Il bersaglio sbagliato: hanno preso di mira il Mes, ma i rischi sono altrove
Alcune critiche sul Fondo Salva-Stati sono state puntuali e informate, molte altre purtroppo si sono basate su inesattezze
In queste settimane sono molte le voci che si sono levate contro la riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità, il MES, anche noto come Fondo Salva-Stati. Alcune critiche sono state puntuali e informate, molte altre purtroppo si sono basate su inesattezze, a volte su errori abbastanza plateali e altre ancora su ipotesi del tutto false. Il risultato è che si è avuto un po’ di dibattito sul merito, non molto, e tanta campagna politica.
È il Mes a mettere a rischio l’interesse nazionale?
A rischio secondo molti è l’interesse del nostro paese. Ma se questa è la questione, forse la riforma del MES non è il bersaglio giusto. Essa in fondo, introduce due cose: la prima è la possibilità di finanziare a credito il fondo europeo a supporto delle banche in difficoltà (il cosiddetto common backstop), fornendo così una copertura ulteriore al sistema; la seconda è qualche strumento in più per garantire che i prestiti fatti ai paesi in forte difficoltà dell’area euro vengano poi restituiti. Il primo punto, viste le debolezze dei sistemi bancari dei principali paesi europei, incluso il nostro, sicuramente non è da disdegnare, anzi. Il secondo, posto che l’Italia è il terzo contributore del MES, ci garantisce come paese creditore. Perché le valutazioni vanno fatte non solo pensando a una crisi dell’Italia, ma anche alla crisi di altri paesi, e quindi ponendoci una volta tanto anche dalla parte dei creditori e non solo da quella dei potenziali debitori. Migliorare è sempre possibile, ma il meglio è notoriamente del bene e in ogni caso il risultato finale dovrà comunque essere un compromesso tra posizioni diverse. Quale sarà si capirà dopo il vertice dei paesi dell’area euro in programma il prossimo 13 dicembre.
I problemi sono altrove
Piuttosto che prendere di mira il MES allora, forse le mille voci critiche avrebbero potuto inquadrare nel mirino un altro strumento su cui si è ricominciato a ragionare: l’EDIS. Le quattro lettere sono l’acronimo di European Deposit Insurance Scheme, ovvero schema europeo di assicurazione dei depositi bancari. La crisi del 2011-12 ha insegnato, seppure a fatica, che sarebbe molto più saggio, a fronte di una moneta comune e di una banca centrale comune, che il sistema bancario possa contare su di un quadro regolatorio e di sostegno comune. Da allora si ragiona sulla cosiddetta Unione Bancaria, istituendo uno dopo l’altro, e senza troppa fretta, i pezzi che la dovrebbero andare a comporre. Il primo è naturalmente dato dalla Banca Centrale Europea e dal sistema di banche centrali nazionali, che regolamentano e vigilano sul settore. A esso è stato affiancato il Codice Unico Europeo che stabilisce i requisiti patrimoniali degli istituti di credito e disciplina la prevenzione e la gestione dei dissesti bancari. Per sostenere le singole banche e più in generale il sistema, infine, è stato creato un Fondo di Risoluzione Unico al quale gli istituti si possono rivolgere nei periodi di crisi. Come accennato sopra tra l’altro, attraverso il common backstop il Fondo verrebbe ulteriormente coperto da una linea di credito erogabile dal MES. A grandi linee, quindi, abbiamo la regolamentazione, la vigilanza e un fondo di sostegno agli istituti di crisi. Per completare il quadro manca uno strumento comune di assicurazione dei depositi nel malaugurato caso che una banca fallisca. Al momento ogni paese ha il suo strumento che copre i depositi fino a 100mila euro. Uno strumento comune di assicurazione vuol dire però che se una banca di un paese fallisce, a farsi carico del rimborso dei suoi correntisti, per i depositi fino a 100mila euro, sarebbe l’Europa, e quindi l’insieme di tutti i paesi. In linea di principio sono tutti d’accordo, in base all’assunto che condividere il rischio vuol dire farlo diminuire, con vantaggi per tutto il sistema. Non è detto, tuttavia, che i vantaggi si ripartiscano in modo eguale all’interno del sistema. Ed è qui che cominciano i problemi.
Condividere i rischi non è facile
La condivisione del rischio comporta la definizione di ciò che è rischioso e di ciò che non lo è, con conseguenti nuove regole per le banche. Ed è qui che il negoziato si è arenato per lungo tempo. Ogni paese, infatti, da una parte vede l’opportunità di accollare al sistema le proprie debolezze, dall’altra non vuole farsi carico di quelle altrui. Per dirne una, se le mie banche hanno un problema perché ad esempio hanno ancora troppi crediti deteriorati o inesigibili (i cosiddetti Non Performing Loans - NPL) io cercherò di far sì che la nuova normativa non sia troppo restrittiva a riguardo (è il caso dell’Italia). Se invece nel patrimonio delle mie banche vi è una quota importante di titoli che non possono essere venduti facilmente cercherò di far sì che sulla questione si sia abbastanza di manica larga (è il caso della Germania). Insomma, ogni sistema bancario ha i suoi problemi, soprattutto quelli dei paesi maggiori, e ogni paese cerca di tutelarsi tirando dalla propria parte e diffidando degli altri. E così a oggi non si è fatto nessun passo avanti.
Allarme rosso a via XX settembre
Le cose si sono mosse lo scorso 5 novembre con un intervento sul Financial Times del Ministro delle Finanze tedesco, Olaf Scholz. Il succo dell’intervista è che il governo tedesco potrebbe essere interessato a far ripartire concretamente il negoziato sull’EDIS, che aveva invece mantenuto in una fase di stallo, ma ponendo alcuni paletti. Tra di essi ce n’è uno che ha fatto subito scattare l’allarme rosso al Ministero dell’Economia e delle Finanze e all’Associazione Bancaria Italiana. Nello schema delineato da Scholz le banche dovrebbero considerare i titoli di stato non più come neutrali, ma come titoli comportanti una dose seppur minima di rischio. Dose che dipenderebbe dal loro rating e dalla quantità posseduta rispetto al resto delle attività. La cosa, oltre a implicare la rischiosità del debito sovrano e quindi l’ipotetica possibilità di una ristrutturazione, sarebbe dirompente per il sistema bancario italiano. Le banche del nostro paese, infatti, hanno in pancia centinaia miliardi di titoli di stato italiani e si troverebbero a dover accantonare capitale a copertura del loro grado di rischiosità, cosa finora non richiesta. Il risultato sarebbe inevitabilmente una vendita massiccia di bot, btp e ctz sul mercato, con conseguente calo del loro prezzo. Ma soprattutto diminuirebbe la capacità di assorbimento delle banche italiane del nostro debito pubblico con conseguenti problemi di collocamento alle varie aste indette dal Ministero dell’Economia e Finanze. È il negoziato sull’EDIS quindi quello in cui è effettivamente in gioco l’interesse del nostro Paese. È su di esso che si dovrebbero concentrare gli sforzi intellettuali, di critica, ma ancor più di proposta dei tanti che si sono applicati alla riforma del Fondo Salva-Stati. Nella fretta, hanno scelto il primo bersaglio che hanno trovato. Era quello sbagliato.