La Meloni con la febbre e la Manovra che divide la maggioranza fra il caso Rampelli, gli alleati e il Mef
La presidente del Consiglio ha disertato il Cdm che ha licenziato il Mille proroghe. Febbre tattica in polemica con la sua maggioranza?

Per i cinghiali che se sorpresi intorno ai cassonetti in città potranno essere uccisi (sparati) e anche mangiati? O per gli undici condoni più o meno mascherati? Per i passi indietro (numerose le misure annunciate, scritte e poi ritirate)? O perchè nel complesso la manovra Giorgetti ha avuto al primo esame l’approvazione di Bruxelles cosa che, date le condizioni, non era scontato? Per aver nei fatti abolito il Reddito di cittadinanza (a cui restano ancora sette mesi) per sostituirlo con non si sa cosa? O per aver messo in piedi una querelle sul bonus cultura per i diciottenni abbastanza indegna? Parliamo della App18, il bonus che risale al 2016 (governo Renzi) costo circa 300 milioni l’anno, soldi che vanno ai ragazzi quando compiono 18 anni e possono spenderli per libri, cinema, spettacoli, concerti, teatro, libri, corsi di lingua. Il governo Meloni lo ha voluto togliere. Anzi no. Dipende da chi ne parla.
Il vaevieni dei soldi
Secondo Matteo Renzi avendo il governo deciso di limitare il bonus alle famiglie con reddito fino a 35 mila euro, il valore del bonus è stato nei fatti quasi dimezzato. “Hanno tolto soldi alla cultura per darli ai grandi club di calcio” ha tagliato corto il senatore leader del Terzo Polo. Ieri sera è intervenuto direttamente il Mef con un comunicato per dire che non è vero, che “le risorse impegnate nella Carta della Cultura Giovani 2024 (quando una cosa piace, almeno le si deve cambiare nome per poi poter dire “l’abbiamo fatta noi”, ndr) sono le stesse impegnate nell’anno 2022”. Il capogruppo della Bilancio per Italia viva, Luigi Marattin, ha definito “mala tempora quelli in cui un’istituzione seria come il Mef si deve prestare alla propaganda. Nel 2022 c’erano 230 milioni sul bonus cultura. Nel 2023 zero”.
Mille motivi per passare alla storia
Deciderà la cronaca per quale motivo la prima manovra del primo governo di destra al governo in Italia passerà alla storia. Il paradosso potrebbe essere anche tutto sommato si trova abbastanza poco del repertorio, almeno propagandistico, della destra tradizionale nei circa 200 articoli della legge di bilancio 2023. Economicamente il ministro Giorgetti ha fatto il miracolo di essere, come promesso, rigoroso e prudente con i conti pubblici. Quindi, tanto di cappello. Per 2/3 è nei fatti una legge di bilancio già scritta da Mario Draghi. Su 35 miliardi, 21 erano già impegnati contro il caro bollette. Il price cap a 180 deciso in settimana a Bruxelles (finalmente) potrebbe aiutare a migliorare la situazione. La fine delle guerra era e resta l’unica vera soluzione. Sui 14 miliardi restante si è scatenato come prevedibile il sabba degli appetiti politici e di parte.
Ma è la lettura politica della manovra, il contesto in cui si arriva a oggi, a otto giorni dall’obbligo di conversione per evitare l’esercizio provvisorio, senza aver fatto neppure in pratica neppure un voto (a parte una notturna), che va letto ed esaminato.
“Pronti?” è già un boomerang
Pronti? No, ancora no. Non è pronto il testo della legge di bilancio visto che a dodici ore dall’arrivo in aula per la discussione generale e poi il voto di fiducia, ieri pomeriggio i relatori erano avvistati nei pressi dei palazzo dei gruppi in cerca di emendamenti dati per certi e poi spariti. Ad esempio il 56.018 con cui si prevede che “la sospensione per ragioni sanitarie del pagamento dei tributi per liberi professionisti sia estesa anche a quelli contributivi e assicurativi”. Era una richiesta trasversale. C’era. E’ sparita. Valore circa un milione. Così ieri pomeriggio è spuntata nuovamente l’ipotesi di un “ritorno in Commissione per correzioni tecniche”. Non è solo una questione di coperture. Mancherebbero pezzi di emendamenti ( ad esempio quello sui comuni) tali da stravolgere il senso dell’emendamento licenziato.
E non è “pronta” neppure Giorgia Meloni. Ieri mattina, dopo che martedì pomeriggio era intervenuta di persona per stoppare il caso del condono penale per reati tributari e fiscali, la signora Presidente del Consiglio ha rinunciato a presiedere il Consiglio dei ministri. La motivazione ufficiale è ancora quella maledetta febbre che certo il ritmo degli impegni in queste settimane non aiuta a cacciare indietro. E però gli osservatori delle cose di palazzo non possono non notare come queste indisposizioni – febbre o meno - sopraggiungano proprio quando il gioco si fa duro. E’ successo due settimane fa ad Alicante per il vertice Euro-Med dopo il gelo diplomatico con Macron. E’ successo di nuovo ieri dopo 72 ore pazzesche in commissione Bilancio in cui è successo di tutto. Compreso che il ministro Giorgetti domenica sera abbia rimarcato agli uffici di presidenza della Camera guidati dal suo “compagno” di partito Lorenzo Fontana : “In quasi trent’anni di leggi di bilancio in Parlamento non ho mai visto tanto zelo”. Gli avevano appena chiesto di spacchettare per materia gli emendamenti del governo, un giochino che gli ha portato via almeno dodici ore. Vuoi mai che la “febbre” del premier abbia a che fare con le turbolenze nella maggioranza?
La convalescenza di Meloni
In ogni caso la Presidente del Consiglio nel pomeriggio di ieri stava sicuramente meglio. Ha rinviato a oggi l’intervista serale su Rai1 con Bruno Vespa (doveva essere ieri, palinsesti Rai in confusione). Sta per volare in Iraq per salutare il contingente italiano (missione coperta, ogni orario è buono). Sempre oggi sarà alla Farnesina per il saluto al corpo diplomatico. Ha scritto sui social un messaggio assai puntuto sulla ex App18, il bonus cultura per i diciottenni, una delle critiche che le brucia di più. “18App è stata sostituita e migliorata con due nuove misure” ha scritto su Facebook “la Carta cultura giovani e la Carta del merito. La prima riguarda un bonus per i diciottenni le cui famiglie hanno un Isee non superiore a 35.000 euro. L’altra prevede un bonus di 500 euro per chi prenderà 100 alla maturità. Con queste misure diamo valore al merito e mettiamo in campo un sistema equo per rendere più accessibile la cultura ai giovani”. In pratica, spiega la premier, la misura è la stessa, le abbiano però cambiato il nome. Si vede che in serata la tachipirina ha fatto effetto. Anche perché, se fosse come dice il Mef, sarebbe solo un cambio di nome.
Le divisioni politiche
Ogni legge di bilancio porta con sé scontri, trattative, scambi tra maggioranza e opposizioni. Litigano, discutono e poi trovano l’accordo. Ogni anno c’è sempre un precipizio che all’ultimo centimetro viene evitato. E’ il Parlamento, bellezza, e non ci può fare nulla. E’ la democrazia, anche e per fortuna. Anche questa volta quindi le parti saranno costrette a trovare una mediazione. Ma il prezzo rischia di essere molto alto perché le divisioni sono dentro la maggioranza che, a dir la verità, non si sforza neppure troppo di camuffarle. Colpa degli emendamenti selezionati che da 450 sono diventati meno di duecento. E delle risorse disponibili: erano stati previsti 400 milioni per i gruppi parlamentari. Ne sono rimasti 130 perché gli altri se li è presi il governo. Ma i parlamentari legano il proprio mandato proprio alla possibilità di rispondere, con la legge di bilancio, alle richieste del territorio. “Su ogni misura – racconta con amarezza un membro del governo - dal Pos ai contanti, dalle pensioni allo scudo penale per i reati tributari la maggioranza inizia che è d’accordo ma appena approfondisce il dossier si divide, si irrigidisce e non fa alcuno sforzo per ricucire. Ecco perché sono saltate molte norme”.
Le battaglie di Forza Italia
E’ andata così col Pos, dove alla fine ha prevalso la linea del ministro Giorgetti rispettosa dei rilievi fatti a Bruxelles mentre Fratelli d’Italia voleva a tutti i costi levare l’obbligo. Anche solo per una cifra simbolica, “anche 10 euro” diceva qualche giorno fa il sottosegretario Fazzolari. E’ andata così sullo scudo penale. L’emendamento c’era, era scritto, portava la firma di tutti e tre i gruppi ma Tommaso Foti, capogruppo di Fratelli d’Italia se n’è uscito l’altra sera dicendo che era “la proposta di un singolo”. Cioè il viceministro Francesco Paolo Sisto di Forza Italia. Falso: “Era d’accordo anche il viceministro all’Economia Maurizio Leo di Fratelli d’Italia”. Dare un “colpo di spugna” su reati come omessa dichiarazione dei redditi, dichiarazione infedele e omesso versamento voleva dire, nelle intenzioni dei proponenti, permettere a molte società e aziende in mora di poter tornare a lavorare. “Ripresenteremo la misura con un provvedimento ad hoc già prima della fine dell’anno” assicura una fonte di governo di Forza Italia. Ciascun partito di maggioranza potrà alla fine alzare e rivendicare alcune misure “bandiera”. A scapito però, magari, dei propri colleghi in parlamento rimasti con poche briciole.
Il caso Rampelli
Non sono pronti. Lo slogan della campagna elettorale è già diventato un boomerang. Neppure dentro ciascun partito dove si stanno creando divisioni e delusioni. Giorgia Meloni deve gestire una questione delicatissima che si chiama Fabio Rampelli. Il vicepresidente della Camera che dieci anni fa ha creato e immaginato Fratelli d’Italia tanto quanto, e forse anche di più, di Crosetto e La Russa è l’unico rimasto a mani vuote. Vicepresidente della Camera era e tale è rimasto. Non un ministero, non una presidenza di Commissione. In queste ore l’ultimo schiaffo: Rampelli doveva essere il candidato naturale alla guida della regione Lazio. Meloni ha preferito Rocca. “La facevo più intelligente” ha scritto la signora Rampelli alludendo alla premier. Il tweet è stato subito rimosso ma ormai era stato captato. Difficile spiegare il perché di tanta “irriconoscenza”. Che può scavare però solchi di odio difficili da colmare anche col passare del tempo. Sicuramente creano un problema nell’immediato. Come, ad esempio la febbre, ieri, di Giorgia Meloni.
La Lega e il Mef
La storia non cambia anche nella Lega. Tra Salvini e Giorgetti, ad esempio. I leghisti lamentano che è più di un mese che non riescono a parlare col Mef. L’altra sera in Commissione, sono entrati per ultimi, anche dopo il Pd e il Terzo Polo, a colloquio con i tecnici del ministero. E che dire del viceministro Leo, un protetto di Meloni, che Giorgetti sta lentamente mettendo ai margini avendo chiamato come consulente un ex montiano come il triburitarista veneto Enrico Zanetti? La legge di bilancio sarà approvata. Tra il 23 e il 24 alla Camera. Probabilmente il 28 al Senato. In modo che Meloni possa affrontare la conferenza stampa di fine anno con il dossier chiuso. Ma in realtà se ne saranno già aperti molti altri.