“Non gioco più, me ne vado”. Pd a rischio scissione tra Schlein e Bonaccini mentre si va a congresso
Le ceneri dei dem si raccolgono attorno ai due grandi candidati e alla necessità di ridarsi credibilità e collegamento con gli elettori. I retroscena
Nel Pd inizia a tirare un’aria brutta, gelida, di tramontana. Il congresso rischia di trasformarsi in una resa dei conti che non è mai stato fino ad ora: chi perde, invece di fare opposizione interna, per quanto dura e leale, prende cappello e se ne va. Uno dei migliori frutti dell’area liberal-riformista, il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori (i liberal, al congresso, volevano all’inizio candidare lui), la mette giù piatta: “se vince la Schlein, potrei lasciare il Pd”.
Ed è solo l'inizio
Gori, che appoggia la corsa di Stefano Bonaccini, all’Huffington Post la mette giù così: “se vince la Schlein, vince Renzi, perché il Pd prenderebbe una deriva ‘francese’” (vuol dire diventare il Psf, cioè di fatto scomparire dalla scena, ndr.). Poi, certo, il suo capo-corrente, Lorenzo Guerini, prova a smussare gli angoli: “Ma no, nessuno se ne deve andare e tra l'altro Gori non lo dice. In realtà la sua intervista pone temi importanti, che meritano di essere oggetto di attenzione. E soprattutto evoca l'esigenza di evitare una 'deriva francese' e minoritaria del Pd che sembra emergere da alcune suggestioni di queste ore sul nostro manifesto dei valori. Dobbiamo tenere uniti sui passi in avanti da fare e non dividerci su improbabili ritorni all'indietro”.
La sinistra interna ‘piccona’ il Manifesto del 2007
Dall’altra parte, la sinistra interna sta demolendo, a colpi di piccone, il Manifesto di valori del 2007: scritto, in effetti, un’era geologica fa, in piena epoca veltroniana, oggi viene ritenuto ‘ordo-liberista’, di ‘egemonia blairiana’, “brutto, bolso, illeggibile”, dall’asse Speranza-Cuperlo-Orlando, sorretto da una serie di teste d’uovo gauchiste (Urbinati, Felice, Saraceno), che lo vuole riscrivere e attualizzare per impedire, a un segretario vincente ma non ‘piacente’, cioè non affine ad essa (Bonaccini), di portare il Pd su una linea moderata, liberaldemocratica, riformista, per imbrigliarne la vittoria con un neo-Manifesto oscillante tra le tesi di Marx e quelle di Chomsky.
I riformisti contrattaccano, ricordano che il Manifesto del 2007 fu voluto anche da Prodi, in quanto fondatore dell’Ulivo, oltre che Veltroni, che ora si vuole scrive un ‘nanifesto’ (Tonini) o un manifesto da ‘sinistra neo-comunista’, parlano di “toni ingiusti, inaccettabili, liquidiatori” e minacciano persino di dimettersi dal comitato degli 87 saggi (lettera aperta di Stefano Ceccanti).
In pratica, quello dell’epoca era un documento di dieci pagine e mezzo in cui si parlava di Ulivo, bipolarismo maturo, vocazione maggioritaria, alleanze chiare. Il tutto datato 16 febbraio 2008. Ma il Comitato Costituente che si è riunito due giorni fa a Roma è chiamato a riscrivere il DNA del partito alla luce di dei cambiamenti nel tessuto economico e sociale degli ultimi 15 anni. Tanti ne ha il Partito Democratico. Una esigenza, quella di mettere mano al Manifesto dei Valori (questa la denominazione del documento), sollevata durante la prima riunione del Comitato e che ha provocato l'alzata di scudi dell'ala liberal del partito. Nel testo ci sono infatti passaggi che, oggi, appaiono superati dai fatti. Ad esempio: "Il Partito Democratico rappresenta lo sviluppo e la realizzazione dell'Ulivo, come soggetto e progetto di centrosinistra nel quadro di un bipolarismo maturo". Un riferimento, è la contestazione mossa da chi vuol riformare il Manifesto, che sembra superato dai fatti visto che in campo ci sono oggi, almeno, quattro poli che sembrano ben radicati: Cinque Stelle, il centrodestra, il Terzo Polo e il centrosinistra di cui fa parte anche il Pd.
Una politica troppo liberista, il nodo mai risolto
Tuttavia, al centro della disputa c'è soprattutto il riferimento all'approccio economico liberista che emerge da un passaggio come il seguente: "Compito dello Stato non è interferire nelle attività economiche, ma fissare le regole per il buon funzionamento del mercato, per mantenere la concorrenza anche con politiche di liberalizzazione e per creare le condizioni di contesto e di convenienza utili a promuovere innovazione e qualità”. Un passaggio contestato da chi, nel Pd, vede le "contraddizioni di questo modello" e sottolinea che oggi "c'è bisogno di più stato nell'economia, non meno stato". A difendere il manifesto scendono in campo coloro i quali quelle dieci pagine hanno contribuito a scriverle. Stefano Ceccanti vede "un eccesso di critiche liquidatorie, alcune forse manifestamente infondate" e teme "che si sia scambiato il dibattito costituente col confronto anche aspro tra candidati e mozioni che ci impegnerà più avanti". Sulla stessa lunghezza d'onda Alfredo Bazoli, senatore e ulivista della prima ora che ritiene "superficiali" le critiche dei "costituenti" e teme "il patatrac" se "quel percorso straordinario che portò alla carta dei valori si azzera in modo estemporaneo". Walter Verini, tesoriere dem, già capo della segreteria di Veltroni, rivendica la validità di quell'impianto e denuncia in un post su Facebook "le pulsioni rottamatrici" e la "vocazione minoritaria" di alcuni interventi: "Mi sono parsi singolari per la loro approssimazione e superficialità circa il giudizio sul manifesto dei valori del 2007. Era ed è quello uno dei punti di elaborazione più alti della sinistra democratica italiana, elaborato da personalità di altissimo livello e spessore delle culture e delle esperienze progressiste, socialiste, laiche e cattolico-democratiche, ambientaliste e femministe". E ribatte: "Consiglio un approccio più laico, senza damnatio memoriae e pulsioni rottamatrici".
Il segretario che verrà rischia il "commissariamento"
Anche perché c’è chi teme che, con l’acqua sporca (il Manifesto) si voglia buttare via pure il bambino (le primarie) inserendo, nel Manifesto, un vincolo che poi passerebbe nello Statuto e che, dietro il ‘no’ al plebiscitarismo’, nasconderebbe la ‘dismissione’ dello stesso strumento operativo su cui il Pd è nato e si fonda, le primarie aperte, per restringere l’elezione del segretario ai soli iscritti, legittimando cioè solo le primarie chiuse, come avrebbe detto, nella prima riunione dei saggi, Susanna Camusso, ripresa e rilanciata sia da Roberto Speranza che da Andrea Orlando.
Il paradosso è che il manifesto può diventare una potente arma per imbragare il segretario che verrà o restare lettera morta, tant'è vero che sarà approvato il 22 gennaio mentre il termine per presentare le candidature è il 27 gennaio. Cinque giorni dopo. La dimostrazione più lampante è che al Comitatone degli 87 saggi mancano i candidati. Stefano Bonaccini non è presente e non interviene. Assente anche Elly Schlein. C'è Matteo Ricci, che interviene per ricordare che l'esito finale deve essere unitario e non ci può dividere sulla carta fondativa. Ma è tardi, sono pie intenzioni. Ci si è divisi eccome.
Elly Schlein si lancia domenica al Monk
Poi, però ci sono i candidati e le loro mosse. E qui siamo, invece, nel pieno del ‘sano’ tatticismo. Elly Schlein – ieri sua sorella, Susanna Schlein, attaché all’ambasciata italiana in Grecia ha subito un brutto e pericoloso attentato di matrice anarchica - lancerà la sua corsa domenica, al locale – famoso per i concerti di musica indie - Monk di Roma. Con lei c’è, compattamente, Area dem di Franceschini (che ora dice che “solo con Elly si cambia il Pd, con Bonaccini resta com’è”), un bel pezzo di lettiani, Zingaretti con i suoi. Ma non tutta la sinistra dem, tranne Peppe Provenzano e Brando Benifei, che dovrebbe diventare il coordinatore della mozione della novella pasionaria dem. Invece, si sta sganciando l’area di Andrea Orlando che si va posizionando sul sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, già benedetto da Goffredo Bettini: il primo a scendere in campo con un giro per l’Italia (“Pane e politica”), ma finora da ‘non’ candidato: il 16 dicembre a Roma lo farà ufficialmente con una sua rete, quella dei sindaci di Ali, e l’appoggio di Orlando, oltre che di Gualtieri (sindaco di Roma) e di altri pezzi di dem laziali.
La corsa di Bonaccini e il ‘patto’ con Nardella
Obiettivo, arrivar secondo, al posto della Schlein, alle primarie interne e giocarsi tutto alle primarie aperte. In ogni caso, il proliferare di candidature (c’è anche Paola De Micheli, forse un nome che sarà espressione dei due governatori del Sud, Emiliano e De Luca) serve a ‘tenere sotto’ il 50% Bonaccini, tra gli iscritti, per frenarne la corsa. Bonaccini, però, non si spaventa. Si appresta a siglare un patto con un altro ‘non’ candidato, il sindaco di Firenze, Dario Nardella. Non sarà un ticket (Bonaccini lo farà, ma con una sindaca donna del Sud) ma un patto di collaborazione che prevede comunque posti di rilievo per Nardella che dovrebbe diventare il coordinatore dei comitati Bonaccini per il congresso dem. Bonaccini incassa anche il crescente favore di segretari di federazione del Sud, dove ha il suo tallone d’Achille, oltre al predominio saldo del partito tosco-emiliano, a eccezione di Bologna, dove il sindaco Lepore gli è apertamente ostile.
A Nardella potrebbero seguire altri big dem, fra capi corrente e membri della segreteria in carica. E se è certo che il patto Bonaccini-Nardella avrà come tema centrale il ruolo dei sindaci nel futuro del partito e del suo progetto per il Paese. A scandagliare diversi ambienti dem, tuttavia, emerge il timore che la diffidenza mostrata da Schlein nei confronti degli 'emissari' delle aree politiche del Pd, possa convincere i capicorrente a guardare sempre di più al presidente dell'Emilia-Romagna e trasformare il congresso, che era ‘aperto’ fino a ieri, in una corsa solitaria. Non solo: a guardare a Bonaccini sarebbero ora diversi esponenti del 'partito del Sud' trasversale tra i dem che, fino ad oggi, ha fatto muro nei confronti del governatore, spaventato dalle posizioni aperturiste di Bonaccini nei confronti dell'Autonomia differenziata di Calderoli.
Chi sta con chi
Le aree che stanno con il governatore sono note da tempo: c'è Base Riformista di Guerini e ci sono i dem in Toscana e in Emilia-Romagna. Di certo, a Bonaccini guardano Simona Bonafé, deputata e segretaria del Pd toscano, e il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, come il suo braccio destro, Antonio Mazzeo, presidente del consiglio regionale. Ma nella regione di Nardella è presente anche la sinistra dem che guarda ad Andrea Orlando, mentre in Emilia-Romagna il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, ha espresso una posizione "laburista" (vuole chiamare il Pd ‘Partito del Lavoro’), accolta con favore anche da Nicola Zingaretti e Brando Benifei. Tutti e tre sono sul punto di convergere sulla candidatura di Schlein mentre i Giovani turchi di Orfini e l’area Delrio si stanno per esprimere a favore di Bonaccini.
Per chi gioca Orlando
Andrea Orlando, storico leader della sinistra dem non ha ancora scelto il suo candidato o la sua candidata, ma continua a battere sul tasto della necessità di una costituente "seria e profonda" che possa gettare le basi di un nuovo Pd a cominciare proprio da quella Carta dei Valori che risale al 2007 e che risente del clima di infatuazione per idee neoliberiste impersonate da Clinton e Blair, secondo l’apodittico giudizio dell’ex ministro. Ieri Patrizia Prestipino lo ha accusato, su Twitter, di essere, nel 2008, “astro nascente del veltronismo” e, dunque, di rimangiarsi le idee, ma lui ha ribattuto che “allora sbagliammo analisi sulla globalizzazione e oggi va fatta autocritica”.
Tornando all’oggi, non sono sfuggite le parole di elogio di Orlando - e di Bettini - nei confronti delle ‘dieci idee’ per il congresso lanciate dal sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, ma nel Partito Democratico in pochi sembrano credere in un passo decisivo verso la candidatura da parte di Ricci. Si moltiplicano, al contrario, le voci di chi crede in una candidatura dello stesso Orlando. Un modo per contarsi e per far pesare il proprio consenso nella fase che si aprirà dopo il congresso. "Vediamo in questi giorni cosa succede", dice una fonte dem alla Camera secondo la quale "Orlando sta cercando di tenere insieme l’area della sinistra del partito, da Nicola Zingaretti a Gianni Cuperlo”. Infatti, contatti sono in corso fra tutti i big della sinistra dem per evitare una frammentazione dell'area.
Fra le macerie chi resta in piedi sono i sindaci
Resta che i sindaci sono l'unico potere in piedi, in un partito sconfitto alle urne, ma che vanta il 70 per cento dei sindaci italiani. Ricci ha dalla sua la rete di Ali, i sindaci di sinistra, di cui è coordinatore. E potrebbe essere il terzo incomodo quando si decideranno le griglie di partenza, al congresso degli iscritti, che dal 27 gennaio al 5 febbraio selezionerà i due candidati che andranno alle primarie aperte del 19 febbraio. Ieri il collega Antonio Decaro (Bari) gli ha rivolto l'appello a confluire sulla candidatura di Bonaccini, insieme a Dario Nardella. Ma Ricci spiega che la cosa "importante è che i sindaci siano in campo. Basta pacche sulle spalle. Insieme a tanti amministratori locali siamo in campo da due mesi, stiamo girando quella provincia italiana che ci ha girato le spalle. E siamo al momento gli unici che hanno messo nero su bianco dieci proposte, dicendo innanzitutto chi vogliamo rappresentare. Per le candidature c’è tempo. Il 16 dicembre a Roma organizzeremo un evento nazionale”. Lì si vedrà quali sono davvero le sue ‘truppe’ e cosa farà.
Schlein e l'attenzione al mondo del lavoro
Date queste premesse, non stupisce l'attesa che si vive nel partito per l'appuntamento di domenica al Monk, quartiere Tiburtino, dove Elly Schlein ha chiamato tutte le realtà interessate al processo di rinnovamento del Pd, parola d'ordine "Parte da noi!". La speranza della sinistra dem è che faccia riferimento al mondo del lavoro, al partito sociale e a una visione, appunto, anti-neo-liberista… La richiesta della sinistra del Pd è chiara: "Elly deve scegliere se fare Podemos o un Partito vero". Ma, al locale trendy del Monk, non ci saranno Brando Benifei ed Enzo Amendola, impegnati in un altro appuntamento. Non ci sarà Andrea Orlando, che sarà a Genova e molti altri ancora. Non ci sarà, per dire, neppure Dario Franceschini. Se Schlein non recuperasse la sinistra interna, il sindaco di Pesaro potrebbe sfidarla al congresso degli iscritti arrivando secondo dietro Bonaccini per poi stipulare un ‘patto’ con il governatore o provare a sfidarlo a singolar tenzone. Si vedrà.