Pochi sanno cosa sia ma il Pnacc torna di attualità: due macigni per Pd e Movimento 5 Stelle
Senza Salvini, il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici insabbiato nel 2018, sarà una priorità. C’è in ballo il nostro Pil

Si chiama Pnacc e pochi ricordano cosa sia. Ma, adesso che Salvini e lo scetticismo della Lega sono usciti di scena, per due partiti, come Pd e 5Stelle, che dell’ambiente fanno, invece, una priorità, il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici – una bozza di 400 pagine stesa nel 2017 e insabbiata dal cambio di governo del 2018 – torna di bruciante attualità.
Due i macigni
Chi negozia il programma del futuro governo non può, infatti, girare attorno a due macigni. Il primo è il dissesto idrogeologico: per il paese è un problema storico, ma il cambiamento climatico lo rende sempre più drammatico. Un quinto del territorio nazionale è sottoposto ad un processo di desertificazione che lo rende sempre più fragile e più esposto ad uno schema di precipitazioni, dove la pioggia assume, ormai sistematicamente, la forma di bombe d’acqua. Nella bozza del 2017 ci sono dei conti: l’impatto dei disastri ambientali non si limita agli effetti diretti (poi, infatti, bisogna risanare e ricostruire), ma zavorra a cascata l’economia intera del paese.
I disastri ambientali e il Pil
Nel 2050, l’effetto indiretto di quei disastri toglierebbe al Pil fra i 5 e gli 11 miliardi di euro, quasi una manovra di bilancio. Il secondo macigno è il riscaldamento specifico dell’Italia. Il 2018 è stato, per il paese, l’anno più caldo da quando si fanno le misurazioni. Come per il resto del mondo. Ma, a guardare le medie globali, si perde di vista quello che davvero succede all’Italia. La media globale dice che, rispetto all’epoca precedente alla rivoluzione industriale, il mondo si è riscaldato di 1 grado. L’Italia, invece, al centro del Mediterraneo, è più calda – registra il Cnr - di 2,3 gradi. Noi, insomma, il tetto dell’accordo di Parigi (restare sotto un aumento di 2 gradi nel 2100) l’abbiamo sfondato con 80 anni di anticipo.
I cambiamenti climatici interessano tutti
E’ la conferma che il cambiamento climatico non è un fenomeno confinato ai tropici e al terzo mondo, ma tocca tutti. L’idea che i paesi ricchi e freddi, alla fine, ci guadagnino, magari con inverni più miti, è un mito che viene smantellato da una ricerca appena pubblicata da università americane, inglesi, di Taiwan: “Effetti macroeconomici a lungo termine del cambiamento climatico, un’analisi paese per paese”. I ricercatori hanno studiato le variazioni che, soprattutto attraverso mutamenti della produttività, ci sarebbero nel Pil pro capite di 174 paesi, a seconda dell’aumento della temperatura nazionale di quello specifico paese. Il risultato è inequivocabile. Su 174 paesi, l’unico che, nel 2100, uscirebbe senza danni dal cambiamento climatico sono le Bahamas. Per tutti gli altri 173, se la temperatura, a fine secolo, fosse cresciuta di 4 gradi, rispetto all’era preindustriale (quello che gli scienziati prevedono in assenza di interventi contro l’effetto serra) ci sarebbe il segno meno.
Tagli del Pil al Sud
Più limitato a ridosso dell’Artico: meno 1 per cento in Islanda e in Finlandia, meno 1,8 per cento in Norvegia. Il taglio del Pil pro capite crescerebbe man mano che si scende a Sud: meno 3,97 per cento in Gran Bretagna, meno 5,82 per cento in Francia, meno 6,39 per cento in Spagna. Ma la trasposizione meccanica “più caldo, meno Pil” non funziona. Proprio perché basata sugli ingranaggi e le interrelazioni dell’economia, la ricerca riserba sorprese. Fra i paesi cui il riscaldamento globale taglierebbe più drasticamente la ricchezza c’è la Svizzera: il Pil pro capite degli svizzeri, senza interventi mondiali a frenare l’effetto serra, verrebbe decurtato, entro fine secolo, del 12,24 per cento. I grandi paesi sono fra i più colpiti, secondo i modelli econometrici della ricerca. La Russia perderebbe l’8,93 per cento e gli Stati Uniti del superscettico Trump il 10,52 per cento.
Per l’Italia perdite economiche da subito
Per l’Italia, senza interventi di adattamento al cambiamento climatico, possiamo cominciare a contare le perdite subito. Già nel 2030, avremmo uno 0,89 per cento di Pil in meno. Nel 2050, l’effetto serra mangerebbe fino al 2,56 per cento. Nel 2100 saremmo al 7 per cento, più o meno in linea (è un fatto puramente casuale) con la media mondiale di perdite dell’economia. E’ tanto? Peggio della crisi da cui, da dieci anni, non riusciamo ad uscire: dal 2008 ad oggi il Pil pro capite italiano si è ridotto del 5,4 per cento. E quello 0,89 per cento che ci ritroveremo in meno nel 2030 è, ad esmpio, più di quanto possiamo sperare di crescere l’anno prossimo.
Le soluzioni al problema
Si può fare qualcosa? La risposta dei ricercatori è sì e uno degli aspetti più sorprendenti dello studio è l’effetto amplificato che avrebbe imboccare un percorso che tenga il termometro globale sotto il tetto dei più 2 gradi nel 2100, fissato nell’accordo di Parigi del 2015. L’impatto medio sul Pil mondiale scenderebbe dal 7 all’1 per cento. Per l’Italia, il sollievo che un mondo meno caldo darebbe all’economia sarebbe anche più vistoso. La riduzione del Pil pro capite scenderebbe a spiccioli, quasi impercettibili, di punto: meno 0,01 per cento nel 2030, meno 0,02 per cento nel 2050, meno 0,05 per cento nel 2100.