[L’analisi] Il grande deserto dell’opposizione popolato da poltronisti senza idee. Così il nuovo sconfigge il nulla
In questo grande buio, riempito da biechi poltronisti e quando va bene da uomini di potere senza idee sul futuro del Paese, se non quelle di un europeismo vacuo così inadatto a combattere demagogie e rancori, con i suoi appelli controproducenti allo straniero pure in nome dell’austerità, la Storia sembra ripetersi. Non importa che il populismo di Lega e Cinque Stelle abbia ragione o torto. E’ il Nuovo che avanza contro il Nulla
Nel Grande Buio dell’opposizione forse è quasi impossibile che qualcuno di loro si renda conto davvero del deserto intellettuale e politico nel quale stanno camminando. Fra le file del centrodestra, il partito di Berlusconi è nato sin dall’inizio come un contenitore vuoto che rispondeva solo al Capo Supremo, dove ai delfini che alzavano troppo la testa gli veniva tagliata, e gli altri facevano bene ad abituarsi solo a ripetere meccanicamente le parole d’ordine del Cavaliere, senza che importasse neppure che le capissero. Il risultato è che l’unica corrente cresciuta in Forza Italia oggi è quella che fa capo a Ghedini e Toti, due fedelissimi di Berlusconi, e punta a sciogliere direttamente il partito nella Lega.
D’altro canto in tutti questi anni di potere, gli Azzurri non hanno mai allevato una classe dirigente degna di questo nome, inglobando solo una banda di socialisti sconfitti, craxiani rancorosi, democristiani sconosciuti da Scaiola a Schifano diventati persino boss a loro insaputa, gente d’azienda varia, compagni di scuola e, come racconta lo stesso Giuliano Ferrara, «derrate di publitalioti bene in carne con qualche publidiota e naturalmente una folla variopinta di ruffiani». I compagni di strada, poi, oltre a Letta e Confalonieri, erano Dell’Utri e Previti. Che cosa c’entra tutto questo con la politica? Quando il Capo è invecchiato, perdendo oltre al suo carisma anche il controllo sul partito, questo vuoto è cresciuto così tanto da diventare assordante.
Ma a sinistra le cose stanno ancora peggio. Matteo Renzi, l’allievo prediletto di Berlusconi - «ha fatto fuori più comunisti lui di me in vent’anni di lotta» -, definito dal Cavaliere già abbastanza imbolsito «l’unico politico bravo che c’è oggi in Italia», partito a spron battuto con lo slogan della rottamazione ha finito per rottamare più il pd dei suoi vecchi dirigenti. Ma se Renzi non ne azzecca una, dietro di lui la situazione è pure più grave. Lasciamo perdere i suoi fedelissimi, che come tali sono destinati a rinchiudersi assieme al loro Capo in un partito da tre per cento. Ma chi c’è dopo? Il neo segretario Maurizio Martina è quel che si dice un bravo ragazzo, con il curriculum vergine, almeno lui, senza accuse di peculato, concussione e reati vari, ma assolutamente lontano da qualsiasi idea di un progetto alternativo, nuovo e concreto.
E’ uno, senza carisma e autorità, che le cose gli capitano e quando qualcuno decide per lui, come ha fatto Renzi in televisione, non può fare altro che lamentarsi malinconicamente: «Così non si può andare avanti, è inutile fare il segretario». E Andrea Orlando, alla testa dell’opposizione antirenziana è il primo ad ammettere lo stato disastroso in cui versa il partito. «Il Pd non esiste più in gran parte del Paese, va ricostruito. Dove esiste, come in molte realtà del Mezzogiorno, sarebbe meglio non esistesse». Forse non c’è verità più autentica. In periferia, dove dovrebbero essere allevati i futuri dirigenti, siamo al limite del ridicolo. Per non piangere. Basterebbero alcuni esempi, senza dover a tutti i costi tirar fuori Nostradamus Fassino, tanto per dare l’idea di quanto ci capiscano quelli del Pd.
Uno dei più rappresentativi è senza dubbio il neo senatore Luciano D’Alfonso, che si tiene stretta anche la sua ingombrante poltrona di presidente della Regione Abruzzo, nonostante qualche piccolo avviso di garanzia per abuso d’ufficio e corruzione, e un’inchiesta sulla tragedia di Rigopiano, con 29 persone finite sotto una valanga e il pm che lo accusa per essersi attivato tardivamente, nonostante i bollettini meteo, gli avvisi della Prefettura e l’sms del sindaco che chiedeva con urgenza mezzi spazzaneve. Lo stanno invitando tutti a lasciare almeno uno dei due incarichi, che sono incompatibili per la Costituzione, preferibilmente quello da presidente della Regione. L’ineffabile D’Alfonso ha risposto: a) che «l’incompatibilità sussiste nel momento in cui c’è conflitto d’interessi»; b) che lui è indispensabile per la Regione.
I suoi alleati lo pregano invano di cedere, mentre Forza Italia lancia petizioni on line, il M5S porta la questione in Tribunale e le reti Mediaset lo prendono in giro sul numero di sederi che ha a disposizione per occupare tutte quelle poltrone. Mentre nel Paese, la gente fa fatica ad arrivare alla fine del mese, ci sono figure come questa che ci rappresentano tranquillamente in Parlamento. E non è semplice demagogia. E’ che si resta allibiti di fronte alle sue reazioni. Luciano D’Alfonso, già entrato nel gossip per essersi fatto riparare dal sole da sei ragazze che lo proteggevano con gli ombrelli durante un dibattito a Sulmona, oggi continua a ripetere che non è una questione individuale, ma che lui è semplicemente indispensabile.
Ha percepito regolarmente due stipendi da senatore, di quasi 24mila euro, ha già firmato tre disegni di legge a Roma, e in Abruzzo continua a firmare provvedimenti a manetta e nomine a gogo, assumendo pure nuovi collaboratori, una quindicina, secondo i giornali locali. Purtroppo è questa esibizione di potere intoccabile il marchio di fabbrica di un partito che sembra essersi allontanato definitivamente dalla gente. Senza neppure rendersene conto. Un altro presidente di Regione finito molto spesso nell’occhio del ciclone, Vincenzo De Luca, una volta rispose così a Travaglio che lo chiamava il personaggetto, che non poteva fare il presidente della Campania, ma nemmeno il bidello di una scuola: «Ho sentito quel grandissimo sfessato di Travaglio e aspetto di incontrarlo per strada al buio qualche volta a Roma, questo pipì... Un imbecille». A proposito di progetti politici.
Poi c’è Debora Serracchiani, che da presidente della regione Friuli Venezia Giulia ha portato il pd al disastro, scappando prima del voto, direzione Roma, magari segreteria del Pd in quota Renzi. Ma che è riuscita a dire: «In Friuli Venezia Giulia abbiamo perso probabilmente anche perchè non ricandidandomi non ho potuto valorizzare la bontà del lavoro svolto». Difatti: 307mila voti alla Lega, 144 mila al Pd, che aveva vinto appena cinque anni prima.
In questo Grande Buio, riempito da biechi poltronisti e quando va bene da uomini di potere senza idee sul futuro del Paese, se non quelle di un europeismo vacuo così inadatto a combattere demagogie e rancori, con i suoi appelli controproducenti allo straniero pure in nome dell’austerità, la Storia sembra ripetersi. Non importa che il populismo di Lega e Cinque Stelle abbia ragione o torto. E’ il Nuovo che avanza contro il Nulla. E quando non ci sarà neppure il Nulla, dovremo scegliere come succede in tutte le democrazie. Ma comunque vada a finire, quella che oggi chiamiamo opposizione non ci venga a dire che non è stata colpa sua.