[Il ritratto] Il precipizio del rottamatore. Dalla ruota della fortuna a padrone del Paese. Ascesa e caduta di un leader troppo veloce
A soli 39 anni e un mese, è il presidente del Consiglio più giovane della nostra storia, classificato dalla rivista americana Fortune come la terza persona con meno di 40 anni più influente nel mondo. Nessuno come lui è arrivato in alto così in fretta e così in fretta è crollato. La sua non è solo la storia paradigmatica di un’illusione, ma quella ancora più profonda di un leader che non ha saputo leggere il vento che tirava, lo stesso vento che lo aveva spinto ad un’ascesa che pareva irresistibile, perché che cos’era se non una forma di sbrigativo populismo giovanilista quella richiesta di rottamazione a prescindere, fondata quasi esclusivamente sulla carta d’identità più che su concreti giudizi di merito?
L’ultimo Renzi che riempie il terzo piano del Nazareno è così diverso, così perdente, nel suo amaro e stentato sorriso, da lasciare quasi un senso di straniamento ad ascoltarlo. Ammette la sconfitta, annuncia le sue dimissioni, ma sembra un pugile sbattuto a terra che rivendica con orgoglio il suo coraggio, come se potesse servire a qualcosa, a cancellare tutte le botte prese. Alle sei e mezzo della sera, Matteo Renzi lascia la segreteria del pd, vincolando però il partito alle primarie per scegliere il suo successore, in modo da impedirgli, adesso, qualsiasi appoggio esterno o alleanze di sorta con i vincitori delle elezioni. «Cosa farò io?», chiede retoricamente a se stesso. Alessandro Di Battista l’ha liquidato con una battuta feroce: «A 43 anni è già un ex». Lui dice che si riparte dal basso, «farò una cosa che amo, il senatore semplice di Firenze Scandicci, un umile militante del partito, come dovremmo esserlo tutti». Ma per ora decide ancora lui, «e non faremo mai accordi con gli estremisti». Sorride stanco. Rivendica la dignità della sconfitta. Con questo discorso d’addio sembra voler trascinare con sé tutto il partito, nella polvere, assieme a lui.
Sullo sfondo di questo precipizio non c’è una storia banale
Nessuno come lui è arrivato in alto così in fretta e così in fretta è crollato. La sua alla fine non è solo la storia paradigmatica di un’illusione, ma quella ancora più profonda di un leader che non ha saputo leggere il vento che tirava, lo stesso vento che lo aveva spinto ad un’ascesa che pareva irresistibile, perché che cos’era se non una forma di sbrigativo populismo giovanilista quella richiesta di rottamazione a prescindere, fondata quasi esclusivamente sulla carta d’identità più che su concreti giudizi di merito? Eppure, dalla Ruota della Fortuna a 19 anni, cinque puntate e 48 milioni e 300mila lire vinti, Matteo Renzi aveva bruciato le tappe. Presidente della Provincia di Firenze a 29 anni, sindaco a 34, «il ragazzo», come veniva chiamato con paternalistica sufficienza dai maggiorenti del partito, era così sicuro di sè da garantire già, ai blocchi di partenza, che «se perdo, torno a lavorare». Quando aveva vinto a Firenze, aveva ereditato una città prostrata da anni di potere e di sottopotere gestito con i soliti intrecci decadenti, secondo il criterio dell’appartenenza a spese della competenza. Renzi rappresentò da subito la capacità di infrangere quella cupola di cristallo che da anni soffocava Firenze. E se vogliamo essere onesti, dobbiamo riconoscere che il sindaco l’aveva fatto bene, soprattutto se paragonato al grigio personaggio di apparato che l’aveva preceduto, Leonardo Domenici, e a quello che ha preso il suo posto, il deludentissimo Dario Nardella. Lui aveva chiuso il centro storico al traffico, aveva ripulito San Lorenzo e Santa Maria Novella, aveva abbellito la città e messo a posto i conti, sistemando i disastrati bilanci delle partecipate comunali.
Ma poi l’ha fregato l’ambizione
Firenze gli stava stretta. Ha corso per la cattedra da segretario di partito, prima battuto e poi vincitore. Il suo rivale storico, Massimo D’Alema, aveva già capito tutto nel 2012: «Se si va sulla strada di Renzi, si va al disastro politico». Ma lui allora aveva il vento in poppa. Un tipo veloce e molto sicuro di sé. La sua compagna di banco alle elementari, Federica Morandi, diceva che «era il più sveglio di tutti già da bambino». E il suo ex capo scout, Roberto Conciacih, gli prevedeva una luminosa carriera ancora prima che cominciasse: «Matteo ha doti da leader. Lo vedremo crescere», aveva annotato in una sua relazione sui giovani scout. Non c’era uno che ne parlasse male, e il suo vecchio parroco, Giovanni Sassolini, ricordava che era molto devoto, ma, soprattutto, «era uno che spiegava a tutti cosa dovevano fare e come lo dovevano fare. Era un piccolo manager, ci era nato così».
L'ascesa
Sì, è vero, lo chiamavano anche MatTeoria, negli scout, con l’arguzia dei fiorentini, perché si erano accorti che era molto bravo a dare disposizioni agli altri e a fare eseguire i compiti da loro, ma che si guardava bene dallo sporcarsi le mani. Però, i capi sono fatti così. Con il vento in poppa, diventa sindaco e promuove la Leopolda, lanciando l’idea della rottamazione con Giuseppe Civati. Nel 1994, ad appena 19 anni, aveva già aderito a un comitato che sosteneva Romano Prodi. Aveva la carte in regola. Piacione e rassicurante, troppo esposto mediaticamente secondo i suoi detrattori e gran comunicatore per i suoi amici, sembrava comunque l’unico a sinistra ad avere molte delle doti di Berlusconi, con le sue frasi spot e i cliché giusti per un titolo. «E’ il sindaco che la destra ci invidia», dicono. Solo che lui non vuole più farlo, il sindaco. E’ un forsennato lavoratore, capace di fare cento cose in un giorno solo, non tutte benissimo, però. Ed è abbastanza egoriferito da non accorgersi di divorare il suo tempo oltre la velocità consentita. Nel 2013 è eletto segretario pd con il 67,5 per cento dei voti. E continua a correre sempre più forte. Dice: «Enrico non si fida me, ma sbaglia. Io sono un leale». E poi: «Voglio cambiare l’Italia, non il governo». Come non detto. Ci mette due mesi e il 20 febbraio del 2014 nasce il Governo Renzi. A soli 39 anni e un mese, è il presidente del Consiglio più giovane della nostra storia, classificato dalla rivista americana Fortune come la terza persona con meno di 40 anni più influente nel mondo.
Ed è questo il suo errore
Ci crede. Dice: «In politica chi ha paura perde». Ma anche chi non capisce. Stravince le europee e non si rende conto che quelle da sempre sono elezioni ingannevoli, che non rispecchiano il vero sentimento popolare. Comincia a essere sconnesso dalla gente, «convinto che si possa forzare clintonianamente a proprio piacimento il pensiero di tutti» (finanzaoniline.com). E invece comincia a compattare contro di sé un consenso impressionante. Non c’è più solo D’Alema che brinda alla sua sconfitta del referendum, altra tappa fondamentale nella svolta verso il precipizio, quando è così sicuro di sé da trasformare quel giudizio in un voto personale. Nell’immaginario popolare ha sostituito Berlusconi nella polarità, amore e odio, ma non dispone delle truppe cammellate del Cavaliere e della sua capacità di aggregazione. E’ molto più divisivo di Silvio. Andrea Scanzi lo deride: «E’ un cocktail in cui sono shakerati un terzo di Berlusconi, un terzo del peggior Craxi e un terzo di Jerry Calà». Il fu giovane Renzi, come lo definisce sarcasticamente Beppe Grillo, continua a tirare diritto: «Bisogna sudare e combattere, essere pronti a rimettersi in gioco». Ma ormai anche i grandi giornali che l’avevano accolto con una consistente dose di fiducia, gli hanno voltato le spalle. Ezio Mauro è un suo nemico dichiarato. E Ferruccio De Bortoli ancora di più: «Del giovane caudillo Renzi che dire? Un maleducato di talento. Disprezza le istituzioni e mal sopporta le critiche». E’ vero che Corriere e Repubblica cambiano direttori, ma De Bortoli e Mauro sono opinion maker che contano. E persino Berlusconi che lo ha sempre elogiato in pubblico e in privato («è l’unico mio erede», «ha fatto fuori più comunisti lui che io in vent’anni»), comincia a prenderne le distanze: «Lo vedo in difficoltà. Può uscirne, ma deve capire che in politica non baata essere brillanti, occorre avere delle idee e dei valori nei quali credere con forza».
Non è un epitaffio, ma quasi
«La politica deve essere conquista, deve essere senza rete», dice Renzi. Ha sempre creduto nel potere dell’ottimismo. Però ci sono momenti che il vento spazza via tutto. Forse, i suoi detrattori che lo accusavano di essere troppo superficiale, qualche ragione ce l’avevano. Lui ha sbagliato i tempi. E i tempi in politica non sono un aspetto marginale. Sono la cosa più importante che c’è. Prima, ha sbagliato a far fuori troppo in fretta Staisereno Letta, quando avrebbe dovuto aspettare dal suo scranno di segretario e sulla sua comoda poltrona di sindaco. Poi ha sbagliato di nuovo a non andare alle elezioni subito dopo il referendum. Allora non avrebbe perso come oggi, prima dell’ennesimo pasticcio sui vitalizi che ha completamente screditato l’attuale classe politica. Un solo uomo conosciamo nella storia recente che si è alzato dalla polvere, dopo una sconfitta persino più disastrosa, ancora più forte di prima: Winston Churchill. Ma francamente non riusciamo a pensare che Matteo Renzi abbia la stessa tempra e la stessa statura. Churchill, poi, aveva una cosa in più che lui non ha. Era come la sua gente. Un combattente. Sapeva benissimo quello che poteva chiedergli. Perché era come loro. Ma Renzi li ha davvero capiti i suoi elettori?