, dopo la ‘Grande slavina’ di Tangentopoli, Mani Pulite e il ‘biennio di sangue’ del 1992-1994, tra attentati e stragi di mafia, referendum elettorali, crisi dei partiti, con la vittoria del Cavaliere (‘nero’, per la sinistra…) Silvio Berlusconi. Il quale, oggi, è pronto a “riscendere in campo” (“ho già scritto un programma avveniristico”….), con tanto di videomessaggi già registrati e pronti ad andare in onda, gasatissimo, ma che, soprattutto, dice: “Non volevamo far cadere Draghi, ma si è reso indisponibile a un bis. Forse era stanco e ha colto la palla al balzo per andarsene. Adesso siamo già al lavoro per un nuovo governo di centrodestra”.
Sta, dunque, per nascere la Terza, di Repubblica? Nel caso, ove mai fosse, sarà guidata da un governo e una maggioranza che, se sono veri i sondaggi, sarà nera-verde-azzurra (con l’azzurro che sarà sbiadito assai, però). Cioè, in buona sostanza, un governo di destra-destra con Meloni premier (ma Berlusconi nega recisamente: “decideremo insieme le regole di ingaggio e il nome del premier”), Salvini agli Interni, etc, pure se non con “Pippo e Pluto” a Mef, Esteri e Difesa, giura il vero spin doctor di FdI, Guido Crosetto. Magari “litigheranno dopo tre mesi e si sfascerà entro un anno, il loro governo” giurano i centristi, ma se durano, invece, cambiano volto all’Italia.
GLI ABBANDONI: VIA DA FORZA ITALIA
Lo teme l’area ‘governista’ di Forza Italia, con i tre ministri azzurri che, in appena due giorni, sono usciti da FI in blocco e rapida successione perché diventati leali a Draghi, e non al Cav: prima la Gelmini, poi Brunetta, infine Carfagna. Pochi i parlamentari che, a ora, se ne sono andati (uno, il senatore Andrea Cangini), magari altri ne arriveranno, ma insomma, come sghignazzano i leghisti (e i berluscones) “la Gelmini non più ha truppe, neppure in Lombardia, Brunetta è da solo, la Carfagna ha qualcosa al Sud, ma poca roba”. Si vedrà. I sondaggi sono una cosa, i voti sono altro. Bisogna raccogliere le firme, prima, e poi andarli a cercare casa per casa, nei famosi ‘territori’. Sempre citati, dai partiti, mai davvero perlustrati.
I CENTRISTI E “L’AGENDA DRAGHI”
I centristi, variamente intesi, saranno in grado di farlo? Di vincere una sfida che, prima ancora che per “salvare il Paese”, è per la sopravvivenza? Per ora, sono troppi i galli, a cantare, nello stesso ‘pollaio’. Calenda (Azione) non vuole nulla avere a che fare con Di Maio (Ipf) e, soprattutto, Renzi (Iv), e presentarsi da solo con Bonino (+Europa). Poi ci sarebbe Giovanni Toti, che al suo gruppo (prima Cambiamo!, poi Coraggio Italia, ora Vincere Italia, domani magari sarà Indietro Italia) ha cambiato nome un numero infinito di volte e che, ora, una volta rotto per sempre con il Cav (Toti iniziò la sua carriera, e fortuna, a Mediaset, il Cav se ne innamorò, lo lanciò in Politica, ora lo vorrebbe incenerire, presto la sua giunta cadrà perché Lega e FI non vorranno tenerla in piedi), vorrebbe essere, a sua volta, della partita. Ma Toti con il Pd non ci vuole, né può, andare. Con Di Maio neppure. Con Renzi, forse. E Calenda? Boh.
Ma dentro Iv sono convinti che “Carlo ragionerà, capirà che dobbiamo unire le forze tutti insieme”. Dentro Ipf, un colonnello di Di Maio (Battelli), invece, è molto scettico: “Calendo andrà da solo. La nostra unica chanche è allearci con il Pd”. Sempre che, si capisce, il Pd molli i 5S e Conte (e, fin qua, ci siamo), ‘ma anche’ la Izquierda (Speranza-Fratoianni) e questo è già più difficile. Per Renzi, come per Calenda, è una conditio sine qua non. Per Di Maio, invece, si può ragionare. In ogni caso, i centristi – in coalizione con il Pd o da soli, con una congerie di simboli o uno unico – sbandiereranno “l’agenda Draghi”, nella speranza (neppure recondita, ma anzi, del tutto esplicitata) che “il premier dia un segno, ci benedica, venga a una nostra manifestazione, firmi i nostri appelli”. Ma Draghi, che resta in carica, pur se solo per “il disbrigo degli affari correnti” potrà mai farlo? Scendere, di fatto, in politica come fece Monti? Se ne dubita, ma il mattacchione Vittorio Sgarbi lo dice: “Nasce il partito di Draghi senza Draghi”.
BLOCCO PROGRESSISTA-‘ANTIFA’ O FRONTE REPUBBLICANO?
E, qui, entra in campo il Pd. Domanda dalle cento pistole: come coniugare “l’agenda Draghi”, di cui il Pd di Letta si ritiene il ‘primo cavaliere’ - al punto tale che c’è pure chi dice che Draghi stesso, in qualche forma, ne benedirà lo sforzo - con la necessità di tenere insieme il fronte progressista?
Una pezzo Pd, quello di Base riformista, ci crede (Guerini, dopo anni, è tornato a parlar con Renzi), ma la sinistra interna (area Orlando-Provenzano) non vuole, ancora spera nell’alleanza con Conte. Figurarsi la sinistra ‘esterna’, quella di Art. 1, ex LeU, di Bersani e Speranza, e quella rosso-verde di Fratoianni e Bonelli, che è pronta ‘solo’ a una campagna elettorale nel nome dei valori dei diritti (civili, sociali, etc.) e dell’antifascismo militante. Chi vincerà il braccio di ferro dentro i democrat? Un congresso non si può fare, è troppo tardi (è saltata pure la Festa nazionale dell’Unità, pare…) e anche se si faranno mille Direzioni e Assemblee una decisione va presa subito, ad horas. Con la sinistra o con i centristi? O, meglio ancora, con entrambi? “Non ci faremo dettare o fare l’Opa dai moderati e centristi come da nessun altro!” dice, fiera e battagliera, una (ex-ex-ex) azzurra liberal (stava in FI, poi in Ncd, poi in Civica e Popolare), Beatrice Lorenzin, oggi diventata deputata dem (e, anche questi, sono i corsi e ricorsi storici…).
I CINQUE STELLE NON ESISTONO PIU’
Resterebbe da dire del 5s, ma di fatto non c’è più. Nel 2018, quando la XVIII legislatura – quella che ora volge al termine in via anticipata – era nata, si era parlato di Terza Repubblica, causa il oro exploit. Il Movimento che, allora, doveva dare il suo imprinting alla Politica italiana (“Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno!”, risposta epica della Meloni: “Sì, ma il tonno siete diventati voi!”) e che, ora, è ridotto ai minimi termini tra scissioni continue (l’ultima, quella di Di Maio, ma altre ne seguiranno: ieri la deputata Soave – sic – Alemanno è passata in Iv), inutili assemblee fiume, patetici ripensamenti (“Volevamo passare all’appoggio esterno…”, racconta ora Conte, come un pugile suonato che ‘frigna’ contro quei ‘cattivoni’ di Lega-FI, ma pure di Ipf-Iv che “ci volevano fuori dal governo” come se fossero tanti ‘Franti’ e lui il libro Cuore) e un triste destino: andare alle elezioni da soli, raccattare un pugno di parlamentari e farsi guidare, dai banchi dell’opposizione, dall’unico, vero, descamisados utile all’uopo, Ale ‘Dibba’.
La Terza Repubblica? Sarà peggio della Seconda e, di sicuro, della Prima, da rivalutare tutta intera.