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Un tesoretto di 400 miliardi di euro per l'Italia, ma tutto dipende dal decreto Semplificazione

Ma il fallimento storico italiano è nella capacità di spendere. A rischiare l'ingorgo sono circa 430 miliardi di euro di progetti

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
Un tesoretto di 400 miliardi di euro per l'Italia, ma tutto dipende dal decreto Semplificazione

C'è un tesoretto di oltre 400 miliardi di euro su cui l'Italia può mettere le mani nei prossimi mesi: un maxiturbo mai visto per la ripresa su cui tutti sperano, dopo il tracollo dell'epidemia. La chiave per aprire il forziere è il decreto Semplificazione che, finalmente, dovrebbe vedere la luce questa settimana. Se il decreto funzionerà, sturando gli ingorghi burocratici che bloccano e bloccherebbero fondi e investimenti, ci sarà, per mettere in pista opere e progetti, una mole impressionante di risorse, europee e nazionali: 400 miliardi e rotti di euro equivale quasi al 25 per cento del Pil italiano. Il ministro della Cultura, Dario Franceschini, aveva detto, di fronte alla promessa degli aiuti Ue: “Per la prima volta dai tempi del governo Amato, all'inizio degli anni '90, invece di tagliare, potremo spendere”. Franceschini dovrebbe aggiungere: “E non abbiamo mai speso così tanto”. Il problema è che l'esperienza dice il contrario: il grande fallimento storico italiano è nella capacità di spendere. E, se la semplificazione si rivelerà solo un altro intoppo, ci ritroveremo a mani vuote, a guardare il consueto ingorgo, solo di dimensioni doppie rispetto al solito.

A rischiare l'ingorgo sono circa 430 miliardi di euro di progetti. Di questi, solo 230 sono quelli che la Ue potrebbe indirizzare verso l'Italia, sommando tutti i vari strumenti approvati o in discussione (Recovery Fund, Sure, Bei e, naturalmente, anche i 36 miliardi del Mes). Sono i soldi di cui tutti parlano e che agitano i tecnici della amministrazione pubblica: da Bruxelles fanno sapere che, se nel giro di un paio d'anni, non verranno utilizzati, saranno ritirati. Il record italiano, in materia, è pessimo: dei soldi stanziati con i normali fondi strutturali europei nel bilancio 2014-2020, l'Italia è riuscita a collocarne in veri e propri progetti solo il 73 per cento. E solo la metà è poi stata realizzata e i soldi sono stati spesi.

I cinici commentano che i fondi europei, in realtà, hanno goduto di una corsia privilegiata. Perché il vero scandalo sono gli altri 200 miliardi del tesoretto, quelli stanziati con i soldi non europei, ma dei contribuenti italiani, dal 2013 ad oggi, per opere che non hanno avuto bisogno di attendere gli Stati Generali del presidente Conte per essere individuate e definite, ma che sono rimaste sepolte in un cassetto. Nel rapporto dell'Osservatorio sulle infrastrutture strategiche, presentato questa primavera in Parlamento, si elencano opere prioritarie per 219 miliardi: ferrovie, strade, porti, anche mezzo miliardo per piste ciclabili. E non è un libro dei sogni. Di quei 219 miliardi, 199 ci sono già, pronti, disponibili, fruscianti. Di questi, 44 sono messi da privati, ma 155 miliardi di euro sono quelli erogati dal Tesoro. Attenzione alla parola “erogati”: questi soldi ci sono già, pronti e impacchettati per essere versati a imprese e lavoratori che realizzano le opere. Non bisogna trovarli, aumentando disavanzo e debito pubblico. Il paradosso dell'ingorgo, infatti, è che questi 155 miliardi di euro pubblici sono già contabilizzati a deficit, già pesano sul debito pubblico, ma sono ancora in un cassetto.

Di fatto, dice l'Osservatorio, solo l'11 per cento dei lavori previsti e finanziati è stato ultimato. Solo un altro 21 per cento è in corso d'opera. Il 50 per cento è ancora fermo allo stadio di progettazione. Il grosso dei fondi fermi – quasi metà – riguarda i treni. Il contratto di programma delle Fs, ad esempio, ha visto uno stanziamento di 22 miliardi di euro nel 2017, e da allora sono rimasti impantanati. Il resto - un terzo di quei 200 miliardi - riguarda strade e autostrade.
Come è possibile che sia tutto fermo? Gli economisti ritengono le opere pubbliche il miglior “moltiplicatore” degli investimenti. Ovvero, la spesa che produce l'effetto più sensibile sull'economia, attraverso i soldi che arrivano direttamente a imprese e lavoratori e poi rimessi in circolo nei consumi e in altri investimenti, ma anche per i vantaggi che comporta in generale alle strutture dell'economia. Dovrebbero, insomma, procedere a spron battuto.

E' vero il contrario. La paralisi delle infrastrutture strategiche è spiegata in un altro rapporto, dell'Agenzia per la coesione territoriale. Per portare a termine una grande opera occorrono, mediamente, in Italia 15 anni e 8 mesi, quasi il tempo che impiega un neonato per diventare maggiorenne. Ma questo è solo in parte l'effetto della complessità di una grande opera e degli interessi (economici, sociali paesaggistici, ecologici) in gioco. Per capire cosa succede, bisogna guardare alla sorte delle opere minori, non censite dall'Osservatorio sulle infrastrutture strategiche. Quelle da meno di 100 mila euro, il progetto che un piccolo Comune mette in opera per sistemare due tombini e una fognatura. Dice l'Agenzia che, per opere sotto i 100 mila euro – l'equivalente della ristrutturazione di un appartamento - il tempo medio di realizzazione è di 2 anni e 3 mesi.

Sono i nodi che il decreto Semplificazione deve sciogliere, fra suggestioni del “modello Genova”, con un commissario investito di pieni poteri, e i rischi che procedure sbrigative evocano, in un paese in cui corruzione e mafia sono largamente diffusi, in particolare nel mondo degli appalti. Ma, su tutto, aleggia il rischio che il decreto Semplificazione, in realtà, al di là delle buone intenzioni, aggiunga uno nuovo strato di burocrazia. Nei mesi scorsi, sia la Commissione europea, sia l'Anac (l'Authority anti-corruzione) hanno fatto notare che le normative – sia italiane che europee – già consentono una notevole accelerazione, anche senza un nuovo intervento legislativo: riduzione dei termini degli appalti, controlli ex post. Soprattutto, una concentrazione dei livelli di progettazione: oggi in Italia, un paese con 7 mila Comuni, esistono 32 mila stazioni appaltanti. Ci sono, cioè, 32 mila diversi uffici in grado di bandire una gara, assegnare un appalto, avviare un'opera pubblica. Spesso, senza le competenze necessarie, dopo anni di dimagrimento degli organici della pubblica amministrazione.

Ma, forse, per capire l'efficacia del decreto Semplificazione bisognerà guardare soprattutto ad un'altra cosa, anche se, probabilmente, non ci sarebbe neanche bisogno di una legge per cambiarla. Ci sarà o no un intervento sui “tempi di attraversamento”? I “tempi di attraversamento” sono una splendida definizione burocratica per indicare una procedura di approvazione a cascata. In altre parole, un progetto per arrivare alla sua approvazione e realizzazione deve attraversare una serie di passaggi (autorizzazione, licenza, controlli antimafia, verifica ambientale, verifica paesaggistica, controlli di sicurezza ecc.), ma rigorosamente uno dopo l'altro. Quello successivo non inizia se non si è prima completato ed esaurito l'altro. Secondo l'Agenzia per la coesione territoriale questa impossibilità di mettere in moto contemporaneamente più fasi di approvazione e l'obbligo, invece, di seguire un percorso obbligato, come nel gioco dell'oca, sono il principale motivo di ingorgo. Il 54,3 per cento dei ritardi delle opere pubbliche – piccole e grandi – è nei “tempi di attraversamento”.

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
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