[L’analisi] I ministri spariti del governo del cambiamento. La squadra di Di Maio non c’è più
Che sia rivoluzione o no, sembra davvero di stare in mezzo a un mondo rovesciato, con la destra che parla come la sinistra citando le sue parole d’ordine, come «il lavoro e la speranza», e la sinistra che dopo aver fatto il jobs act invita tutti a sedersi in poltrona con i popcorn, come i migliori qualunquisti d’antan. E’ questo il vento che soffia
Non sono soltanto le parole che se le porta via il vento. Anche il governo Di Maio, presentato in pompa magna il primo marzo al Salone delle Fontane, è già bello che sparito. Dei 17 ministri più il premier candidato, con la sua luccicante parata di tecnici, all’incirca una decina, e con cinque donne, tre delle quali in ministeri chiave, agli Interni, alla Difesa e agli Esteri, non è rimasto quasi più niente. Sull’altare dell’accordo con la Lega sono stati sacrificati tutti quei nomi che facevano tanto immagine e nuova tendenza. Ci sarebbe Giuseppe Conte, il giurista promosso addirittura dalla Pubblica Amministrazione alla Presidenza del Consiglio, (sempre che Mattarella accetti il suo nome, visto che qualche dubbio pare ce l’abbia). Forse, il generale dei carabinieri Sergio Costa all’ambiente. Ma gli altri?
I potenziali ministri retrocessi
Il nuovo che avanza comincia da qui, da una logica di alleanza che ha dimenticato in fretta tutte quelle competenze presentate con orgoglio alla stampa tre giorni prima del voto che ha consacrato il Movimento 5 Stelle. Occhio alle sorprese, comunque: siete sicuri che un costituzionalista come l’attuale Presidente della Repubblica accetti un premier, che non è stato votato da nessuno, che non ha alcuna esperienza politica e dovrebbe fare solo il notaio di un programma al quale non ha minimamente partecipato? Detto questo, lui è in ogni caso uno dei pochi tecnici del governo presentato da Di Maio il primo marzo che resta in auge. Gli altri sono stati tutti retrocessi. In quella lista dei dicasteri non c’è più il nome di Paola Giannetakis, 45 anni, perugina, esperta di analisi comportamentale, laureata in psicologia, che al Salone delle Fontane aveva parlato come la candidata in pectore degli Interni, spiegando che «la minaccia nel nostro Paese è multiforme in virtù della trasformazione dei fenomeni criminali» e ipotizzando già «l’introduzione di un sistema di sicurezza partecipata». Solo che quella casella è pretesa da Salvini, che non vuole perdere l’occasione di fare piazza pulita dei migranti senza tanti modernismi di sorta e belle parole: «Vogliamo il Viminale per rimpatri ed espulsioni». Stop. Giannetakis aveva anche detto: «La sicurezza è una complessità articolata che non può risolversi con l’inondare le strade di forze di polizia e militari». Altre parole che non sembravano molto in linea con le intenzioni del leader leghista. Un altro nome sparito è quello di Elisabetta Trenta, 50 anni, da Roma, che Luigi Di Maio il 5 marzo aveva piazzato alla Difesa. Solo che per quella poltrona ieri si facevano i nomi di Riccardo Fraccaro (per il quale era in ballo anche il ministero per la semplificazione) e addirittura quello di Guido Crosetto, il presidente di Fratelli d’Italia, nel disperato tentativo andato a male di portare con la maggioranza anche i voti di Giorgia Meloni. Elisabetta Trenta era veramente un tecnico ad hoc, essendo un capitano della riserva selezionata dell’Esercito e vicedirettore del Master in Intelligence e Sicurezza della Link Campus University di Roma, che ha prestato servizio in Iraq nel 2005 e 2006 come political advisor del ministero degli Esteri e in Libano come country advisor per il ministero della Difesa. L’ultima sua missione in Libia, come responsabile per il reintegro degli ex combattenti.
Ma l'elenco degli "scomparsi" è lungo
Altra donna saltata è Emanuela Del Re, esperta di geopolitica e sicurezza, migrazioni e rifugiati, questioni religiose e minoranze. Osservatrice internazionale per l’Onu, ha collaborato in ricerche sul campo con i contingenti italiani nei Balcani e in Afganistan. «Sarà il nostro ministro degli Esteri», aveva promesso Di Maio. Al suo posto, invece, potrebbe finire Giampiero Msssolo, 64 anni, presidente di Fincantieri e dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi), che dal 4 marzo in poi aveva vagato sui giornali pure per altri ruoli ancora più rappresentativi come quello del Presidente del Consiglio. Massolo, nato a Varsavia e cresciuto a Torino nella Fiat, si differenzia dagli altri tecnici di area 5 Stelle perché lui è stato a lungo un uomo delle istituzioni, che ha attraversato tutte le repubbliche, dalla prima alla seconda, fino a quest’ultima che dovrebbe essere la Terza. Ha lavorato con Andreotti, poi è stato consigliere diplomatico aggiunto nel governo Ciampi, anno 1993, capo segreteria del Presidente del Consiglio nel primo governo Berlusconi e ancora con Dini. Quando c’era Prodi era capo ufficio stampa al Ministero degli Esteri. Nell’elenco dei tecnici che aveva presentato Di Maio c’erano Lorenzo Fioramonti, professore ordinario di economia politica all’università di Pretoria, allo Sviluppo Economico, Pasquale Tridico, docente di economia del Lavoro e politica economica a Roma 3, per il Lavoro (i due incarichi dovrebbero essere assorbiti dal dicastero del leader dei 5 Stelle), Alessandra Pesce, dirigente del Crea, ente di ricerca, al ministero delle Politiche agricole, che è una poltrona invece molto ambita dai leghisti, e Armando Bortolazzi, anatomopatologo del Sant’Andrea di Roma, che avrebbe dovuto andare al Ministero della Salute. Restano in bilico Salvatore Giuliano, preside dell’Itis Maiorana di Brindisi, all’Istruzione e Sergio Costa, il generale dei carabinieri che aveva guidato in campania l’inchiesta sulla Terra dei Fuochi, all’Ambiente.
Unico leader del governo è il programma
Quasi a voler sorvolare su questi cambiamenti da real politik, Di Maio, appena uscito dall’incontro con Mattarella, ha voluto assicurare che l’unico «leader del nostro governo è il programma». In effetti sarebbe stato troppo azzardato citare il professor Giuseppe Conte come il Grande Nome da presentare agli italiani. Per adesso è solo una grande incognita, l’esecutore di un contratto assurto allo scranno della Presidenza. Ma sono tempi così. Che sia rivoluzione o no, sembra davvero di stare in mezzo a un mondo rovesciato, con la destra che parla come la sinistra citando le sue parole d’ordine, come «il lavoro e la speranza», e la sinistra che dopo aver fatto il jobs act invita tutti a sedersi in poltrona con i popcorn, come i migliori qualunquisti d’antan. E’ questo il vento che soffia.