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[L’analisi] Il pessimismo di Fitch, l’autunno disperato dell’Italia, il sospetto dei mercati e gli stranieri che scappano

Una manovra economica fragile, continue polemiche con l’Europa, la messa in discussione di progetti strategici. La sofisticata analisi di un economista che conosce bene il nostro paese (Daniel Gros) fornisce una indicazione inquietante: dietro la fuga di capitali dall’Italia di questi mesi c’è più del timore di uno sfondamento delle dighe della spesa pubblica. Per almeno metà, l’abbandono degli investitori ha una spiegazione più semplice e brutale: mettersi al riparo dall’Italexit, ovvero la possibilità che il governo Di Maio-Salvini, più o meno deliberatamente, porti l’Italia fuori dall’euro

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci, editorialista   
Di Maio, Salvini e Tria
Di Maio, Salvini e Tria

 

Benvenuti sull’ottovolante. Se agosto è il mese degli agguati della speculazione sui mercati finanziari, settembre è, tradizionalmente, il mese che porta ai numeri del bilancio pubblico su deficit e debito e, dunque, il momento delle indiscrezioni a ruota libera, delle fughe in avanti, delle ritirate esitanti. Quest’anno,a vedere il ritmo dei proclami incauti che si susseguono, giorno dopo giorno, aspettiamoci che il vagoncino della manovra finanziaria affronti salite più mozzafiato, discese più svuota stomaco, curve più cigolanti del solito prima di arrivare, il 27 settembre, alla definizione dei parametri della politica del governo nel 2019. Sarà, del resto, una pausa solo temporanea.

Ottobre sarà il mese del braccio di ferro con Bruxelles sui margini di flessibilità di cui potrà godere il governo per attuare i capisaldi del suo programma. Novembre sarà il mese dell’assalto alla diligenza: gli agguati più devastanti, a questo punto, non saranno sui mercati finanziari, ma in Parlamento. Le difese che il ministro del Tesoro, Tria, potrà aver eretto per difendere le compatibilità di bilancio dalle pretese dei leader di Lega e 5Stelle rischieranno di essere demolite nelle imboscate notturne su pensioni, tasse, sussidi nelle commissioni di Camera e Senato.

Su quello che sarà il risultato finale, al voto definitivo delle Camere a dicembre, nessuno può scommettere. Si possono, però, sondare umori e timori. La sofisticata analisi di un economista che conosce bene il nostro paese (Daniel Gros) fornisce una indicazione inquietante: dietro la fuga di capitali dall’Italia di questi mesi c’è più del timore di uno sfondamento delle dighe della spesa pubblica. Per almeno metà, l’abbandono degli investitori ha una spiegazione più semplice e brutale: mettersi al riparo dall’Italexit, ovvero la possibilità che il governo Di Maio-Salvini, più o meno deliberatamente, porti l’Italia fuori dall’euro. 

CATTIVI PRESAGI IN PARTENZA

Il primo dato di cui tener conto è che si parte male. Il numero da tenere d’occhio non è tanto quello dello spread, che misura la differenza fra i rendimenti dei titoli italiani e tedeschi. Più semplicemente, il numero che pesa è quello del tasso di interesse che paghiamo sui nostri debiti. Una cosa è affrontare mesi di turbolenza sui mercati e di probabile rincaro di quel tasso, partendo da un livello di 1,70-1,80 per cento di interesse sui titoli a 10 anni. Una ondata di sfiducia che gravasse un altro uno per cento lo porterebbe a 2,70 – 2,80 per cento. Un’altra cosa è se il livello di partenza, nel momento in cui si affronta la tempesta è un costo, per il Tesoro, del 3,25 per cento: un punto in più significherebbe spingere il costo del debito pubblico alle altezze della grande crisi del 2011. Purtroppo, questa è attualmente, in partenza, la situazione. Questa settimana il Tesoro, per farsi prestare i soldi dagli investitori, ha dovuto garantire un interesse del 3,25 per cento, quasi il doppio di quello che pagava prima delle elezioni. Non è il caso, del resto, di aspettarsi mercati benevoli e comprensivi. Da settimane, gli hedge funds più spregiudicati vendono massicciamente al ribasso i titoli italiani e, ieri, Fitch, una delle agenzie di rating più importanti, ha emesso un giudizio interlocutorio sulle finanze italiane, ma sufficientemente pessimista (la previsione è che le cose possano andare peggio piuttosto che meglio) da influenzare anche investitori meno avventurosi degli hedge funds.

LA GRANDE FUGA

Non c’è motivo di sorprendersi. Lo scenario in cui si apre la battaglia sulla manovra 2019 – o, più esattamente, la mischia sulla flat tax, sul reddito di cittadinanza, sulla riforma delle pensioni fra il ministro del Tesoro Tria e i leader di Lega e 5Stelle – era già pericolante da mesi. Fra maggio e giugno, dicono i dati della Banca d’Italia sulla bilancia dei pagamenti, gli investitori hanno liquidato in massa titoli italiani, portandosi all’estero 58 miliardi di euro, realizzati vendendo titoli del Tesoro, e altri 10 incassati vendendo titoli delle banche italiane. Il totale della fuga è di 78 miliardi, se si considerano anche le azioni di aziende italiane in genere. Sono tanti, tantissimi, quasi da crisi di panico. Per avere un termine di riferimento, nella grande crisi del 2011, quando il Tesoro italiano rischiò il collasso e il governo Berlusconi affondò senza scampo, la fuga raggiunse proporzioni doppie, oltre 140 miliardi di euro. Ma in 12 mesi, non in soli due. Forse non è ancora una frana, ma è già più di una slavina.

I DANNI CHE FANNO PIU’ MALE

C’è, tuttavia, una corrosione che lavora più in profondità e che rischia di compromettere a lunga scadenza lo sviluppo del paese. Per quanto allarmanti e devastanti, infatti, i contraccolpi dei mercati finanziari possono mettere in ginocchio un paese, ma anche, come si è visto con la Grecia, possono essere assorbiti nel giro di qualche anno ed, eventualmente, rovesciati. Non così, quando la fuga intacca il patrimonio produttivo del paese. Da questo punto di vista, l’elemento più preoccupante che emerge dai dati della bilancia dei pagamenti non riguarda gli investimenti di portafoglio (cioè acquisti o vendite di titoli e azioni) ma gli investimenti diretti, ovvero i soldi che dall’estero vengono impiegati in attività produttive: fabbriche, aziende, iniziative commerciali, lavori nell’edilizia o nelle infrastrutture. A giugno, gli investimenti diretti stranieri in Italia sono diminuiti di 4,3 miliardi di euro. Sarà importante verificare cosa è accaduto e sta accadendo nei mesi successivi. Il segnale, infatti, è preoccupante e chiama esplicitamente in causa il nuovo governo.

Gli schiaffi alla Commissione Ue, lo sbeffeggiamento di vincoli e impegni concordati a livello comunitario, la minaccia di ritirare i fondi versati a Bruxelles, la richiesta alla Bce di finanziare comunque il debito italiano sono tutti atteggiamenti che hanno profondamente intaccato l’immagine dell’Italia in Europa. Ma pesano molto di più le polemiche lanciate ai massimi vertici del governo contro snodi cruciali dello sviluppo italiano, rimettendo in discussione impegni e contratti sui quali l’inchiostro si è asciugato da tempo. Perché un investitore straniero dovrebbe, d’ora in poi, rischiare i suoi soldi in Italia, quando si moltiplicano gli esempi in cui governo e potere pubblico si rimangiano gli impegni  - a torto o a ragione - sottoscritti?TAV. Se ne discute da anni, ma appalti sono stati dati, lavori sono stati eseguiti, finanziamenti sono stati erogati e intascati, l’opera è a metà. Anche ammettendo che se ne possa uscire pagando salate penali, che credibilità avrebbe un’amministrazione italiana che, domani, proponesse un’altra opera?

TAP

Il gasdotto sta arrivando, via Turchia e Grecia, in Puglia. Può darsi che la relativa politica europea (diversificare le forniture energetiche rispetto alla Russia) e il percorso specifico prescelto siano sbagliati. Non è questo – qui – il punto. Piuttosto, i lavori sono avanzati, appalti sono stati fatti, i tubi sono in arrivo. Si può dire: portateli da un’altra parte. Ma, domani, chi se la sentirà di collaborare ancora con un potere pubblico, in Italia, così volubile?

ILVA

La più grande acciaieria d’Europa è stata venduta alla cordata indiana Arcelor-Mittal. I compratori hanno impegnato quattrini, hanno rivisto i loro piani e la loro attività sulla base della nuova acquisizione, hanno ristrutturato il proprio gruppo per tener conto dell’inserimento dell’Ilva. Si possono spuntare condizioni migliori (su ambiente e occupazione). Ma, se nelle procedure d’appalto non emergono, ben visibili, reati e illegittimità, si può tenere all’infinito in sospeso l’affare?

AUTOSTRADE

Il crollo del ponte di Genova è una grande tragedia, ma di fronte ad un’azienda che ha investitori non solo in Italia (i Benetton) ma dalla Cina alla Spagna si può dire, brutalmente, revochiamo la concessione, prima ancora di aver effettuato un primo accertamento di responsabilità? Forse Autostrade verrà nazionalizzata, forse no. Probabile che, in un caso o nell’altro, cerchi di rastrellare capitali sul mercato. Quali garanzie deve chiedere un investitore per evitare di trovarsi espropriato prima che ci sia stata un’inchiesta?

ALITALIA

L’azienda non sta in piedi. Anche se venisse nazionalizzata avrebbe bisogno di un accordo con una compagnia straniera che ne assicurasse la gestione. Ma che garanzie avrebbe questa compagnia che la gestione non verrebbe sistematicamente condizionata dalle convenienze, prima ancora politiche che economiche, di un azionista di controllo, che si è già rivelato assai ingombrante come questo governo? 

 

 

 

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci, editorialista   
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