[L’analisi] Il cappio dell’Iva, la missione impossibile con Alitalia e l’eredità avvelenata. Di Maio e Salvini divisi su tutto
Il vero test politico è quel che intende fare Di Majo, sull'onda della sua polemica sul lavoro precario, in tema di flessibilità. Difficile, anzi, impossibile immaginare la platea di elettori della Lega, innervata di imprenditori piccoli e medi, che accetta passi indietro sui diritti che il Jobs Act ha loro concesso in materia di gestione della manodopera, dalla revisione dell'art.18 in giù. Questo è davvero un terreno minato

Due grandi affari epocali, un ribaltone storico delle tasse, il ripudio dell'eredità più cara del Vecchio Regime, ovvero il Jobs Act, simbolo dell'età di Renzi. Per il governo del Cambiamento, il momento delle scelte è già qui e sono tutte scelte difficili. Perché alla nuova classe dirigente interessa dare – comunque – un segnale forte di discontinuità, perché sono decisioni che vanno prese in fretta e perché, invece, Salvini, Di Majo, Conte e gli altri avrebbero bisogno di tempo: ognuno di quei quattro capitoli, infatti, segna una frattura netta e, soprattutto, pubblica fra le due anime del Cambiamento e traccia una rotta di collisione – qui e ora – fra 5Stelle e Lega. Su dossier complicati ed esplosivi, come la riforma delle pensioni in chiave anti-Fornero o l'atteggiamento verso l'Europa, paradossalmente, le convergenze sono prevedibili e già abbozzate. Ma su Ilva, Alitalia, Iva e Jobs Act, lo scontro sarà evitato solo se uno dei due azionisti del nuovo governo accetterà di fare marcia indietro, a costo di consegnare all'altro una patente di egemonia sul governo.
L'Ilva e il futuro industriale del paese. La vendita del centro siderurgico di Taranto al colosso indiano della Mittal l'avrebbero chiusa Carlo Calenda e il precedente governo se la trattativa non si fosse inceppata nel confronto con i sindacati su licenziamenti e riassunzioni. Ma fra Lega e 5Stelle il nodo del contendere è molto più ampio della difesa dei posti di lavoro e investe la direzione stessa del futuro sviluppo economico italiano. Il destino della più grande acciaieria europea, che è – anche - la più grande fabbrica del Meridione e una delle pochissime grandi industrie rimaste in Italia può infatti segnare lo spartiacque fra un rilancio lungo il cammino tradizionale dei grandi investimenti nei settori storici e l'ambizione di tracciare un percorso nuovo e inesplorato, in nome di un futuro all'insegna dell'economia sostenibile. La Mittal, con il via libera dell'antitrust Ue, è pronta a versare 1,8 miliardi di euro e investirne altri 2,3 miliardi – di cui più di 1 miliardo per la riconversione e la salvaguardia del centro di Taranto – per rilanciare la siderurgia italiana. Per chi è cresciuto nelle valli del Bresciano, dove, da sempre, si batte il ferro e dove la Lega ha uno dei suoi radicamenti più profondi, è una occasione storica da non perdere assolutamente. L'acciaio è il cuore e il pilastro di un'economia industriale: perderlo significa consegnarsi in mani altrui. Oltreoceano, lo sta ribadendo in questi giorni Donald Trump, con i suoi dazi sull'import siderurgico.
Rispetto a questa visione, benedetta dalla storia, quella dei 5Stelle può apparire fumosa e velleitaria, ma l'obiettivo è nitido. La siderurgia, a Taranto, non può essere salvata se non continuando a mettere a repentaglio altre vite e la salute di tutti. La sfida è immaginare un'alternativa che sia, insieme, ecologicamente sostenibile e proiettata in quella che sarà l'economia del futuro. Vincere questa sfida – nell'ottica del 5Stelle – significa dare finalmente una prospettiva nuova ad un'economia italiana rimasta impantanata nei miti del secolo scorso. Difficile vedere quale possa essere il compromesso.
L'Alitalia e la missione impossibile. L'altro grande affare in sospeso è una telenovela anche più lunga di quella dell'Ilva. La vendita della compagnia di bandiera è in ritardo di oltre dieci anni, in cui si sono persi, senza speranza, miliardi su miliardi di euro. Non c'è osservatore indipendente che non pensi che sia impossibile rilanciarla nella veste di oggi. L'azienda è mal gestita da sempre, ma il nodo è che (anche in virtù delle poche risorse che lasciava una cattiva gestione) soffre di un nanismo incurabile. Le compagnie aeree nel mondo, infatti, sopravvivono o perché sono agili lowcost di poche pretese, pronte ad offrire solo quello che a loro conviene, o perché hanno una dimensione sufficiente ad attirare quote massicce di viaggiatori e traffico. Alitalia non è né l'una, né l'altra cosa. Non offre la completezza di destinazioni, la rete di British Airways, Air France, Lufthansa, ma neanche i prezzi di Ryanair. E' l'imbuto in cui, prima di Alitalia, si sono trovate strette compagnie di bandiera di lunga storia, come la belga Sabena o la svizzera Swiss, tutt'e due fallite da tempo. Alitalia è sopravvissuta per la mancanza di coraggio della politica italiana, attaccata all'ultima canna di ossigeno: il monopolio sulla ricca tratta Milano-Roma. Quando se ne rifarà la storia, si scriverà che ad affossare definitivamente la compagnia di bandiera è stata l'alta velocità delle ferrovie, che le ha prosciugato la rendita del traffico fra le due capitali del paese.
Sono discorsi che Di Maio pare non sentire, abbacinato, come Berlusconi prima di lui, dall'idea che gli italiani si sentirebbero smarriti senza l'Alitalia. Il leader grillino, ventilando l'idea di un intervento pubblico, fa finta di ignorare che le autorità Ue sono già intervenute contro il prestito-ponte di 900 milioni che il precedente governo aveva fatto per tenere in funzione l'azienda nell'attesa di venderla. Bruxelles sospetta che il prestito sia in realtà un aiuto di Stato ad un'impresa privata, vietato dalle norme comunitarie. Non è certo questo che impressiona Salvini, ma all'elettorato della Lega, che già ora, come tanti al Nord, preferisce viaggiare Lufthansa o Ryanair il salvataggio Alitalia ha il sapore di soldi buttati, solo per pagare stipendi d'oro a piloti troppo alteri e hostess troppo sbrigative. Il problema verrà alla luce appena si comincerà a fare qualche conto.
Il cappio dell'Iva e il combustibile della flat tax. A gennaio bisognerà trovare 12,5 miliardi in qualche capitolo del bilancio pubblico. Altrimenti, scatterà la tagliola dell'aumento dell'Iva, finora scongiurato con la promessa che quei miliardi sarebbero stati trovati in un altro modo. Evitare la tagliola sembrava uno dei pochi punti su cui nessuno trovava da eccepire. Non è più così: l'aumento dell'Iva ha incontrato la flat tax. La riduzione a due sole aliquote, 15 e 20 per cento, dell'Irpef è la bandiera che la Lega ha fatto sventolare con più convinzione. Costo previsto, però, circa 50 miliardi di euro. L'idea che sarebbero magicamente scaturiti da un ennesimo condono fiscale e dalle maggiori entrate fiscali di un'economia che proprio il taglio delle tasse avrebbe caricato a turbo non è mai apparsa convincente. Ma ora, al ministero dell'Economia, Giovanni Tria si sta chiedendo se una parte consistente di quei soldi non potrebbe venire proprio dall'Iva, soprattutto se, contemporaneamente, i tempi di introduzione della flat tax venissero scaglionati nei prossimi anni.
In sé, l'idea ha una sua dignità teorica. Spostare il peso fiscale dai redditi ai consumi è una ipotesi di cui molti economisti hanno discusso in questi anni. Economisti di destra, per lo più: ne era un alfiere Giulio Tremonti. La tesi è che preservare i redditi lascia più spazio a risparmio e investimenti e la tassa sui consumi offre un gettito più sicuro e meno soggetto ad evasione. Ma le imposte sui consumi sono anche regressive, invece che progressive: le pagano di più, in proporzione al proprio reddito, i più poveri, mentre con l'Irpef avviene il contrario. Insomma, i 12,5 miliardi di euro risparmiati facendo aumentare l'Iva, verrebbero pagati dai ceti più svantaggiati. Che verrebbero colpiti due volte. La regressività dell'aumento dell'Iva si incontra, infatti, con la regressività della flat tax che, anch'essa favorisce in misura massiccia i più ricchi, lasciando con un palmo di naso e pochi spiccioli tutti gli altri. Difficile immaginare un Di Majo portato al governo dall'onda populista di un sussidio ai poveri, che controfirma una legge che li punisce a ripetizione: con le aliquote della flat tax e con quelle dell'Iva.
L'eredità avvelenata del Jobs Act. Fiore all'occhiello di Matteo Renzi, il Jobs Act consisteva in uno scambio: meno diritti e protezione per i lavoratori, in nome della flessibilità, in cambio di procedure veloci e garantite per cercare un nuovo lavoro. Una delle più cupe recessioni degli ultimi decenni non era, probabilmente, il momento migliore per varare una legge che favorisce i licenziamenti. Ma la zavorra più pesante del Jobs Act è stata l'incapacità di mettere in piedi le strutture che avrebbero dovuto consentire e velocizzare la ricerca di un lavoro. Interventi in questa direzione saranno bene accolti da tutti, ma il vero test politico è quel che intende fare Di Majo, sull'onda della sua polemica sul lavoro precario, in tema di flessibilità. Difficile, anzi, impossibile immaginare la platea di elettori della Lega, innervata di imprenditori piccoli e medi, che accetta passi indietro sui diritti che il Jobs Act ha loro concesso in materia di gestione della manodopera, dalla revisione dell'art.18 in giù. Questo è davvero un terreno minato.