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Il tetto alla spesa pubblica, tagli del debito, Pnrr “lento”: i vincoli di Meloni nella scelta delle alleanze Ue

Bruxelles, con la procedura d’infrazione, ci ha indicato anche la “traiettoria tecnica” della spesa pubblica nei prossimi anni. Giorgetti cammina su un filo di lana. Fitto, con il Pnrr, anche. Ecco perché difficilmente saranno loro a lasciare palazzo Chigi per andare a Bruxelles. Intanto oggi arriva Orban alla viglia del semestre ungherese

Claudia Fusanidi Claudia Fusani   
La premier Giorgia Meloni (Shutterstock)
La premier Giorgia Meloni (Shutterstock)

Tredici miliardi di taglio del debito ogni anno per i prossimi sette anni. Un tetto corposo alla spesa pubblica. Alcuni vincoli del tipo che sono da evitare misure “volanti”, non strutturate, finanziate a deficit per un solo anno, in pratica tutte quelle di quest’anno, dal taglio del cuneo alle aliquote Irpef. 

Se ne parla il meno possibile. Sono numeri e percentuali tenuti sotto traccia nel grande gioco dei top jobs europei e delle riforme italiane alla prova dei referendum che verranno. Ma sono i numeri dei nostri conti pubblici con cui tutta la classe dirigente italiana dovrà farei conti nei prossimi mesi ed anni. Numeri che anche i cittadini dovranno stamparsi bene in testa perchè avranno a che fare direttamente, nel bene e nel male, con il nostro quotidiano.  A complicare le cose ci si mette anche il Pnrr, croce e delizia della nostra economia.

Le regole d’ingaggio

E’ sempre Bruxelles il centro e il motore di tutto. Se mercoledì 19 la Commissione ha comunicato a Roma e ad altre sei capitali europee l’avvio della procedura d’infrazione, venerdì 21 la stessa Commissione ha comunicato in modo riservato al governo le regole d’ingaggio che renderà note a settembre secondo la tempistica del nuovo Patto di stabilità e crescita per far uscire l’Italia dalla procedura d’infrazione. Venerdì quindi è stata comunicata la “raccomandazione” sulla correzione “strutturale" da perseguire ogni anno. Dove la scelta del termine “strutturale” implica che non saranno gradite misure come quelle una tantum che sono invece la specialità italiana. Il taglio del cuneo? Dura un anno, poi se lo vogliamo ripetere dobbiamo trovare nuovamente i soldi. L’accorpamento delle aliquote Irpef? Idem come sopra. E così per la totalità dei capitoli della legge di bilancio 2024. D’ora in poi questa misure se vogliamo ripeterle dovranno diventare, appunto, “strutturali”. Tutto questo, per farla semplice, implica un tetto insuperabile alla spesa pubblica.

Sul piano di risanamento l’Italia non può che scegliere quello spalmato su sette anni (quello su tre richiederebbe una stretta di bilancio di circa 20 miliardi fino al 2028, impossibile).  Sappiamo già che il piano di rientro in sette anni comporta un taglio di circa 13 miliardi del deficit. Per essere più chiari: l’Italia, per i prossimi sette anni, ogni anno a gennaio parte con -13 (miliardi). A settembre il ministro Giorgetti spiegherà come intende fare.

La traiettoria tecnica

A questo punto va ricordato che le nuove regole europee prevedono, accanto alla correzione annua del deficit, anche una “traiettoria tecnica” della spesa pubblica. Valutati fattori come le dinamiche dei prezzi, l’invecchiamento della popolazione, il potenziale dell’economia, la traiettoria della spesa italiana potrà crescere circa dell’1,8% all’anno. Al Mef dicono che si tratta di una traiettoria immaginata e attesa dal ministro Giorgetti. Da qui il suo aplomb e l’invito a non drammatizzare. In qualche modo sarebbe tutto sotto controllo. Il problema è che non si capisce come. 

E qui interviene la vera incognita, il Pnrr. Che sarebbe troppo indietro. anzi, lento. Restano circa cento miliardi di prestiti - che non è un dettaglio - da usare tra il 2025 e il 2026. Questi cento miliardi  - un boom di spesa pubblica pari a circa il 4% del pil - rischiano di far saltare la “traiettoria” indicata da Bruxelles. E di far saltare l’equlibrio nei conti pubblici che sarebbe il vero miracolo del ministro Giorgetti. A questo punto però, visto che procedura d’infrazione e Pnrr sono veramente intrecciati,  il ministro Fitto dovrà essere un po’ più collaborativo con Bruxelles comunicando ad esempio le previsioni di spesa anno su anno. E dovrà farlo a partire da settembre. Cosa che faceva Draghi ma non ha più fatto Fitto. Che in settimana deve chiudere i 37 obiettivi che aprono la strada per la richiesta della sesta rata del Pnrr. Negli stessi giorni, in questa settimana, devono arrivare i 10, 6 miliardi collegati ai 52 obiettivi della quinta rata del secondo semestre 2023. Se non arrivano, sono problemi per i conti di Giorgetti. E per Fitto. I due, tra l’altro, non si sono mai troppo amati.

Anche solo da questo “assaggio” si capisce perchè nè Fitto nè Giorgetti possono andare a fare i commissari europei. In politica è tutto possibile, ma sostituire uno dei due sarebbe come togliere benzina a un motore, l’Italia, che ha già di per sè molte difficoltà. Il commissario di peso, o il top job che conta, dovrà essere qualcun altro. L’ipotesi Enrico Letta alla presidenza del Consiglio è sul tavolo. 

Una settimana cruciale

Tutto questo ci porta alla settimana europea. Che inizia oggi a palazzo Chigi dove Viktor Orban incontrerà la premier Meloni alla vigilia dell’avvio del semestre europeo a presidenza ungherese (Primo luglio).  E terminerà venerdì quando si chiuderà il Consiglio europeo che, secondo previsioni, dovrà decidere gli incarichi di vertice della nuova Europa. In mezzo, mercoledì, la premier informerà il Parlamento su quale partita intenderà giocare.

Il mini tour di Orban farà tappa anche in Germania e in Francia. L’attivismo del premier magiaro è cresciuto nelle ultime settimane perché le elezioni europee non sono andate bene per il suo partito Fidesz mentre il suo rivale interno, l’astro nascente Peter Magyar, ha avuto un buon successo ed è entrato subito nel Ppe.

Su immigrazione, sfida demografica, limitazione della sovranità europea il leader di Fidesz cercherà, e probabilmente troverà, l’asse con Giorgia Meloni. Ma sul posizionamento rispetto alle nomine dei vertici Ue i due restano distanti. Tra i due, solo la premier italiana può giocarsi la carta del dialogo con la maggioranza politica uscite dalle urne europee. Maggioranza - Ppe,S&D e Renew Europe - che ha la maggioranza (399 voti su 361 necessari) ma che teme molto i franchi tiratori.

La presidenza ungherese

Inizierà il primo luglio sotto il segno dello slogan trumpiano “Make Europe Great Again”. “Saremo onesti mediatori” hanno spiegato dal governo di Budapest provando a raffreddare l’allarmismo che circola a Bruxelles sulla gestione del semestre. Difesa, competitività, un'ulteriore stretta all'immigrazione, allargamento con vista sui Balcani Occidentali, più che sull’Ucraina, saranno alcuni temi chiave di una presidenza che potrebbe limitare la portata attuativa del Green Deal e che di certo non si concentrerà sulle riforme istituzionali della Ue. Su molti di questi temi Orban può contare sull’appoggio del governo italiano e sulla virata a destra che, sebbene meno del previsto, ha segnato le elezioni europee. Il voto in Francia, e la possibile vittoria di Marine Le Pen, avrà un ruolo dirimente.  Le destre sovraniste sono già nei governi di Olanda, Finlandia e Repubblica Ceca. Paesi ai quali va aggiunta la Slovacchia guidata dal sovranista, ex membro dei Socialisti, Robert Fico.

Il sostegno all’Ucraina e il posizionamento sui top jobs Ue in vista del vertice di giovedì e venerdì continuano invece a dividere Meloni e Orban. La premier italiana, assieme a Fiala, è l’unica leader a cui il Ppe guarda per l’allargamento a destra della maggioranza sul voto a Ursula von der Leyen. Per i Popolari, che si sentono i vincitori e quindi i registi delle trattative, sono almeno tre i pilastri della nuova Europa:la garanzia alla pace, la crescita economica, la limitazione dell’immigrazione con il prosieguo della politica dei patti con i Paesi africani. Ed è proprio il tema dei migranti che potrebbe portare il Ppe a convergere con i Conservatori piuttosto che con i Verdi. 

Il commissario di peso

Meloni, lato suo, tiene il punto sull’unica contropartita che può giocare: un commissario di peso per l’Italia. Uno in grado di garantire palazzo Chigi sulla partita economica, il rientro dal deficit e dal debito, il via libera alla quinta rata del Pnrr che, già in ritardo, deve arrivare entro la settimana (stamani ci sarà una cabina di regia per la sesta rata), il ritardo sulla spesa effettiva dei fondi. E così si torna là dove avevamo iniziato: ai nostri conti pubblici, il non-detto, il convitato di pietra di ogni incontro e trattativa.  Meloni ha bisogno di Bruxelles molto più di quanto possa averne Orban. Ecco perchè i due amici giocano oggi una partita diversa sui top jobs. Le porte dei Conservatori sembrano chiuse per sempre al leader magiaro e a tutti coloro che stanno alla sua destra. Almeno fin tanto che la nuova governance europea prenderà forma e sostanza.

Claudia Fusanidi Claudia Fusani   
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