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[Il commento] L’Italia non cresce perché non investe nei posti giusti. E il governo vuol superare Maastricht

Il governo italiano sta cavalcando strumentalmente una critica giusta per gli obiettivi sbagliati. E l’effetto più negativo è di rendere ancora più difficile il superamento, invocato dagli economisti, dei vincoli dell’austerità

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
[Il commento] L’Italia non cresce perché non investe nei posti giusti. E il governo vuol superare...

Oggi, l’Italia è l’unico paese europeo sull’orlo della recessione. Ma il rallentamento – sulla scia della Germania – è evidente in tutta l’economia europea. E allora, si domandano a Francoforte, nella sede della Bce, a Bruxelles, negli uffici della Commissione, nei palazzi dei governi a Parigi, Berlino, Madrid, che facciamo se l’Europa intera scivola nella recessione? Mario Draghi lo ha ripetuto all’infinito, in questi anni: la politica monetaria ha dato quel che poteva dare. L’allentamento record dei cordoni della borsa lo dicono i numeri: tassi di interesse negativi, acquisti a man bassa di titoli per iniettare liquidità sui mercati (il celebrato Quantitative easing).

Ma, se i tassi di interesse sono già sotto zero e la Bce, con in pancia già quasi 3 mila miliardi di titoli pubblici, non può di fatto comprarne più, cosa potrebbero fare Draghi o il suo successore per rialzare una economia in caduta? Poco o nulla, ritiene la maggior parte degli economisti. La palla, spiegano, passa ai governi: tocca a loro, tagliando le tasse o aumentando la spesa pubblica, dare fiato all’economia.

L’appello cade nel vuoto. I governi che hanno le casse piene di soldi, come quello tedesco, si guardano bene dallo spenderli, perché sono prigionieri di una spinta ideologica al risparmio. Gli altri non possono, perché i trattati europei legano loro le mani. E’ giunto il momento, chiedono quegli economisti - a cominciare da Olivier Blanchard, capo economista del Fmi negli anni della grande crisi finanziaria – di mettere in discussione i paletti di quei trattati.

Le pastoie di Maastricht

A Maastricht, negli anni ’90, si decise che, nei paesi dell’eurozona, il deficit di bilancio non doveva superare il 3 per cento del Pil e il debito il 60 per cento. Dopo la crisi del 2008, su iniziativa soprattutto tedesca, la rete è stata stretta ulteriormente. Bisogna rientrare entro il 60 per cento del debito, tagliando del 5 per cento l’anno la differenza. E il disavanzo deve tendere a zero. O, almeno, deve tendere a zero quel deficit che non può essere imputato a una cattiva congiuntura (che, automaticamente, riduce temporaneamente le entrate e aumenta le spese) e che appare, dunque, strutturale. Di fatto, dicono i critici, è l’austerità fatta sistema. Così, diventa impossibile combattere una recessione e si azzoppa qualsiasi ripresa.

Quello che, oltralpe, è l’incessante discorrere degli economisti, in Italia è il clamore di una polemica politica sempre più stridente, che sta facendo dello slogan “abbattiamo Maastricht” la bandiera di un’offensiva contro la politica europea e le pastoie che impone all’Italia. Se le sparate di Salvini, pronto ad arrivare ad un deficit al 3,5 per cento del Pil, sommando il no all’aumento dell’Iva e il sì alla flat tax sull’Irpef, sono, probabilmente, propaganda politica, dal pensatoio della Lega escono interventi più riflessivi. Ma ugualmente dirompenti, come l’articolo sul Financial Times di Alberto Bagnai (candidato al ruolo di ministro per gli Affari europei lasciato scoperto da Savona), in cui si respinge il calcolo sul disavanzo strutturale, basato su discutibili parametri statistici e si dice, nel modo più semplice possibile: lasciateci tornare, almeno, al vecchio parametro del 3 per cento di Maastricht.

Populisti e progressisti

L’offensiva del governo populista italiano contro Bruxelles e contro la minaccia di una procedura d’infrazione per eccesso di debito è allora giustificata? Ha ragione Bagnai: dateci il 3 per cento e ci metteremo la recessione alle spalle, noi e tutta l’Europa? La risposta, purtroppo, è no. Il governo italiano sta cavalcando strumentalmente una critica giusta per gli obiettivi sbagliati. E l’effetto più negativo è di rendere ancora più difficile il superamento, invocato dagli economisti, dei vincoli dell’austerità. A Berlino, ad Amsterdam, a Vienna, i falchi europei dicono: volete che finiamo tutti come l’Italia? A inficiare, infatti, l’offensiva gialloverde contro l’Europa ci sono due scenari. Uno, per così dire, congiunturale, basato sui numeri anno per anno. L’altro, strutturale, di lungo periodo.

Prima, i numeri. Nonostante quello che recitano i trattati, Bruxelles non ha mai rivendicato un rigido rispetto dei parametri del Patto di stabilità, per il semplice motivo che tutti sono coscienti di quanto siano irrealistici. Per rispettare la cadenza prevista nell’abbattimento del debito, Francia e Spagna dovrebbero impostare, ogni anno, una manovra da decine di miliardi di euro solo a fini contabili. Per l’Italia, quel ventesimo della differenza con il tetto del 60 per cento equivarrebbe a quasi a 100 miliardi di manovra l’anno, da sommare alla normale gestione di bilancio. Analogamente, a Bruxelles nessuno si aspetta che l’Italia, anche se l’ha scritto nella Costituzione, arrivi dall’oggi al domani al pareggio di bilancio.

Anno dopo anno, Bruxelles ha offerto scappatoie, intese tacite, manica larga, flessibilità. Il problema è che, con il governo gialloverde, un anno fa, il processo di lento aggiustamento si è interrotto e capovolto. A dicembre, la Commissione ha preso per buone – in nome della comprensione verso l’Italia – promesse come l’aumento dell’Iva nel 2020 e privatizzazioni per 18 miliardi di euro nel 2019. Oggi, Bruxelles può concludere che quelle promesse non si materializzeranno e che disavanzo e debito italiani, inesorabilmente, continuano ad aumentare. Il punto non è, infatti, il rispetto dei parametri – su cui Bruxelles ha già mostrato di saper chiudere un occhio - è la tendenza ad un sistematico (e, apparentemente, spensierato) peggioramento dei dati di finanza pubblica. E, con oltre 2 mila miliardi di euro di debito pubblico italiano a ballare sui mercati, l’Europa pensa di non potersi permettere una crisi di fiducia sui titoli del Tesoro, che sconvolgerebbe gli equilibri anche degli altri paesi dell’euro.

Gli obiettivi sbagliati

L’altro elemento, strutturale, riguarda le prospettive dell’economia italiana. Il problema dell’Italia è  che non cresce. Dall’inizio degli anni ’90, l’economia ristagna. Il nodo, che appesantisce anche deficit e debito di cui si discute nei trattati europei, è qui. L’Italia non cresce, perché non investe nei posti giusti (scuola, ricerca, innovazione, formazione, tecnologia) e, complessivamente, investe troppo poco. Gli investimenti pubblici, che dovrebbero ammodernare le infrastrutture del paese sono prigionieri della palude degli appalti e, nonostante le promesse del governo gialloverde, continuano a diminuire. Gli investimenti privati si sono fermati: gli imprenditori preferiscono mettere i profitti nella finanza. L’Istat registra che gli investimenti in beni reali (impianti, macchinari, software), negli ultimi cinque anni, sono diminuiti di 300 miliardi di euro, mentre sono aumentati di una cifra analoga quelli in prodotti finanziari.

In questo scenario, non è di uno stimolo congiunturale – come sarebbe un generico innalzamento del tetto al disavanzo di bilancio – quello di cui l’Italia ha bisogno. In altri paesi, un taglio di tasse o un aumento di spesa può servire a rimettere in moto una macchina economica appesantita. Da noi, l’effetto svanirebbe presto: flat tax e salario minimo possono mettere un po’ di soldi in più nelle tasche degli italiani, ma la breve fiammata della domanda non servirebbe a indirizzare gli investimenti e a rilanciare il paese. Il problema non è arrivare al 3 per cento, ma, anzitutto, sapere cosa farne.

Maurizio Riccidi Maurizio Ricci   
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