[L’analisi] Le promesse da sogno di Lega e Cinque Stelle strozzate dalla ripresina svanita. Ed è scontro interno
Investitori in fuga, spread sotto pressione, banche alle strette, consumi in picchiata, fabbriche che rallentano, posti di lavoro sempre più volatili. La differenza di rendimento fra il Btp italiano e il Bund tedesco – ovvero lo spread – a quota 250 è, oggi, quasi il doppio del livello pre elettorale, ma lontano dalla soglia di guardia a 300. Tocca scegliere, ma può accettare la Lega che il feticcio elettorale dei suoi concorrenti (i 5Stelle) diventi realtà, mentre la flat tax resta al palo? E possono accettare i grillini una flat tax in larga parte finanziata da un condono una tantum?
La ripresina si è sgonfiata. E, allora, se prima si trattava di fare un esercizio di equilibrismo su una tavola, poi su un asse, adesso si cammina su un filo. Il governo giallo verde si avvia alla prova decisiva della manovra d’autunno in un panorama sempre più cupo e minaccioso, dove le strettoie dell’economia si traducono inevitabilmente in contorsioni della politica. Il problema sono i numeri, le previsioni, le compatibilità. Gli indicatori che li registrano segnalano nuvoloni che si stanno accumulando dalla primavera. Gli ottimisti possono scommettere su una improvvisa schiarita e una tempesta che non scoppia. Realisticamente, però, 5Stelle e Lega si trovano ad affrontare condizioni più difficili di quelle che avevano di fronte i loro predecessori, da Letta, a Renzi, a Gentiloni. Il programma di governo più ambizioso (o velleitario, secondo i punti di vista) degli ultimi anni si scontra con lo scenario più accidentato. Gli ostacoli sono venuti crescendo da maggio in avanti: investitori in fuga, spread sotto pressione, banche alle strette, consumi in picchiata, fabbriche che rallentano, posti di lavoro sempre più volatili.
La sbornia del ribaltone
La pessima primavera è solo in parte effetto del ribaltone elettorale di marzo. Da maggio ad agosto, leghisti e grillini, in un festival di spavalderia e pressappochismo, hanno inanellato dichiarazioni e minacce sulla permanenza nell’euro e il rispetto del debito che hanno spaventato i mercati: piazzare i titoli di Stato è diventato sempre più costoso per il Tesoro, Bot e Btp per un centinaio di miliardi di euro sono stati liquidati, venduti a banche nostrane e incassati all’estero. Contemporaneamente, le oscillazioni dei nuovi responsabili del paese su Tap, Tav, Ilva, autostrade hanno indotto investitori di lungo periodo a dubitare che i governi italiani rispettino gli impegni sottoscritti dai loro predecessori, mettendo in forse contratti ed accordi. Una crisi di fiducia, tuttavia, si può risolvere con iniezioni di fiducia. I danni creati dalle parole possono essere sanati da altre parole. E, infatti, la ritrovata sobrietà dei leader dei due partiti di governo, le rassicurazioni giunte dal Tesoro sulla futura manovra hanno rasserenato il clima sui mercati finanziari. La differenza di rendimento fra il Btp italiano e il Bund tedesco – ovvero lo spread – a quota 250 è, oggi, quasi il doppio del livello preelettorale, ma lontano dalla soglia di guardia a 300.
L’orizzonte dell’economia si oscura
Più difficile è cavarsela quando è il terreno dell’economia materiale, dove i fatti contano più delle parole, a farsi infido e scivoloso. Qui, il nuovo governo non c’entra e, del resto, in larga misura neanche il precedente. Pesano di più, sul momento, le incertezze create dalle offensive commerciali di Trump e le battute a vuoto di due grandi motori dell’economia mondiale, come Germania e Cina. Così, grillini e leghisti si trovano a maneggiare una eredità avvelenata, che può impiombare i loro progetti. Il succo è: la ripresa italiana è alle spalle, difficile contare su una espansione di redditi, consumi, investimenti. A luglio, la produzione industriale è scesa dell’1,8 per cento, rispetto a giugno. Dell’1,3 per cento rispetto ad un anno fa. E’ la prima volta in due anni, da quando era iniziata la ripresa italiana, che compare il segno meno sull’attività delle fabbriche. Era logico aspettarselo: l’industria italiana è molto legata alle esportazioni e il commercio mondiale questa primavera si è fermato. I G20 (le venti economie più importanti a livello globale) hanno registrato un calo dello 0,6 per cento delle loro esportazioni e dello 0,9 per cento delle importazioni. La Germania, ancora più legata di noi alle esportazioni, ha ugualmente visto una flessione dell1,8 per cento della produzione industriale e, considerato quanto l’industria italiana sia integrata con quella tedesca, la flessione è rimbalzata in Italia. L’alternativa – la domanda interna – va anche peggio: il governo gialloverde si è insediato quando le vendite al dettaglio si sfiatavano: meno 0,2 per cento (in quantità) a luglio su giugno, meno 0,6 per cento rispetto ad un anno fa. Lo zoccolo duro – i consumi in beni durevoli: auto, elettrodomestici, pc – è addirittura precipitato: meno 7,2 per cento rispetto al 2017. Difficile che sia diversamente, del resto, quando le buste paga ballano. L’Italia ha finalmente riacciuffato il numero complessivo di posti di lavoro che esistevano prima della crisi, nel 2008. Ma la crescita di 205 mila occupati è ingannevole. Non sono gli stessi posti di lavoro: come avvenuto in altri paesi, dalle fabbriche e dagli uffici i posti sono trasmigrati negli alberghi, nei ristoranti, nel commercio, assai più volatili. I primi due mesi d’estate hanno visto svanire 44 mila posti di lavoro fissi. Ormai, un terzo dei lavoratori ha un’occupazione part-time o temporanea: non la piattaforma ideale per cambiare l’auto o la lavapiatti.
Remare controcorrente
A questo punto, negli uffici studi dove lavorano gli economisti ci si comincia a chiedere: è ancora valida la previsione di una economia che si espande, l’anno prossimo, dell’1,1 per cento? I tecnici dell’Ocse, l’organizzazione che riunisce i paesi più ricchi, elaborano regolarmente degli indicatori che suggeriscono come andrà l’economia fra sei mesi. E’ calma piatta nella zona euro e, specificamente per l’Italia, il ritorno al trend deludente e asfittico degli ultimi vent’anni. La conferma che anche la debole ripresina del 2017 è definitivamente archiviata. Di Maio, Salvini e Tria si trovano, dunque, a remare controcorrente: varare riforme costose con risorse che diminuiscono. Se, per evitare lo scontro con la Ue, il disavanzo verrà fermato all’1,6 per cento del Pil (come vorrebbe il Tesoro) vuol dire avere in mano una cambiale solo da 23 miliardi di euro. Quanto basta per sventare l’aumento dell’Iva su consumi già in picchiata, pagare gli interessi sul debito e finanziare le spese indifferibili. E basta. Il resto diventa una sorta di mischia rugbistica. Con l’economia in frenata, altri soldi non arriveranno. Bisogna trovarli tagliando da qualche altra parte. Spalmare gli interventi su più anni, accontentandosi, per ora, di predisporre primi, ma significativi, passi potrebbe non essere più praticabile. Tocca scegliere e può essere (politicamente) doloroso. A guardare i conti, se si abroga il bonus degli 80 euro di Renzi, i soldi per il reddito di cittadinanza si possono trovare. Ma può accettare la Lega che il feticcio elettorale dei suoi concorrenti (i 5Stelle) diventi realtà, mentre la flat tax resta al palo? E possono accettare i grillini una flat tax in larga parte finanziata da un condono una tantum? Il copione di settembre è ancora da scrivere.