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[La polemica] La paura dell'invasione dei barbari. Ecco i tre falsi clamorosi che hanno affossato lo Ius Soli

All’imperativo cattivista del “non si deve fare” i progressisti hanno saputo opporre solo una vuota filastrocca buonista: "Facciamolo perché è bello e giusto". Non era e non poteva essere così.

Luca Telesedi Luca Telese, editorialista   
[La polemica] La paura dell'invasione dei barbari. Ecco i tre falsi clamorosi che hanno affossato lo Ius Soli

Alla fine lo ius soli non si è fatto. Da tre giorni ancora se ne discute in rete, con una lunga scia di polemiche e veleni, in modo preconcetto, astratto e partigiano, con toni da curva sud e panzane colossali che circolano indisturbate per oscurare la realtà dei fatti. C’è in atto una splendida campagna di disinformazione, non solo realizzata dai nemici del provvedimento, ma persino da chi - tra i suoi sostenitori teorici - prima non ha voluto la legge e adesso si dispera per fatto che non sia passata. Prima non voleva perdere i voti di chi era contro, adesso non vuole lasciarsi sfuggire quelli di chi era a favore.  Ridicoli.

Il governo Gentiloni non l'ha voluto votare

Lo ius soli alla fine non si è votato in primo luogo perché il governo Gentiloni non ha voluto (tutto quello che ha voluto infatti il governo lo ha imposto e ottenuto con voti di fiducia), e non si è votata perché nella guerra delle opinioni e sui media ha prevalso una abile campagna propagandistica che ha oscurato la realtà e costruito un irreale feticcio al grido: “Se passa questa norma tra noi arriveranno i barbari, e la civiltà italiana scomparirà!”. Balle: la legge non avrebbe cambiato il futuro, ma semmai avrebbe normato il passato, non avrebbe prodotto una realtà che non possiamo immaginare, ma avrebbe fotografato un modo che esiste già.

Dal centrodestra posizioni aprioristiche e ideologiche

Il centrodestra ha vinto una sua campagna di egemonia culturale, sostenendo con efficacia disarmante posizioni aprioristiche e ideologiche. I nemici dello ius soli, con grande capacità, sono riusciti a imporre nel dibattito tre falsi clamorosi traforanti in senso comune: 1) la legge serve a legalizzare “quelli dei barconi”, 2) la legge rende italiani tutti quelli che nascono nel nostro paese, 3) la legge regala dei diritti ma non comporta dei doveri. Tuttavia, se questo è accaduto, è solo perché il centrosinistra e il governo sono stati altrettanto maldestri e stolti nel (non) rispondere a questi argomenti con altrettanta chiarezza. È mancato un racconto, individuale e collettivo, sono mancate le storie, sono mancati degli slogan, è mancata una cultura, è mancato un leader che si impegnasse in questa sfida, con una convinzione che fosse almeno pari ai protagonisti politici che (sullo schieramento opposto) l’hanno vinta: ovvero Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Basti pensare che c’è stata una grande petizione nazionale di Fratelli d’Italia contro la legge, ma nessuna reale mobilitazione a favore. Non c’è stato un concerto, una festa, un appello di vip, una cnogna di comunicazione di uno o più soggetti, non c’è stato nemmeno un manifesto o un volantino. In fondo è semplice: l’opposizione ci ha messo il cuore, la testa e la faccia. La maggioranza nessuna di queste tre cose.

La filastrocca buonista: “Facciamolo perché è bello e giusto”

All’imperativo cattivista del “non si deve fare” i progressisti hanno saputo opporre solo una vuota filastrocca buonista: “Facciamolo perché è bello e giusto”. Non era e non poteva essere così. L’esperienza del mio lavoro, ma anche quella personale del quartiere dove vivo a Roma, quella delle scuole dove è cresciuto mio figlio (c’erano tredici “italiani stranieri” tra i suoi compagni di classe fin dall’asilo), è semplice, e quasi disarmante nella sua chiarezza: questo bambini parlano un italiano perfetto, cantano il nostro inno, conoscono la Costituzione meglio dei nostri figli (presunti “italiani italiani”), sono informati sulle notizie del nostro paese (molto più che su quello di provenienza delle loro famiglie) tifano Roma, Napoli, e - purtroppo talvolta anche Juve - esattamente come i nostri figli. Insegnano la lingua ai loro genitori, partecipano alle feste di classe, sono loro che integrano noi, e non il contrario, perché allo stesso tempo spiegano ai nostri figli quanto è grande il mondo, quanto siano angusti i confini del dell’odio, come possa essere asfittico il cerchio chiuso del pregiudizio di chi non conosce non vuole conoscere.

C’è il bimbo africano che gioca in squadra con il figlio del fondatore di Casapound

Nella scuola elementare di mio figlio i “taliban” pericolosi evocati dalla destra come uno spauracchio per opporsi allo ius soli semplicemente non esistono. Nell’Esquilino di Roma, con una delle più grandi comunità musulmane d’Europa, nella scuola pubblica che io e la mia famiglia abbiamo frequentato, in dieci anni non abbiamo visto una sola bambina velata. Ci sono cinesi, cingalesi, filippini, ucraini, malgasci, italiani di prima e di seconda generazione. C’è il portentoso bambino di origine africana che gioca da difensore nella stessa squadra di calcetto con il figlio del fondatore di Casapound. In dieci anni nelle scuole del quartiere dove ho vissuto, non c’è stato un solo conflitto di tipo etnico religioso: si cantano le canzoni di Natale, si spiega cos’è il presepe, si integrano nel grande cuore disincantato di Roma culture diversissime tra di loro. Nessuno ha iniziato crociate di evangelizzazione contro gli infedeli, nessuno ha tentato follie laicistiche senza senso come sostituire la celebrazione del Natale con “la grande festa delle feste”, nel timore (stolto) che qualche non cattolico potesse offendersi. Si tratta di un’isola felice, forse? Di un paradiso per ricchi e figli di papà civili perché accompagnato dalla precettrice? No, anzi: è un quartiere problematico, di frontiera, pieno di occupazioni, di barboni che dormono in strada a ridosso della stazione (e non solo), di profughi che dormono nei giardini, di file per le mense della Caritas e di Sant’Egidio, un territorio costellato da lampanti segnali di degrado. Peró, molto semplicemente, malgrado tutto questo non si è posto nessun problema di tipo etnico-religioso-culturale. Ci sono i tempi buddisti, le gioiose feste sudamericane a Piazza Vittorio, i gruppi di meditazione confuciana della mattina nel parco. Tutto coesiste in modo quasi miracoloso. La scuola - grazie alla straordinaria sensibilità degli insegnanti e malgrado i pochi mezzi - è diventata un grande e riuscito crogiolo di identità.

In realtà lo spirito dello ius soli esiste già

In realtà come queste, nella più sperduta provincia come nella Capitale del nostro Paese, lo spirito dello ius soli esiste già, come la forza è tra di noi. Per questo è incredibile che il governo abbia accettato che il disperato cinismo del lodo Alfano diventasse la sua bandiera: “Sarebbe come fare la cosa giusta nel momento sbagliato”. Semmai è il contrario: era la cosa giusta da fare, anche se arrivava troppo tardi. Lo iusi soli, o ius culturae, non riguarda il popolo dei barconi. Riguarda chi ha compiuto un ciclo scolare, chi è nato qui, chi italiano lo è già, da quando è venuto al mondo. Chi lavora e paga i contributi da noi avendo già una residenza, in modo perfettamente legale. Per un paese che quest’anno dal punto di vista della cittadinanza ha sia meno italiani che meno stranieri è un lusso che non ci possiamo permettere. Ha persino senso una posizione di destra, su questo tema, che è più logica di quella ufficiale: essere contro i flussi migratori di chi vuole venire, ed essere a favore della cittadinanza per chi c’è già. L’impero romano era inclusivo (e difeso da generali nati nelle più province  più sperdute), l’impero britannico è diventato grande con l’inclusione, l’impero americano ha inventato la cittadinanza di chi nasce all’ombra della sua bandiera e l’ha trasformata nel pilastro della su identità.

La propaganda del “tanto non sarebbe passato”

Ecco perché il piccolo miserabile atto di pavidità del governo Gentiloni è grottesco, come la propaganda del “tanto non sarebbe passato”. Nella legislatura in cui tutti i voti di fiducia sulle leggi più vergognose (purtroppo) sono state approvate senza colpo ferire, e in un parlamento in cui un gruppo di opposizione aveva già annunciato il suo sì (al pari di molti singoli senatori di centrodestra), bastava volere davvero questa legge, e avere il coraggio di rischiare per provare ad approvarla. Non c’era, fra l’altro, nulla da perdere, se non degli (sbagliati) calcoli di bottega. Anche l’argomentazione attribuita al Quirinale (il governo non poteva nemmeno rischiare di essere sfiduciato perché deve restare in carica se non ci sarà maggioranza) è ridicola, soprattutto in un parlamento che sta per sciogliersi. Di fronte a questa malintesa applicazione di una sorta di “realpolitik dei poveri”, è diventata quasi grottesca la mobilitazione dei ministri che, con fare radical chic - vedi il povero Graziano Delrio, di certo animato da buone intenzioni - hanno aderito allo “sciopero della fame a rotazione”: in pratica hanno rinunciato ad un pranzo per protesta contro se stessi. Ma come fa un ministro a manifestare, addirittura digiunare, contro il suo stesso governo? Questa blanda trovata, ricordava terribilmente l’adagio di Maria Antonietta, “Maestà, il popolo ha fame, dategli le Brioches!”.

La maggioranza ha il diritto di non fare le cose che vuole fare

La verità è che questa vicenda ha affermato una pratica vagamente miserabile della politica, quella secondo cui una maggioranza ha il diritto di non fare le cose che vuole fare, se crede che potrebbero incontrare resistenze. Ridicolo. È un’idea falsa, a cui possono credere solo i mili-tonti con l’anello al naso: una maggioranza di governo che ha imposto a colpi di maggioranza prima una riforma costituzionale (bocciata dagli elettori) e poi due orribili riforme elettorali (una delle due già bocciata dalla Corte Costituzionale) non può fingersi ingenuo e sprovveduto solo quando si tratta di riconoscere diritti. Ma soprattutto: se il parametro in base a cui decidere cosa fare e cosa non fare fosse la semplice resistenza del senso comune, o il pronostico dei sondaggi, Kennedy non avrebbe mai messo fine alla segregazione razziale, e il parlamento italiano non avrebbe mai approvato la legge sul divorzio. Nel 1974 il referendum (che secondo i custodi del populisticamente corretto era avversato dalla “maggioranza del paese”) vinse in tutte le regioni del sud, malgrado ogni stereotipo, trascinato dal voto delle donne.

Le classi dirigenti del centrosinistra hanno creduto al diritto astratto

Il vero motivo per cui il governo ha gettato la spugna è perché non credeva a questa battaglia: perché le classi dirigenti del centrosinistra, soprattutto quelle più opportuniste e auto-conservative, hanno creduto alla necessità di un diritto astratto ma non hanno accettato il costo che comportava affermarlo. Non avevano stretto un rapporto profondo con il paese, non potevano restituire ai cittadini un racconto alternativo della realtà,  perché non lo conoscevano. Questi leader hanno calato le loro idee dall’alto, in base ad un principio per cui - per attuarlo - non erano disposti a rischiare un solo nichelino. Il governo ha sintetizzato nella sua poco onorevole ritirata questi tre sentimenti elementari: la coda di paglia, la non conoscenza della realtà, la paura di difendere una posizione impopolare. Condizioni di partenza da cui, come è noto, non si va da nessuna parte. Domanda: secondo voi saranno così spudorati da rimettere lo ius soli nei loro programmi elettorali? Sarebbe curioso chiedere voti per fare quello che non hanno voluto fare quando, mentre rinunciavano al dessert in segno di solidarietà con i nuovi italiani, e  distribuivano nomine e poltrone last minute ai loro beneamati clientes.

Luca Telesedi Luca Telese, editorialista   

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