[L'analisi] Manovra sbilenca con il veleno nascosto nella coda: un fossato tra i premiati e i puniti
All’incasso passano piccoli imprenditori e commercianti, disoccupati e pensionandi con quota 100. Colpiti i pensionati d'oro, le banche e le imprese

Al traguardo del voto finale della Camera arriva una Manovra del Popolo monca, sbilenca, con il veleno nascosto nella coda. Soprattutto, nella serie infinita di commi del maxiemedendamento che la riassume, si disegna una mappa sociale inedita, per crudezza e parzialità: la prima Finanziaria del populismo italiano scava, infatti, un fossato tra chi premia e chi punisce. Dietro il consueto spolverio di mance di ogni superprovvedimento di fine anno (dai tassisti ai bagnini) c’è chi, nonostante i tagli imposti da Bruxelles, passa comunque all’incasso: piccoli imprenditori, professionisti, commercianti (flat tax e condono), disoccupati o evasori (reddito di cittadinanza), la fascia di lavoratori benestanti sulla soglia della pensione (quota 100). A pagare, invece, sono le classi medie dei pensionati, le banche, le imprese e, in prospettiva, i lavoratori dipendenti nella veste di consumatori. Non basta: per mantenere le sue mance elettorali, la Manovra ha venduto l’anima. Doveva essere la Finanziaria che turbocaricava una economia stagnante: taglia, invece, gli investimenti, tassa credito e fatturati di banche e imprese, strozza, in prospettiva, con gli aumenti in calendario dell’Iva, i consumi, prepara un 2020 difficilissimo.
IL PACCHETTO PENSIONI
E’ sulla previdenza che il governo ha accumulato una serie di interventi, in varie direzioni. Lo smantellamento della Fornero è stato (provvisoriamente) ridimensionato ad una sorta di “finestrona” per cui, per tre anni, chi mette insieme 62 anni di età e 38 di contributi, può accedere alla pensione, sia pure decurtata rispetto a quanto prenderebbe aspettando i 67 anni della Fornero. L’esborso previsto per il 2019 (ma non per gli anni successivi) è stato contenuto facendo slittare le date di primo accesso (marzo per i privati, giugno per gli statali, ma bisognerà aspettare lo specifico testo di legge). Si risparmiano così quasi 3 miliardi di euro sui 7 previsti. Chi paga gli altri 4? Non le pensioni d’oro, quelle condannate, in mesi di retorica, propaganda e minacce dei 5Stelle.
Invece di essere un tesoro da spargere a piene mani, infatti, dalle pensioni molto alte, come era facile calcolare e prevedere, si possono ricavare solo pochi spiccioli: una settantina di milioni l’anno. Partendo da un trattamento di 100 mila euro l’anno, anziché di 90 mila, come inizialmente previsto, il numero dei pensionati interessati si dimezza a 20 mila. E, anche se il contributo che dovranno pagare per 5 anni vede l’aliquota salire a passi da canguro (si comincia con il 15 per cento, che diventa il 25 sopra i 130 mila, 30 per cento fra 200 e 350 mila, 35 per cento fino a 500 mila, 40 per cento oltre) queste pensioni pagano già un’Irpef pesante, al 43 per cento. Dal contributo bisogna dunque scalare gli incassi tributari perduti, un circolo vizioso in cui i 5Stelle sembrano perdersi regolarmente. E l’incasso complessivo si riduce a meno di 240 milioni in tre anni.
LE CLASSI MEDIE
Molto di più – un miliardo di euro l’anno – il governo pescherà, come molti temevano, allargando alle pensioni medie e medio basse, la platea dei trattamenti colpiti. Il taglio non è sull’assegno, ma sulla sua rivalutazione in base all’inflazione. Il fatto che sia declinato al futuro non significa che non morda. Per una pensione fra i 3 e i 4mila euro lordi (oltre 2 mila euro netti al mese), calcola la Cgil, si perdono circa 50 euro al mese. Il meccanismo, infatti, funziona così. Una pensione di 4.500 euro lorde al mese (circa 3 mila euro nette) se l’inflazione 2019 sarà dell’1 per cento, verrà rivalutata solo dello 0,4 per cento. Man mano che si scende nella scala delle pensioni, questa quota di rivalutazione sale: sempre nell’ipotesi di una inflazione all’1 per cento, una pensione fra 4.000 e 4.500 euro lorde recupera lo 0,45 per cento, fra 3 e 4 mila lo 0,47 per cento, fra 2.500 e 3 mila lo 0,52 per cento, lo 0,77 per cento fino a 2 mila euro, quasi tutto (0,97 per cento) per le pensioni fino a 1.522 euro, equivalenti a tre volte il minimo di pensione.
Saranno dunque colpite circa il 60 per cento delle pensioni. Il calcolo su quanto si perde, tuttavia, dipende dal ritmo effettivo di inflazione. Se l’inflazione, invece che all’1, fosse al 2 per cento, i soldi che vengono a mancare in busta paga sarebbero il doppio. Cento e non 50 euro al mese, per una pensione di 2 mila euro nette. Un simile congelamento già esisteva, ma sarebbe scaduto l’anno prossimo. Ora il governo lo prolunga di altri tre anni. Attenzione, la perdita è permanente: quando, nel 2022, la rivalutazione dovrebbe tornare ai valori normali, infatti, la pensione non recupererà i soldi persi durante questo congelamento.
IL REDDITO DI CITTADINANZA
L’altra grande promessa gialloverde partirà solo in primavera e questo dovrebbe consentire di risparmiare 2 miliardi di euro, rispetto ai 7 miliardi inizialmente previsti. I meccanismi sono ancora tutti da scoprire, ma già sta sfumando nella nebbia l’aspetto più vitale del progetto, il rilancio dei centri per l’impiego e, dunque, con essi, supporti e controlli sul collegamento fra sussidio e ricerca di una occupazione. D’altra parte, se la manovra è sbilenca nei distribuire i costi sociali degli interventi, è monca nella sua promessa principale: il rilancio dell’economia e dell’occupazione.
LA SCOMPARSA DEGLI INVESTIMENTI
Doveva essere la manovra della ripartenza, ma non ci sono più i fattori che spingono. Il ridimensionamento di quota 100 e reddito di cittadinanza significa, perversamente, che verranno a mancare quei fattori, sia pure temporanei, di stimolo ai consumi che erano stati calcolati nelle previsioni di sviluppo del prossimo anno. Oltre a questo fuoco di paglia, tuttavia, viene a mancare anche il fiato alle banche e alle imprese, che dovrebbero assicurare il credito e gli investimenti. La manovra aumenta le tasse su questi due volani di crescita per 6 miliardi di euro. Soprattutto, dopo molte promesse, sono scomparsi gli investimenti pubblici, il grande rilancio delle infrastrutture che era stato promesso. Nonostante i 3,6 miliardi euro per interventi eccezionali a cui la Ue ha dato il via libera, gli investimenti pubblici, nel 2019 non solo non aumenteranno di 1,4 miliardi di euro, rispetto al 2018, ma diminuiranno di oltre un miliardo. Investimenti, classi medie, banche e imprese: i soldi per quota 100 e reddito di cittadinanza sono stati trovati qui.
IL VELENO NELLA CODA
Tuttavia, il costo della manovra non si esaurisce qui. Reddito e quota 100 sono stati ridimensionati nel 2019, ma saranno a regime (con un costo di circa 10 miliardi di euro in più, rispetto al 2019) nel 2020. Il governo ha deciso di pagarle, ipotecando un nuovo aumento dell’Iva. Non è una novità: le clausole di salvaguardia (scattano se non si trovano altrove i soldi) ci sono dall’epoca del governo Monti. Ma, nel 2020, i soldi da trovare per fermare l’Iva – come Di Maio ha già promesso – arrivano alla quota record di 23 miliardi di euro, contro i 12,5 di quest’anno. In pratica, bisognerà andare in deficit per l’1,5 per cento del Pil, solo per non far scattare l’Iva. Oppure, reddito e quota 100 saranno pagati da tutti con l’Iva al 25,5 per cento, anziché al 22. Un maxiaumento che strangolerebbe i consumi e, dunque, l’economia, in un momento in cui molti prevedono l’economia internazionale e l’Italia in recessione.