Ong, azione umanitaria e sovranità statale: la sottile linea di confine

L'inchiesta siciliana sulle organizzazioni che operano nel Mediterraneo fa emergere i nodi legati al rispetto della giurisdizione italiana e del diritto internazionale

Ong, azione umanitaria e sovranità statale: la sottile linea di confine

E’ consentito a delle organizzazioni private di sostituirsi alle forze politiche e alle volontà delle nazioni costituendo dei corridoi umanitari non  autorizzati che di fatto espropriano gli stati del legittimo controllo delle loro frontiere e dei flussi migratori in ingresso? E pur ammettendo la buona fede delle ONG, è possibile che siano loro a selezionare il tipo di flussi che arrivano in Italia? Formulando questi interrogativi dinnanzi alla commissione Schengen, e ribadendoli l’altro ieri davanti alla Commissione Migranti alla Camera, il Procuratore Zuccaro ha interrotto un incredibile meccanismo di rimozione freudiana della politica italiana, costringendola ad uscire dagli schemi dell’asfittica querelle domestica fra destra e sinistra per occuparsi di quello che è anzitutto un enorme problema politico e di sicurezza nazionale: un problema che riguarda il rispetto della giurisdizione italiana da un lato, la conoscenza e l’osservanza delle norme del diritto internazionale dall’altro. Per chi opera i salvataggi in mare, di fronte alla priorità del soccorso certamente non possono valere distinzioni fra migranti economici e profughi di guerra. Ma a fare questa distinzione è chiamato lo Stato italiano, che in base alla normativa vigente in materia di immigrazione e di asilo deve concedere prioritariamente accoglienza a chi si  muove da situazioni di conflitto e di conclamato pericolo, in un quadro preciso di regole che sono quelle dettate per la concessione dello status di rifugiato. 

La scelta del porto di approdo: cosa dice il diritto internazionale

Perché è vero che la Convenzione sulla ricerca e il salvataggio in mare (SAR),  nel tentativo di coordinare l’azione degli stati costieri limitrofi, introduce il concetto di “porto più vicino e più sicuro” dove condurre i migranti tratti in salvo, ma è altrettanto vero che esistono sul punto ampi spazi di interpretabilità legati non da ultimo all’attribuzione delle cosiddette “zone di competenza marittima” dei vari stati e su cui si innestano controversie di lunga data, (come quella fra Italia e Malta per esempio). Resta il fatto che l’attributo della “sicurezza” non può che essere considerato come corollario al presupposto indispensabile della vicinanza fra luogo di recupero e luogo di sbarco. Il diritto internazionale suggerisce il giusto bilanciamento fra vicinanza e sicurezza, al fine di garantire la massima efficacia delle operazioni di soccorso e salvataggio. Non contempera invece in nessun caso l’aspirazione dei migranti, per quanto legittima, a raggiungere l’Italia come fattore dirimente per la scelta del porto di approdo, che deve essere solo “il più vicino” e “il più sicuro” possibile, per l’appunto.

In quest’ottica fa bene Zuccaro a domandarsi come mai, a fronte di un salvataggio condotto a poche miglia nautiche dalla costa libica, non possa essere considerato “porto più sicuro” quello della vicina Zarzis, in Tunisia (90 miglia nautiche dalle acque libiche), o quello di La Valletta a Malta (180 miglia nautiche), ma si scelga invece di percorrere le 250 miglia che separano le zone di salvataggio dall’Italia. 

Altrettanto degne di considerazione sono le ipotesi investigative che intendono chiarire le modalità di intervento delle ONG nel tratto di mare immediatamente a ridosso delle acque libiche: perché un conto è intervenire su impulso e richiesta del comando marittimo italiano dietro riscontro del pericolo imminente per le imbarcazioni alla deriva, un conto è invece operare in mancanza di un’ oggettiva situazione di pericolo sulla base di contatti radio o internet del tutto estranei al nostro coordinamento nazionale, nel caso relegato alla certificazione ex post di operazioni di salvataggio di cui non si conoscono dinamiche e contorni, e che di fatto sfuggono totalmente al controllo della frontiera marittima italiana.

I numeri che interrogano la politica

Né basta la qualificazione di “umanitarie” a sollevare queste operazioni dal peso ingombrante dei numeri: dal 2013 a oggi i morti in mare sono tragicamente aumentati, non diminuiti, fino a raggiungere il picco di 5000 nel 2016.

Ancora, i dati sull’asilo in Italia negli ultimi 4 anni certificano che degli oltre 600 mila arrivati solo 340 mila hanno formulato una qualche richiesta di protezione o di asilo. Di questi, solo 110 mila l’hanno ottenuta. Fra i 181 mila arrivi del 2016, 91 mila hanno chiesto il riconoscimento della protezione internazionale. Il 5% ha ottenuto lo status di rifugiato, il 14% ha ottenuto la protezione sussudiaria, il 21% ha ottenuto quella umanitaria. Per 54.254 mila richiedenti, il 60% del totale, l’esito è stato il diniego.  

C’è poi l’altro lato della medaglia: il costo economico sempre più elevato destinato dallo Stato italiano al capitolo dell’accoglienza. Oltre quattro miliardi e mezzo allocati nel Def 2017 . Un miliardo in più rispetto al 2016, in cui la spesa fu di 3,6 miliardi. Mille milioni in più anche rispetto alla “manovrina” correttiva da 3,4 miliardi varata dal ministro Padoan nel mese di aprile in ossequio alle regole della stabilità europea.

Il piano "Mogherini": una soluzione possibile

Sono questi i nodi politici ormai ineludibili che l’inchiesta del procuratore Zuccaro ha fatto emergere, che portano tutti ad un’unica conclusione: la sacrosanta salvaguardia delle vite umane e la lotta al traffico di migranti va spostata dal mare alla terra, là dove hanno origine i flussi e dove operano le reti criminali che si arricchiscono alle spalle di chi cerca una vita migliore.  Suggerisce, il procuratore di Catania, di perseguire con più convinzione l’idea della creazione di corridoi umanitari sicuri, idea che fu lanciata già nell’aprile 2015 nel Piano Migranti messo in piedi dall’ Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza Federica Mogherini e che prevedeva, insieme al monitoraggio costiero ed al contrasto agli scafisti, la creazione di veri e propri “hub” di accoglienza nei punti nevralgici della rotta sub-sahariana, dove poter accogliere, identificare, smistare le richieste di chi ha effettivamente diritto, in base alle norme internazionali, ad ottenere lo status di rifugiato. E dove poter stabilire, in base agli indicatori della domanda e dell’offerta, quote percentuali di permessi di lavoro nei paesi europei, controllate e finalmente impermeabili al reclutamento del caporalato e della malavita organizzata nei paesi di accoglienza.