Pd: gelo attorno a Letta e la paura che il partito sparisca. Dieci ore di confronto, poi il congresso
Il segretario uscente, fra molti mormorii, deve sciogliere molti nodi: dai "giovani turchi" di Orfini, a Bonaccini-Schlein, fino al ruolo delle donne
E’ quando il filosofo Massimo Cacciari cita il ‘foedus’ (“il patto”) e si lancia in considerazioni geopolitiche che partono dagli equilibri mondiali e planano sulla nostra povera Italia, che la Direzione del Pd scatta in un applauso prolungato e caloroso. Vibrante. Al Pd piace così: ‘riflettere’, sui ‘massimi sistemi’, macerarsi, tormentarsi, etc. anche in una Direzione nazionale che dovrebbe limitarsi a stabilire tempi, modi e platea del congresso (anticipato) che verrà. Il ‘post-Letta’.
Gelo attorno a Letta
Per capirsi, la relazione introduttiva del segretario – il quale si è dimesso, sì, ma a scoppio ritardato: le dimissioni saranno effettive e operative ‘dopo’ – Enrico Letta è stata accolta da tanta freddezza. Troppa, forse. Le elezioni, Letta non le ha mica perse da solo. Sul palco, il giorno della chiusura della campagna elettorale, dietro di lui c’erano tutti i vari big (ministri, capi corrente, capataz), ad applaudirlo (sic) e pure a ‘circondarlo’. Ma, come si sa, le vittorie sono sempre ‘collettive’, le sconfitte sono, invece, sempre assai individuali. Insomma, Letta – che pure parla davanti ai suoi – “è un uomo solo” nota chi gli vuole bene, “i big lo hanno già scaricato, non vedono l’ora di andare oltre lui. Mangiano i segretari come cioccolatini”.
E’, purtroppo, la triste verità. Al Nazareno va in onda, in streaming, per intero (cosa mai vista: al massimo andava in streaming la relazione del segretario, per la prima volta da anni va intera), una riunione-fiume – quella della Direzione dem – che presto diventa uno sfogatoio di nervi, recriminazioni, polemiche, battibecchi, accuse.
Il segretario prova a fare ordine
Letta, nella sua relazione, prova a mettere ordine sui troppi temi aperti (nome, simbolo, identità). “Il simbolo del Pd rimanga così com’è, perché racconta il nostro servizio all’Italia”. Di ‘scioglimento’ del partito, pure da più parti evocato, non se ne parla neppure, ovviamente. Letta immagina un congresso che porti a un profondo rinnovamento, specie della classe dirigente e la “vera parità di genere”, ma le donne candidate sono state poche, le elette pochissime. Poi Letta fa mea culpa (peccato che quel “è stata una sconfitta non catastrofica” ricorda la ‘non vittoria’ di Bersani dopo le elezioni del 2013 o lo “zoccolo duro” di Achille Occhetto nel 1987…), ma guarda avanti: “Dobbiamo essere pronti a costruire una opposizione forte sapendo anche che, quando questo governo cadrà, io non ci sarò, ma dovremo chiedere le elezioni anticipate, nessun governo di salute pubblica”. E qui, però, si butta troppo avanti: ‘vede’ il governo Meloni, che neppure è nato, poverino, già “in difficoltà”.
Il nodo dei ruoli per le donne
Infine, chiede di scegliere i nuovi capigruppo tra le parlamentari (donne), ma sembra che almeno la Serracchiani non ci pensi proprio a voler restare, mentre, al Senato, Malpezzi potrebbe accettare. Oltre a riconfermare il passo indietro sulla segreteria, annuncia di non volere più alcun incarico per sé perché “va fatto largo ai giovani”. Morale, Letta farà Cincinnato, solo che a Parigi, dove insegna a Science Po, nel suo esilio dorato.
Poi, appunto, c’è tutto il birignao che piace al Pd. “E' tempo di un'analisi approfondita - è l’appello - per capire esattamente cosa sia successo e per delineare il futuro. I Dem – dice - devono guidare l'opposizione e lo devono fare in collaborazione con le altre forze politiche”. “Perché noi, incalza con fare polemica, “siamo i soli ad aver costruito un’alternativa politica alla destra. Gli altri hanno fatto campagna in alternativa a noi”. Stoccata ai vari Renzi, Calenda, Conte, iper-aggressivi in campagna elettorale e, se è per questo, pure dopo. Ribadisce che guiderà la fase che si apre sino al Congresso, per “amore del partito”, ma chiede, e preme, perché questo non debba trasformarsi in una sorta di “casting di X Factor” per scegliere il nuovo segretario, né in un referendum “tra Calenda o Conte”, cioè sul tema delle alleanze.
Volano stracci
Segue dibattito e, come si temeva alla vigilia, volano gli stracci. Forte tensione e battibecchi su tutto, compreso l’ordine degli interventi, i tempi e la litania – infantile – ‘dovevo parlare prima io’, ‘mi state tagliando l’intervento’, ‘mi sentite?!’... La presidente dem, Valentina Cuppi, che presiede i lavori, oltre che l’Assemblea nazionale, attacca ad alzo zero contro “un partito maschilista e con logica correntizia”. Non l’hanno eletta, come la Morani e la Cirinnà, ed è inviperita. Da fuori, Carlo Calenda cannoneggia, al suo solito: “I dem continuano a non voler scegliere, così sarà molto difficile fare opposizione insieme”. Pure dentro, però, i nervi sono tesi. Troppo. Nella Direzione del Pd spunta il ‘bilancino’ degli interventi: chi si è iscritto a parlare all'inizio finisce chissà quando. Brusii e contestazioni, nella sala del Nazareno, ieri si sprecavano. Roberto Morassut, romano, che ha vinto un difficile collegio alla Camera a Roma, attacca la Cuppi, non eletta causa ‘effetto flipper’: “Basta con il bilancino”, alludendo al peso delle correnti. La Cuppi si risente: “Non sto facendo niente con il bilancino, semmai sto cercando di bilanciare gli interventi di una regione con l'altra, i generi... Ma non sono io a condurre il gioco delle correnti”. Letta difende la presidente: “Vedo cosa succede. Ognuno viene, chiede di anticipare l’intervento, parla e se ne va. Chiedo rispetto per Valentina!”.
Mormorii e malumori crescono
Gli interventi sono decine, nessuno vuole rinunciare e punta a parlare in orari in cui l'ascolto ‘tv’ è garantito. L'obiettivo di Letta è ‘massima trasparenza’. Gianni Cuperlo – uno che, di suo, parlerebbe per ore, e di tutto - chiede “ancora del tempo”, poi di aggiornare la Direzione a nuova data. Stop di Letta: “Abbiamo indicato le 17, lo spostiamo più avanti semmai”. Ma, per fortuna, si finisce, più o meno, all’ora indicata. Una ‘maratona’ di fiele, è stata, quella dei (troppi) interventi dem. Uno spettacolo, francamente, davvero indecoroso.
Basta correnti, dicono i correntisti
Il leader dem, però, vuole concludere per poi fare partire il percorso del congresso. Ma intanto la lingua batte dove il dente duole, ovvero sulla questione del correntismo, affrontata in quasi tutti gli interventi. Walter Verini (veltroniano storico, poi passato attraverso mille correnti…), ad esempio, invita allo “scioglimento delle correnti, anzi del correntismo” e chiede di attrezzarsi a fare opposizione e a costruire 100 piazze il 14 ottobre per ‘festeggiare’ l’anniversario delle primarie (le prime, 2007).
Il vice-segretario, Giuseppe Provenzano (ha una corrente tutta sua, nella sinistra dem), denuncia le degenerazioni del correntismo, indicando quanto è accaduto al giovane segretario dem della Basilicata, Raffaele La Regina, che si è dovuto ritirare per alcuni tweet giudicati inopportuni (vergognosi: erano anti-ebraici): “Chi ci guarda da fuori che cosa vede? Gente impegnata a fare dossieraggio interno per togliere dalla lista un ragazzo di 28 anni”. E via così, fino al ministro – ancora per poco – Andrea Orlando (tenutario di un’altra corrente, Dems, di sinistra) che chiede di “riflettere sulla valutazione dello sviluppo capitalistico” e di come ‘contrastarlo’. Che bel partito, il Pd, quando ama discutere… In ogni caso, alla fine, si arriva alla ‘conclusione’, ma solo dopo un ‘flusso di coscienza’ durato ore.
I pochi punti fermi del congresso
Infatti, nella lunghissima Direzione Pd, un ‘flusso di coscienza’ monstre, un fiume di parole di 10 ore, almeno c'è un unico punto fermo. Il sostanziale accordo tra tutte le componenti dem sui tempi del congresso: il nuovo segretario arriverà entro marzo. “Le Idi di Marzo”, cioè. Il timing lo dà lo stesso Letta, aprendo i lavori. I tempi giusti" perché sia pronto "un nuovo gruppo dirigente, è l'inizio della primavera, il mese di marzo", dice Letta. "Condivido la relazione del segretario, col quale ci siamo confrontati nei giorni scorsi", fa sapere, secco, Stefano Bonaccini (il governatore emiliano, ad oggi il principale, se non unico, candidato al post-Letta, doveva parlare, ma alla fine è rimasto muto…), e sembra quasi una di quelle liturgie ‘sovietiche’ che hanno fatto la storia di un altro partito, il Pci.
C'è l'ok di Base Riformista e non arrivano critiche anche dal resto delle varie correnti dem. Tranne che da un vecchio seniores, Luigi Zanda: “Il tempo previsto non è sufficiente per una discussione seria", osserva, ma resta inascoltato.
L'identità perduta
Altro punto fermo, raccolto dalla quasi totalità degli interventi, è che il Pd non va sciolto. Rifondato sì, ma nessuno scioglimento. Letta aggiunge che, per lui, anche il simbolo non va toccato. E quindi il nome. E poi le alleanze. Se ne parla per dire che se ne riparlerà. Vengono dopo. Prima c'è l'identità del Pd perduta, dissolta nel 'governismo' degli ultimi anni. Anche il teorico numero uno dell'abbraccio con i 5 Stelle, ovvero Goffredo Bettini mette in chiaro che non pensa né "allo scioglimento, a una cosa rossa o rossogialla". Quindi, si farà un congresso che si chiuderà entro marzo, ma sarà una nuova riunione della Direzione a entrare nel concreto dei passaggi. Lo schema resta quello individuato da Letta, quello delle quattro fasi con le primarie a due per il segretario a chiudere il tutto. Sebbene, pure il punto delle primarie sia stato affrontato in diversi interventi. Chiedono un ripensamento dello ‘strumento’ – e pure ‘fondativo’ del Pd - Peppe Provenzano e Cesare Damiano, e altri.
Il rischio che il partito sparisca
Fin qui, tempi, regole e punti che ricorrono nella maggior parte degli interventi. Poi c'è tutto il resto. I 'nodi', per così dire. Andrea Orlando ne individua uno "sostanziale" che non è sciolto e che resta divisivo. E' giusto dire che il Pd non deve sciogliersi, dice il ministro del Lavoro, ma il rischio è che sparisca lo stesso se non viene "sciolto un nodo", e cioè se non si chiarisce "da che parte stiamo nel conflitto sociale" (sic). Argomenta Orlando: "Abbiamo oggettivamente una tenaglia. La sfida chiara di un partito caratterizzato come il partito delle elite più illuminate, dei ceti urbani. E quella di un partito che incarna in una visione social-populista dei pezzi di società. Allora, se dici che vuoi modificare il reddito di cittadinanza quelli che ce l'hanno, non ti votano perché pensano che glielo vuoi togliere e quelli che non lo vogliono, non ti votano perché pensano che lo vuoi tenere".
Nel Pd c'è "un'impostazione di carattere neoliberista che persiste" e poi c'è "chi ritiene sia necessario esercitare una critica al modello di sviluppo. Non dico che sia giusta una strada o l'altra, dico che se non si scioglie questo nodo inevitabilmente siamo reticenti sull'agenda sociale ed economica”. Sembra Bucharin, ecco. a
Salvarsi col "campo largo"
Reticenze che per Matteo Orfini – leader di una corrente ormai semi-estinta, i Giovani turchi, ma non per questo oggi meno battagliera - sono legate alla "rinuncia alla costruzione di un progetto politico identitario. Da quando è nato il Conte-bis la nostra proposta è stata il campo largo, cioè una alleanza. Abbiamo trasformato lo strumento in fine. Abbiamo cercato la soluzione della nostra debolezza negli altri: affidarsi prima a Conte, poi a Draghi. Non c'è la fiducia di riuscirci da noi". Scelte che "hanno trasformato il Pd nel partito della tutela dello status quo".
Quanto pesa Bonaccini
Bonaccini, come si diceva, non è intervenuto in Direzione, come invece aveva annunciato ieri. I suoi spiegano che è dovuto rientrare in regione, ma poi fa sapere subito come la pensa. I suoi dicono che almeno alcuni punti sono stati ‘chiusi’ e, ovviamente, a suo vantaggio: 1. fermati i tentativi dilatori delle correnti; 2. fermata la "variante" sullo scioglimento del partito, coltivata anche da qualcuno dall'interno. Era una deriva pericolosa perché avrebbe consentito a Calenda e Conte di divorare il Pd; 3. definiti i tempi congressuali e le regole previsti dallo Statuto, contro i tentativi dall'interno e dall'esterno di impedire le primarie: spinte che sembravano tutte mosse anti Bonaccini; 4. nessuno ha più detto "via il simbolo", "il nome", ecc. Si riparte dal Pd e i problemi sono di sostanza; 5. fermato il dibattito surreale sulle alleanze”. Insomma, per i Bonaccini boys c’è stata una vittoria su tutta la ‘linea’. Inoltre, ci sarebbe – ma qui si illudono – “un filo tenuto tra Letta e Bonaccini: il primo è neutro, ma c'è una gestione lineare e leale che Bonaccini sta apprezzando come ha apprezzato la proposta di percorso congressuale di Letta”.
La battaglia per la leadership
Ma non bastando gli spin ‘interni’, ci sono pure quelli ‘esterni’, cioè il Bonaccini parlante in chiaro: “condivido il percorso proposto da Enrico Letta, ci siamo confrontati nei giorni scorsi: serve un congresso vero in cui riaffermare e rigenerare l'identità del Pd. Lo faremo in tempi certi e ragionevoli perché il Paese ha bisogno di un governo ma anche di un'opposizione pienamente in campo. Partiamo oggi per discutere del progetto del Pd e dell'Italia. Non di alleanze di là da venire. Analizzare le ragioni della sconfitta -prosegue - è essenziale, ma con lo sguardo rivolto al presente e al futuro, perché è su questo che saremo misurati. Un congresso per discutere con le persone nella società, non nel chiuso di una stanza, perché la democrazia si nutre di partecipazione. E già il fatto che non si discuta più di nome e simbolo lo considero un passo avanti: i problemi che dobbiamo affrontare adesso sono di sostanza, non di forma”. Ecco, la sostanza e la ‘forma’. Un altro must, nel Pd… La battaglia per la leadership è appena iniziata.