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"Sono Giorgia e studio da premier": il governo Meloni c'è ma mancano alcuni fondamentali

Le incognite sono le percentuali degli alleati e, soprattutto, il ‘contesto’ internazionale. Infine, ecco che rispunta pure la Bicamerale

Ettore Maria Colombodi E. M. Colombo   
Giorgia Meloni (Foto Ansa)
Giorgia Meloni (Foto Ansa)

 

“Le riforme? Voglio farle con tutti”. Sulla strada che la vede proporsi, ogni giorno di più, in veste istituzionale, quasi british - altro che la ‘pescivendola’ con lui l’ha apostrofata, in tv, il giornalista Alan Friedman (il quale deve avere uno scarso rispetto per un nobile e antico lavoro) - Giorgia Meloni fa un salto indietro di 25 anni e, in modo intelligente, ‘apre’ al centrosinistra. Nel rilanciare il presidenzialismo (“La madre di tutte le leggi”) si dice favorevole a una di quelle cose che, in politica, almeno nella II Repubblica, non hanno mai portato fortuna, la Bicamerale, sul modello di quella con cui il leader dell’allora Pds, Massimo D’Alema, provò – senza riuscirci – ad accordarsi con Berlusconi e, insieme, scalzare Prodi dal suo governo che il Pds appoggiava: “È una delle soluzioni su cui sono d'accordo, sono per aprire un dibattito”. Ecco, appunto, il dibattito – quelli che, da sempre, non si negano a nessuno.

Il confronto a Porta a Porta

Tutto accade, tanto per cambiare, nella Terza Camera della Seconda Repubblica, negli studi di Porta a Porta, ospite del ‘salotto buono’ del sempiterno Bruno Vespa, dove la leader di FdI arriva con il senatore Giovanbattista Fazzolari, che ha in cura, da mesi, il programma di FdI.

La candidata premier risponde a distanza a Enrico Letta, che avverte tutti sui rischi di una rappresentanza ‘bulgara’ del centrodestra in Parlamento come se, l’eventuale ‘Bulgaria’ non fosse colpa di un centrosinistra ormai esangue, in crollo verticale nei consensi e nella credibilità, spolpato, ogni giorno in più, dai 5Stelle al Sud e dal Terzo Polo al Nord. La leader di Fratelli d'Italia dice, in buona sostanza, che non ha alcuna intenzione di cambiare la Costituzione a colpi di maggioranza. Nessun “allarme democratico”. Con una sola avvertenza, ribadita fuori dagli studi Rai, prima di infilarsi di nuovo in macchina: “Non mi faccio impantanare dalla sinistra, se pensano di ricominciare con i giochetti non andiamo da nessuna parte”. Moniti da post- voto, più che altro, come vedremo meglio più avanti.

“Se vinco, il premier lo faccio io” dice al Colle

In via Teulada, Meloni torna a parlare di sé come la grande favorita della corsa elettorale. E non molla di un millimetro su quello che, in caso di vittoria, sarà il suo ruolo (da premier), a costo di ‘bordeggiare’, però, attorno a prerogative che sono solo del Quirinale (l’incarico di governo). Prima commenta alcuni retroscena che lei stessa cita e secondo i quali Mattarella potrebbe dare l'incarico a una personalità indicata dal Pd, nel caso in cui – pur se con il centrodestra vincente - i dem risultassero il primo partito davanti a FdI. “Uno dei motivi per votare per noi è scongiurare questa ipotesi”, afferma la Meloni, la quale, però, sa benissimo che, in tal caso, si entra nel periodo ipotetico di III tipo, quello dell’irrealtà.

Man mano che ci si inoltra nella campagna elettorale, la romanissima ed a oggi deputata ‘semplice’ di FdI rivendica tutti i suoi diritti. E spazza via definitivamente anche altri dubbi: a domanda diretta, dice che non è nei suoi progetti sottoporre al Capo dello Stato nomi diversi dal suo, per l’alto incarico: “Se gli italiani diranno che siamo i primi nella coalizione proporrò al Presidente della Repubblica di poter guidare il governo. Non ho sempre voluto essere in prima fila ma nemmeno mi sono mai tirata indietro”.

I sondaggi prevedono una vittoria schiacciante

Del resto, i timori della Meloni, oggi, sono altri. E partono proprio dal ‘giorno dopo in cui’, il 25 settembre, si sapranno i risultati del voto. E, cioè, da quando e se, come dicono tutti i sondaggi – i quali, di solito, ‘non ci pigliano’ mai, ma stavolta si dubita sbaglino tutti e in modo così colossale - la vittoria del centrodestra alle urne trasformerà una maggioranza relativa di voti (46-47% circa) in una maggioranza assoluta di seggi (58-60%). Da questo punto di vista, la leader di FdI sta in ‘’na botte de fero’, come direbbero a Roma. Infatti, il ‘combinato disposto’ del Rosatellum - cioè l’effetto di una legge per un terzo maggioritaria (collegi uninominali) e due terzi, invece, proporzionale (collegi plurinominali), coniugata al drastico tagli dei parlamentari, comporterà, con buona approssimazione, che la coalizione oggi data da tutti gli istituti di sondaggi come ‘vincente’, cioè il centrodestra – le stime oscillano, per stare alle ultime rilevazioni, tra il 46,2% di Swg e il 47,2% della Super-media di tutti i sondaggi di Youtrend - farà en plein nei collegi uninominali maggioritari.

In buona sostanza, il 46-48% di voti può trasformare una maggioranza relativa (in voti) in una solida maggioranza assoluta in seggi (58-60%), grazie alle vittorie nei collegi maggioritari. “Solo in 18 di essi (16 Camera e 8 Senato) la gara è ancora aperta col centrosinistra, ma con 16-18 punti di distacco”, spiega Lorenzo Pregliasco, di Youtrend, “il distacco è di fatto incolmabile”. Ergo, il centrodestra non avrà alcun problema, in Parlamento: 248/268 seggi alla Camera (quorum: 201) e 126/136 seggi al Senato (quorum 101) gli permetteranno una navigazione più che tranquilla.

 

I timori della Meloni: Esempio 1. Gli alleati non devono ‘andar male’

La ‘grandezza’ della vittoria del centrodestra alle elezioni. Lega e Forza Italia, si sa, continuano a subire emorragie di consensi. La Lega è crollata fino al 12% e rischia il ‘sorpasso’ del M5s, ormai dato stabilmente al 12-14%, mentre FI è tracollata sotto il 7% e rischia un sorpasso ancor più disonorevole, quello del Terzo Polo. Tutto questo, paradossalmente, preoccupa ‘Giorgia’, che ora ‘teme’ alleati troppo deboli. Proprio lei, infatti, ha insistito fino allo stremo per una chiusura unitaria della campagna elettorale che, con Berlusconi e Salvini, si terrà il 22 settembre in quella stessa piazza del Popolo dove il giorno dopo chiuderà la campagna Letta. Inoltre, oltre a un problema di equilibri interni, ci sono pure quelli europei e internazionali. Pare brutto, in buona sostanza, far apparire, agli occhi degli alleati Ue e Nato, un’alleanza politica e, dopo, una maggioranza di governo, in cui la ‘marea blu’ (gli avversari direbbero ‘nera’) sopravanza, e anche di parecchio, persino la somma dell’ondina verde e del torrente azzurro. Siamo al paradosso: Meloni vuole vincere, ma dovendo ‘convincere’, non vuole ‘stravincere’.

Salvini ‘non aiuta’, Berlusconi invece fa il suo

In questo, però, soprattutto Salvini, non aiuta e non solo per le sue posizioni ‘filo-putiniane’ e ‘pancia-fichiste’ su sanzioni alla Russia e guerra. Paradigmatica la foto in cui, a Cernobbio, mentre il leader leghista parla, la leader di FI si mette, letteralmente, “le mani nei capelli”, anche se lei, ieri, da Vespa, ha detto “vi sbagliate, le mani nei capelli me le sono messe mentre parlava Letta”. Certo è che, al netto delle (finte) smentite (“con Matteo ogni tanto abbiamo dei battibecchi, ma montarli ad arte no”), all'alleato Salvini la leader di FdI ribadisce, a brutto muso, la sua posizione su energia (“Per rifondere i sovraccosti da qui a marzo servono 3 o 4 miliardi di euro dai fondi europei: non serve lo scostamento di bilancio”) e sanzioni alla Russia (“Non mi torna che non stiano funzionando, qualcosa stanno facendo. Mosca ci metterà 10 a anni a recuperare il Pil prima della guerra”).

Berlusconi, invece, che pure fa il suo – ha detto chiaramente di volere una donna premier e, a differenza di Salvini, non ‘punta’ a palazzo Chigi - non ‘deve’, così spera la Meloni, risultare troppo debole (lui e FI, o ciò che ne rimane) perché l’anello debole della coalizione è anche il solo “anello del Potere” (citazione di Tolkien, autore caro a una ‘tolkeniana’ doc) che collegherà il futuro governo di centrodestra al PPE e, cioè, alla famiglia politica Ue che ne decide i destini.

La Ue è già all’opposizione del futuro governo

Ed è pur vero che Manfred Weber, segretario del PPE, ha detto, esplicitamente, di veder di buon occhio l’affermazione del centrodestra, “oggi in Italia e domani in Spagna”, dove il PP spagnolo potrebbe scalzare i socialisti e proprio con l’aiuto di Vox, partito gemellato con FdI e alleanza che gli viene, molto spesso, rimproverata perché Vox è un partito di ‘ultra-destra’. O che i Conservatori e Riformisti, di cui la Meloni è presidente, hanno rapporti “di buon vicinato” con il PPE, a differenza del gruppo in cui siedono Lega e FN della Le Pen. Resta altrettanto vero, però, che l’ostilità della ‘catena di comando’ dell’Ue attuale (Commissione-Consiglio-Bce) resterà forte, caparbia, ostinata, a un governo che, oggettivamente, sarà di ‘destra-centro’. Senza dire che, sul PSE, non si può di certo contare. Meloni, da questo punto di vista, ha già messo in agenda un tour nelle principali capitali europee, quando e se diventerà premier. Dalla UK della nuova leader Tory, Liz Truss (donna, guarda un po’), ai Paesi più ostici, Francia e Germania, oltre ai paesi Ue ‘amici’ (Polonia, Cechia, etc.).

 Il rischio di rimanere "schiavi dell'Europa"

Ma non può bastare a tacitare le richieste di una manovra economica ‘draconiana’ che, garantito al limone, arriveranno da Bruxelles. Altro che flat tax e altre amenità simili. Il vero rischio è “rimanere schiavi di un’Europa in cui crediamo e in cui vogliamo restare, ma che non può pensare di darci lezioncine, scrivere la Legge di Bilancio al posto nostro, imporci dixtat” dicono da FdI. I rapporti di oltre Atlantico, invece, sono saldi. Molto più rassicurante, da questo punto di vista, è il rapporto con gli Usa. Al netto del rapporto – storico e saldo – della Meloni con i Repubblicani Usa (Trump compreso, che però ora elogia Conte e qui siamo, almeno a livello di ‘alte sfere’, al ‘bacio della Morte’, un po’ come quando Renzi dice che “il prossimo segretario del Pd dovrebbe farlo Stefano Bonaccini”, il quale subito si tocca), il legame transatlantico è forte e saldo, con la Meloni, agli occhi di Washington, nonostante una presidenza, quella Biden, molto ‘democratica’. L’ambasciata Usa a Roma manda, non a caso, messaggi tranquillizzanti che, in buona sostanza, dicono: Meloni (e Berlusconi) terranno a freno Salvini e le sue ‘fregole’ di addolcire le sanzioni contro la Russia o di allentare gli impegni Nato.

I timori di Crosetto: “addà passa’ a nuttata”

Esempio n. 2. La situazione sociale ed economica del Paese “oggi è drammatica e lo sarà ancor di più nei prossimi mesi. La Ue, sul price cup al tetto del gas non ha deciso nulla, solo chiacchiere e distintivo, i rincari delle bollette e la crisi occupazionale stanno mettendo in ginocchio le aziende e a rischio il futuro di milioni di famiglie che non hanno più un reddito decente. Servirebbe un clima di concordia nazionale, di pacificazione, ma temo scontri, proteste, il soffiare sul fuoco di schegge impazzite” – ragiona con degli amici extrapolitici - uno dei più fidati ‘consiglieri’ di Meloni, forse il principale, sempre lui, il buon Guido Crosetto.

Il quale non si è ricandidato, nonostante le forti, pressanti, richieste della stessa Meloni e che non vorrebbe assumere nessun incarico di governo (Crosetto presiede, come detto, una importante società aerospaziale, l’Aiad), ma che potrebbe svolgere, nel governo Meloni, un ruolo chiave. Un dicastero di peso, certo, ma anche ben altro. Un ruolo, il suo, di garanzia, per una lunga serie di ‘centri di potere’ e di influenza che viene già descritto a metà strada tra quello di Gianni Letta con Berlusconi e quello di Giorgetti con Salvini.

Le consultazioni e il rischio ‘format 2018’

Si arriva, così, di riffa o di raffa, al ‘post-elezioni’. Per la precisione, dopo il voto del 25 settembre e la prima riunione delle Camere (13 ottobre), al 15-20 ottobre, quando le Camere avranno formato i loro organi al completo e inizieranno le consultazioni di rito al Quirinale. Che l’incarico – e ‘pieno’ – vada alla Meloni, davanti a un risultato elettorale probabilmente schiacciante, non vi è ombra di dubbio. Tutti scrivono dei ‘buoni’ rapporti tra Draghi e Meloni (vero), nessuno ha notato, o capito, che anche i rapporti tra Meloni e Mattarella, che dal Colle vigila, osserva, scruta, appunta e nota tutto, ogni mossa e ogni dichiarazione, lo sono pure.

Ma se la Meloni non riceverà – dal Quirinale come dalla Ue e persino dai roboanti e riottosi alleati, specie Salvini – precise ‘garanzie’ di poter formare il governo “nel pieno delle sue funzioni” e delle sue capacità, si potrebbe giungere al clamoroso colpo di scena. La Meloni che resta, ferma, ‘congelando’ i voti di FdI in Parlamento, a guardare gli altri che si accapigliano sul governo, dicendo, in buona sostanza: un governo in carica c’è, vada avanti, fin quando non sono certa di poter governare, il mio governo non nascerà. Una situazione da incubo, uno ‘stallo alla messicana’ che ricorda, pericolosamente, i tre mesi di vuoto politico e istituzionale del 2018. Quando nessuno riusciva a formare un governo. Solo Mattarella riuscì a sbrogliare la matassa, ma dopo tre mesi di tentativi andati a vuoto e di un vero corto-circuito con in più la ‘minaccia’ del ritorno a nuove urne e pure la richiesta di impeachment (by Di Maio).

Un genere giornalistico tipico: il ‘toto-ministri’

Per quanto riguarda, invece, uno dei sottogeneri giornalistici più in voga a ogni nascita di governo, il ‘toto-ministri’, i nomi sono tanti, ma i principali vengono tutti, ovviamente, dal lato FdI. Qui c’è una sola certezza: se non andrà a guidare BankItalia, come ‘caldeggia’ l’attuale premier, Mario Draghi, sarà Fabio Panetta, oggi nel board della BCE, il titolare del Mef, non foss’altro perché “l’Europa ce lo chiede” nel senso che solo lui può ‘tranquillizzare’ la Ue, oltre che pure mercati, Borse, grandi investitori.

Poi, al netto di Crosetto, il solo che ha il lusso e/o l’imbarazzo della scelta, sempre che ‘scelga’ di andarci, al governo (Difesa, Mise, Lavoro…), si parla con insistenza di Carlo Nordio (Giustizia), Raffaele Fitto (Affari regionali), Giovanni Donzelli (Turismo/Mare), Adolfo Urso (Interni), mentre Giulio Tremonti non avrebbe più che i Beni culturali e non il suo Mef. Invece, per quel che conterà la Lega (non molto), Salvini sarà al governo, ma di certo non agli Interni (il Colle avrebbe posto il suo ‘veto’…), di sicuro ci sarà posto per Giancarlo Giorgetti (Mise), Massimo Garavaglia e Gianmarco Centinaio (Agricoltura), forse tutti riconfermati.

Il pezzo da novanta di FI, Antonio Tajani, si è già prenotato, e si vede già predestinato, agli Esteri, ma si farà spazio pure a Licia Ronzulli (Istruzione) e Paolo Barelli (Sport). Ciliegina sulla torta, Marcello Pera, alle Riforme. Come sanno, ormai anche i sassi, la Meloni lo vuole lì a fare quello di cui si diceva prima: la Bicamerale.

L’ultimo rintocco: le riforme istituzionali

“Possiamo ripartire – spiega Meloni, da Vespa - dal sistema francese. Chi propone il premierato, chi il sindaco d'Italia. L’importante è che si parli di questa che è la madre di tutte le riforme. La Bicamerale è una delle soluzioni su cui sono d'accordo. Io vorrei fare le riforme con tutti ma non mi faccio impantanare dalla sinistra”, spunta le armi di Letta che grida all'allarme democratico. Le riforme, lascia intendere la Meloni, le faremo a larga maggioranza e con l'accordo di tutti, anche se, in buona sostanza, vuol dire con Az-Iv, che si sono già detti a favore del ‘premierato’, non certo col Pd, che si opporrà in modo strenuo. Perché quello è il destino del Pd. L’opposizione. Poi, se Enrico Letta sarà ancora alla sua guida o se arriveranno altri leader (vedi alla voce: Stefano Bonaccini), questo sarà un problema ‘tutto loro’.

Ettore Maria Colombodi E. M. Colombo   
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